"Israele: il nemico interno viene a galla"
di David Braha, foto di Ruben Salvadori
In questi giorni in Israele si è acceso un dibattito su un argomento apparentemente marginale, che di certo non influenzerà le sorti o il destino dello Stato ebraico: tuttavia il solo fatto che per la prima volta una critica a quelle ONG israeliane che appoggiano ideologicamente e materialmente i nemici di Israele fa la sua comparsa sulle pagine dei quotidiani locali, rappresenta di per sé una piccola svolta nel panorama del dibattito pubblico nazionale. Ma facciamo un passo indietro.
Qualche giorno fa il gruppo studentesco sionista Im Tirzu ha pubblicato su uno dei maggiori quotidiani israeliani, il Jerusalem Post, un’inserzione che attaccava apertamente il New Israel Fund (NIF), fondo per la difesa dei diritti umani che finanzia numerose ONG israeliane, ed il suo presidente Naomi Chazan, ex-deputata parlamentare e colonnista dello stesso Jerusalem Post. O meglio ex-colonnista, in quanto appena pubblicata l’inserzione Chazan ha minacciato azioni legali contro il quotidiano, il quale di tutta risposta ha deciso di sollevarla dal suo incarico di editorialista. Il motivo di tanto rumore? Il 92% delle documentazioni che demonizzano Israele nella Relazione Goldstone, recitano le parole firmate Im Tirzu, provengono da 16 organizzazioni non-governative israeliane che solo nell’arco del 2008-2009 hanno ricevuto dal NIF quasi 8 milioni di dollari e, così facendo, il fondo ha dimostrato di supportare più o meno indirettamente i promotori della demonizzazione di Israele e delle sue azioni.
Inutile dire che la vicenda ha immediatamente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, da subito spaccata in due. Da una parte si trovano quelli rimasti indignati dall’attacco di Im Tirzu e dalla conseguente reazione del Jerusalem Post: tanto l’inserzione quanto il licenziamento di Chazan dal quotidiano, sono degli atti volti a delegittimare l’immagine del NIF e del suo presidente, oltre a rappresentare una grave violazione della libertà di parola e di espressione. Inoltre Israele non deve e non può essere esente da critica nel momento in cui commette degli errori. Ma a queste affermazioni ribattono gli stessi membri di Im Tirzu e i critici del NIF e di quelle ONG israeliane votate alla demonizzazione di Israele: nascondersi dietro la libertà di parola è soltanto un pretesto per deviare l’attenzione dal vero fulcro della questione, ovvero il fatto che la critica è assolutamente legittima, ma la demonizzazione è tutt’altra storia. “I diritti umani vanno applicati anche dall’altro lato di Gaza, come a Sderot per esempio, ma lì non ci va nessuno di quei gruppi. Semplicemente, non gli interessa” afferma un portavoce di Im Tirzu. Non solo, ma se il New Israel Fund considera che in una democrazia sia giusto collaborare con la commissione Goldstone, inviata da un organo apertamente anti-israeliano come il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, e che sia giusto entrare a far parte di una campagna di delegittimazione ai danni del proprio paese, si dimentica che c’è anche un’altra cosa che in democrazia è assolutamente legittima, ovvero rivelare pubblicamente la verità sui finanziamenti del Fondo e sulle azioni delle organizzazioni che godono di tali finanziamenti.
È quindi sull’onda di queste tesi che il confronto tra i le due parti occupa già da qualche giorno le pagine di praticamente tutte le maggiori testate israeliane. Tuttavia sarebbe opportuno soffermarsi riflettere non solo sulle diverse opinioni espresse, e sulle motivazioni portate a loro supporto, ma anche e soprattutto sull’apparizione stessa di un argomento che fino ad ora non era stato praticamente mai affrontato nell’arena del dibattito pubblico in Israele. La critica così aperta e schietta di Im Tirzu verso il NIF ed il suo presidente potrebbe infatti rappresentare soltanto la punta di un iceberg molto più grande di quello che sembrerebbe all’apparenza. È infatti noto che tutti gli israeliani, uomini e donne, prestano obbligatoriamente servizio di leva nell’esercito, e che tale servizio richiede grandi sacrifici sia fisici, materiali, ed emozionali. È altrettanto noto che se gli individui di un’intera popolazione accettano di mettere a rischio la propria vita negli anni di servizio militare, lo fanno per un motivo considerato da tutti giusto, ovvero la difesa dello Stato d’Israele e della sua popolazione. Per questi motivi non dovrebbe sorprendere il fatto che la continua campagna di delegittimazione di Israele, delle sue azioni e del suo esercito, intrapresa dal New Israel Fund e dalle ONG da esso supportate risulti indigesta a buona parte della popolazione israeliana, soprattutto quando queste critiche estreme sono rivolte solo allo Stato Ebraico e non toccano minimamente i terroristi e coloro che li supportano: combattere per la difesa dei diritti umani è più che giusto, ma farlo a senso unico ignorando le pene patite dalla popolazione israeliana, è un affronto vero e proprio. Quindi, a quanto sembra, Im Tirzu è stato il primo a portare all’ordine del giorno un argomento molto delicato, un disagio fino ad ora molto sentito ma mai esplicitato da gran parte della società israeliana nei confronti di organizzazioni considerate in un certo senso “traditrici”. In altre parole, l’inserzione sul Jerusalem Post è stata probabilmente solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma il vero dibattito è appena iniziato.