Ramallah, la Beverly Hills del Medio Oriente Cronaca di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 12 febbraio 2010 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Ramallah Beverly Hills»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/02/2010, a pag. 1-II, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Ramallah Beverly Hills ". Dispiace non poter far vedere ai nostri lettori le foto dei lussuosi palazzi di Ramallah pubblicate sul FOGLIO, le uniche disponibili sono le solite che non riflettono la realtà così ben descritta da Raineri.
Ramallah. Il prezzo delle case è triplicato in due anni, si aprono caffè di lusso, boutique di moda italiana e saloni del mobile, gli investitori stranieri scommettono con sicurezza centinaia di milioni di dollari – e questo soltanto per accaparrarsi il settore dei telefoni cellulari. I turisti girano in centro, la diaspora palestinese specula sul mattone – diecimila di loro lo fanno grazie alla pensione che ricevono dall’America – i giornalisti stranieri fanno shopping nei negozi d’arte araba. Ma il benessere ritrovato è una notizia su cui ai palestinesi di Cisgiordania piace mantenere il riserbo. C’è da conservare intatta l’immagine di un popolo bisognoso e di una terra dove nulla può cambiare, c’è da non irritare i cugini di Hamas che giù a sud, da Gaza, chiedono solidarietà nella guerra infinita contro Israele e c’è da non fare sapere al popolo l’effettivo ammontare del denaro che circola. Il rischio è che la troppa corruzione scateni troppi malumori: due agenti segreti del presidente Abu Mazen hanno appena messo in circolazione un video hard scandaloso, come monito per il governo. Ramallah. Samar Daoud è bionda, trentacinque anni, maglione candido a collo alto. Apre con un sorriso la porta a vetri della boutique nel centro di Ramallah, capitale dei territori amministrati in autonomia dall’Autorità palestinese. Fuori gli operai stanno ancora lavorando attorno alla vetrina e all’insegna, “Lifestyle”. Dentro, begli interni bianchi e tutta moda italiana. Scarpe, stivali, vestiti della collezione invernale. Gucci. Prada. Roberto Cavalli. Just Cavalli. Dolce&Gabbana. Samar è la proprietaria della boutique ed è lei che telefona direttamente in Italia per fare gli ordini. “Ho cominciato sei mesi fa – dice al Foglio e si dondola, divertita di rispondere alle domande di un giornale italiano, il paese fonte di tutte le morbide meraviglie che la circondano – ho aperto il negozio pagando di tasca mia e ora sono già in attivo. Lo so che può sembrare strano, da fuori, ma la moda qui funziona. La gente compra”. E i prezzi? “Dipende. Un paio di scarpe di solito costa 300 euro. Io la considero anche una missione, si tratta di cambiare la testa e le aspettative dei palestinesi”. La missione di Samar è decisamente più avanti di quanto lei stessa non pensi, dal suo osservatorio griffato e privilegiato. Ramallah vive in silenzio il suo strepitoso boom economico. Negli ultimi due anni il prezzo delle case, che già era in salita costante fin dal 2005, è cresciuto del 300 per cento. Circolano turisti occidentali e soldi stranieri. La telecom kuwaitiana Wataniya ha deciso da poco di investire in Cisgiordania 700 milioni di dollari, “perché il mercato dei telefoni ha un potenziale immenso e la situazione è stabile”, dice Allan Richardson, irlandese, il ceo della branca palestinese. In tutta Ramallah si stagliano gli enormi cartelloni rossi di Wataniya, “bel colore vero? Molto catchy, ti prende”. Lo stesso fervore imprenditoriale percorre tutta la capitale. “Guarda che opere d’arte!”. Lo scrigno viene dalla Siria, la sua superficie è coperta da arabeschi, è piccolo e pesante. Vale ventiduemila dollari. Le daghe d’argento con il manico in osso sono nei foderi, disposte a raggera su un tavolo di vetro e partono da mille dollari ciascuna. Per i tappeti non c’è proprio altro spazio, sono dappertutto, sul pavimento impilati a strati, sui mobili, sulle pareti, pendono dal piano di sopra “che è tutto pieno!”. Dentro l’infusione del tè ci sono anche foglie di menta e salvia e la proprietaria della galleria d’arte è raggiante. “Guarda che galleria, mi è costata mezzo milione di dollari qui nel centro di Ramallah, ma l’ho già riempita con roba per un milione di dollari”. Clienti? “Il sessanta per cento sono occidentali, qua ne girano molti”. Anche italiani? “Sì, per esempio i giornalisti Rai. Ma il quaranta per cento dei miei clienti sono palestinesi. Spesso sono donne. Da sole. Vengono, scelgono, comprano e poi via, fino alla volta dopo”. I palestinesi che conoscono bene gli affari e l’economia parlano un inglese soffice e chiaro. I “major indicators”, dicono, sono tutti ottimi. I major indicator in questo caso sono quei fattori – l’aumento del prezzo delle case, l’arrivo di investitori stranieri – che indicano a spanne se un’economia sta bene ed è arrivato il momento di arricchirsi o se invece sta male ed è il caso di preoccuparsi. Negli ultimi due anni il mercato immobiliare a Ramallah è impazzito in positivo. Il valore delle case prima è raddoppiato e poi è triplicato, dice al Foglio Bashir Barghouti, uno dei grossi costruttori dell’area. A Matzioun, il quartiere più bello della capitale della Autorità nazionale palestinese, un donum di terreno, che equivale a circa mille metri quadri, ora parte da un milione di dollari – eppure ci sono operai che costruiscono a ogni angolo, c’è anche un mall da cinque piani a forma di torrione quasi finito. Barghouti ricorda di quando nel 2002 comprò con alcuni amici un lotto fuori da Matzioun per 150 mila dollari: adesso anche quello vale un milione, il valore è sei volte tanto. Esce sul balcone e indica attorno con la mano – quella laggiù? “E’ la linea degli insediamenti israeliani e non possiamo costruire oltre. La domanda sul mercato edilizio rimane alta lo stesso, anzi i limiti fanno alzare i prezzi ancora di più perchè lo spazio rimanente è limitato, ma gli investitori continuano a venire dall’estero per comprare e per costruire. L’anno scorso sono arrivate due grosse compagnie dal Qatar. E poi ci sono anche gli investitori palestinesi, soprattutto quelli della nostra diaspora. La maggior parte è andata magari trent’anni fa in America, ha accumulato una buona somma e ora torna per costruirsi una casa qua”. Barghouti ride con la sigaretta in mano, “sai che ci sono almeno diecimila famiglie a Ramallah che ricevono la pensione della Social security americana? E ora vogliono il mattone”. Dice che a questo punto ci sono due schieramenti: quelli che dicono ho un pezzo di terra, se la coltivo ci faccio al massimo venti-venticinquemila dollari all’anno, ma se la vendo ricavo tre milioni subito; e quelli che pensano che è da pazzi vendere oggi, perché l’anno prossimo i prezzi saranno sconsideratamente ancora più alti. La loro economia, dicono nel loro inglese tranquillo, è in crescita impetuosa, roba da Shanghai, quest’anno potrebbero toccare la doppia cifra, dieci per cento. E dicono anche che finalmente è tornato il denaro, tanto denaro in circolazione. “Pumped into the system”. Secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2009 la crescita economica palestinese, mentre quasi tutto il resto del mondo annaspava in crisi, è stata del 7 per cento. Secondo il primo ministro Salam Fayyad, che del Fondo monetario è stato funzionario, già l’anno scorso la crescita avrebbe superato la soglia della doppia cifra e sarebbe stata dell’11 per cento. I palestinesi istruiti sono i custodi di questo segreto affabile tra i meglio protetti del medio oriente: da quando Israele ha lasciato la responsabilità all’Autorità palestinese e da quando Hamas s’è impadronita del troncone sud, la Striscia di Gaza, per proseguire da sola la guerra contro gli ebrei, la Cisgiordania ha cominciato a godere di un benessere e di una prosperità mai provate da quarant’anni. E se le condizioni non cambieranno, il futuro promette con lentezza di essere ancora meglio. Il manager della catena Harbawe ha 31 anni, cammina al primo piano del suo mall di Ramallah tra le esposizioni di mobili, sceglie un salotto e si mette a parlare di business. L’anno scorso più venticinque per cento di vendite. In tutte le fasce di prodotti: vuol dire che comprano i palestinesi ricchi e anche quelli meno ricchi. La sua catena ha sei grandi centri, uno pure a Hebron e un altro a Jenin, che sono luoghi simbolo della guerra tra israeliani e palestinesi. Alla nuova condizione è meglio però non fare pubblicità, per tanti motivi. C’è da perpetuare l’immagine eterna dello stallo tra palestinesi e Israele; c’è da confermare la condizione insopportabile della parte palestinese; c’è da sbugiardare la “pace economica” offerta dal premier Benjamin Netanyahu, che ha detto: considerato che non c’è una soluzione in vista, per ora lasciamo le cose come stanno e intanto prosperiamo assieme. Fayyad, il primo ministro, ha ammesso che la crescita record dell’anno scorso è stata aiutata anche dalla buona performance di quella israeliana. Guai se si sapesse in giro che effettivamente così si può prosperare. C’è anche il motivo Hamas, giù a sud. L’organizzazione ha conquistato da due anni il controllo militare e politico della Striscia, ma l’ha trasformata in una zona di guerra permanente. Base di lancio per razzi e mortai, traffico d’armi nei tunnel, obbiettivo per i bombardamenti israeliani. Su a nord i fratelli palestinesi pensano: facciamo pure affari, ma senza ostentare troppo, perché chi lo facesse rischierebbe di passare da traditore della causa. Ma non per questo quando parlano in privato si trattengono: giù a Gaza il rischio bellico blocca tutti gli investimenti, chi getterebbe denaro in una zona che per principio è stata eletta fronte di guerra? E fosse soltanto la tensione esterna con Israele. C’è pure l’ultraconservatorismo di Hamas che guasta l’economia, gli investitori non arrivano, non vogliono arrivare, “preferiscono qui da noi, dove per fare affari non sono anche costretti a cambiare radicalmente stile di vita e visione personale delle cose, possono uscire di sera a farsi un caffé o andare al cinema. Certo, se ci sono gli imprenditori che vanno a lavorare in Arabia Saudita perché non a Gaza? Beh, i sauditi almeno in cambio di tutte le rinunce offrono i soldi del petrolio, con loro puoi fare da subito affari veri”. Un altro motivo? L’immagine dei palestinesi attrae aiuti generosi da tutto il mondo, non c’è bisogno di annunciare con squilli di tromba che la situazione sta lentamente evolvendo in meglio. L’Unione europea cinque giorni fa ha consegnato 21 milioni di euro all’Autorità palestinese, per pagare gli stipendi degli impiegati di stato. Parte dei soldi è stata levata dai fondi per alimentare la centrale elettrica di Gaza, che ora garantirà le forniture soltanto 12 ore al giorno. C’è proprio bisogno di sottolineare, magari pubblicamente, con i giornalisti, che le cose stanno andando meglio? Racconta Tom Gross, ex corrispondente del Sunday Telegraph, di avere sentito il corrispondente dal Cairo della Bbc, Christian Fraser, ripetere tre volte in 45 minuti la stessa frase ai suoi ascoltatori: “Very little is changing for the Palestinian people on the ground”. “Per i palestinesi non cambia nulla”. Il messaggio: la condizione dei palestinesi è immodificabile. La Bbc, e con lei il grosso dei media internazionali, è un po’ come il poliziotto piantato a braccia larghe davanti alla notizia: circolare, circolare, non c’è nulla da vedere. Salvo poi tornare in patria dalla moglie con un gioiello d’artigianato arabo. Infine, il motivo ultimo per non pubblicizzare il nuovo benessere è che la sua distribuzione non è equa. Basta dare un’occhiata allo stato disastroso delle strade, per percepire che tutto non quadra. Due giorni fa Canale 10, una rete israeliana, ha annunciato di avere un video scandalo che ritrae Rafiq Hosseini, un braccio destro del presidente Abu Mazen, con la segretaria-amante. Un grande classico degli uomini di potere, che si è trasformato in un ricatto pensato da due ex capi dei servizi segreti palestinesi per costringere il presidente a ripulire dai corrotti il suo staff. La Cisgiordania è un posto dove boutique private e magioni di lusso sono connesse male da strade pubbliche in condizioni pietose.
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