La filosofia ebraica.
Dal Medioevo all’età contemporanea Maurice-Ruben Hayoun
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Sono cacciatori di frodo, che s’introducono furtivamente in una riserva proibita e, come tutti i bracconieri, cercano di nascondersi. Ma la preda è ghiotta e si può correre qualche rischio. A sostenere la parte di ospiti indesiderati sono i filosofi, capitati per avventura nel giardino della Torah. Questa metafora della caccia proibita compare nelle prime pagine del libro di Maurice-Ruben Hayoun. Il lettore è avvisato: una storia della filosofia irta di difficoltà teologiche, stretta tra l’autorevolezza della rivelazione biblica e le insidie del logos greco. Nel mezzo quanti hanno scelto il delicato ruolo di mediatori. Hayoun non ha dubbi, “per fare della filosofia ebraica bisogna senz’altro essere ebrei”, ma anche così si rischia di perdersi e di ritrovarsi assai lontani dal punto di partenza; basti per tutti il caso celeberrimo di Baruch Spinoza, ebreo non-più-ebreo.
La trattazione di Hayoun prende le mosse da Saadia Gaon, tra la fine del IX e gli inizi del X secolo. Viene lasciata da parte, intenzionalmente, tutta la prima grande stagione dell’incontro tra monoteismo giudaico e sapienza ellenica. Manca insomma Filone Alessandrino col suo allegorismo, ed è un vuoto piuttosto ingombrante. E’ vero infatti che i pensatori ebrei del Medioevo non si richiamavano direttamente a Filone, ma il tentativo di conciliare le verità bibliche con gl’insegnamenti di Platone e Aristotele è comunque all’origine di ogni declinazione monoteistica della filosofia. Dalla cultura giudeo-alessandrina alla patristica cristiana, da questa alla teologia razionalistica islamica, e poi dai pensatori musulmani a quelli ebrei dell’età di mezzo, il filo dell’incommensurabilità tra verbo divino e ragione umana si snoda per tutto il primo millennio dell’era volgare.
Saadia Gaon, nato in Egitto e vissuto in Mesopotamia, cercò di riannodare questo legame attraverso l’esegesi, lo strumento principe di ogni filosofo ebreo. Il suo infatti non è mai un ragionare teoretico ma sempre pensiero in situazione, che trae spunto dal dettato della Scrittura e incessantemente vi ritorna. Il volume di Hayoun si sofferma poi su Mosè Maimonide, medico illustre che volle essere guaritore anche di quanti erano afflitti dall’indecisione, e non sapevano se credere senza domandarsi perché, o piuttosto continuare a interrogarsi sulle ragioni dell’essere. Dopo il pensatore di Cordoba, l’autore si concede una lunga digressione sulla qabbalah tra Due e Trecento, interessante ma fuori tema. A meno che non si accetti l’ipotesi secondo cui anche il rovesciamento della filosofia appartiene a buon diritto alla filosofia stessa.
Meno problematica è la seconda parte del volume, dedicata agli sviluppi post-maimonidei, dal tardo Medioevo al Rinascimento, fino all’incontro-scontro con l’Illuminismo. Qui spiccano i profili dei pensatori ebrei tedeschi, da Moses Mendelssohn a Martin Buber e a Gershom Scholem. E’ il racconto di una battaglia combattuta con sorti alterne per aprirsi alla modernità senza rinunciare alla tradizione. “Nessuna filosofia e nessun sistema sono mai riusciti a fissare il giudaismo in una cornice rigida e definitiva”, conclude Hayoun, forse perché, come afferma un proverbio tedesco, “I pensieri non pagani diritti doganali”. Un detto certamente assennato, anche se vale la pena di ricordare il commento sornione di Karl Krauss: “E’ vero, però danno un sacco di grane”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore