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David Braha
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Amsterdam-Detroit: gli insegnamenti di un fallito attentato 21/01/2010

 Amsterdam-Detroit: gli insegnamenti di un fallito attentato, di David Braha
foto di Ruben Salvadori

A meno di un mese dal fallito attentato sul volo 253 della Northwest Airlines partito da Amsterdam e diretto a Detroit, ancora si dibatte sulle nuove misure di sicurezza da adottare negli scali di tutto il mondo al fine di scongiurare il rischio di nuovi attacchi. Si pensava che il mondo avesse imparato la dura lezione dell’11 Settembre, ma il tentativo da parte di Umar Farouk Abdulmutallab di innescare un incendio a catena che facesse saltare l’aereo sul quale viaggiava con altri 288 passeggeri ha bruscamente riportato i governi di tutto il mondo con i piedi per terra, mostrando loro – anzi, ricordando loro – quanto l’ombra del terrorismo aereo non sia per niente uno spettro lontano, ma una minaccia quanto mai reale. I governi di tutto il mondo tranne uno: quello di Israele. Mentre ci si domanda quanto l’istallazione di nuove apparecchiature come i modernissimi body scanner possano essere effettivamente utili ad individuare armi e potenziali esplosivi, e mentre sui media si perde tempo a discutere quanto tecnologie del genere possano costituire una violazione della privacy ai danni dei passeggeri, in Israele non è stato cambiato pressoché nulla di un apparato di sicurezza in funzione ormai da anni. Non solo. Ma le autorità di tutto il mondo prendono, tra tutti, proprio il sistema israeliano come modello esemplare.

 Ma perché proprio Israele? Perché il sistema di un paese continuamente etichettato come razzista, oppressore, che secondo l’UE rappresenta una maggiore minaccia alla pace globale di Iran e Nord Corea, che fa uso sproporzionato della forza per schiacciare un’organizzazione terroristica che lancia migliaia di razzi sulla sua popolazione, che costruisce una barriera per impedire ad attentatori suicidi di farsi saltare in aria negli autobus o nei ristoranti, improvvisamente diventa l’esempio che tutti provano a seguire? Per due motivi. Il primo è tragicamente banale: al contrario di buona parte del mondo, che si è accorto dell’esistenza del terrorismo soltanto dopo le Torri Gemelle, Israele ha dovuto affrontare questo problema nel corso di tutta la sua storia, e anche ben prima della sua stessa nascita. In altre parole è il paese che ne sa di più perché ha un’esperienza maggiore di chiunque altro in materia.

Il secondo motivo risiede invece nella caratteristica principale del sistema israeliano: il suo pragmatismo. E per capirlo bisogna entrare in un aeroporto europeo o americano. A cosa servono i body scanner e i metal detector in cui vengono fatte togliere cinture, scarpe, orologi, vengono aperte le borse, se la loro conseguenza è creare file chilometriche in attesa di oltrepassare la sicurezza? Così un terrorista non si dovrebbe nemmeno scomodare a tentare di salire sull’aereo: basterebbe arrivare con armi e granate – visto che raramente avvengono controlli alle entrate degli aeroporti – per mietere decine di vittime. A cosa servono controlli di sicurezza “serrati” se non desta alcun sospetto un giovane dal nome di Umar Farouk Abdulmutallab che acquista un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti, pagando in contanti, senza fornire alcun contatto o indirizzo e che, come se non bastasse, si imbarca senza alcun bagaglio? Sembra quasi uno scherzo, ma questo è esattamente ciò che è avvenuto nel caso del fallito attentato sul volo 253 Amsterdam-Detroit. È per questo che tenere un database con il profilo di ogni passeggero che mette piede negli scali Israeliani non è una violazione della privacy, ma un modo di sapere continuamente chi entra e chi esce. Eseguire controlli più approfonditi su passeggeri mussulmani o provenienti da altri paesi mediorientali non è razzista, è realista: per quanto sia assolutamente vero che non tutti i mussulmani sono terroristi, è altrettanto vero che nella stragrande maggioranza dei casi il terrorismo è di matrice islamica. Avere addetti alla sicurezza addestrati che prima ancora del check-in pongono delle domande a ciascun passeggero per osservarne le reazioni, non è un’inutile perdita di tempo, ma un modo guardare negli occhi ed osservare attentamente ogni singola persona che sale in aereo. Tenere agenti di sicurezza in borghese, armati ed altamente addestrati su ciascun aereo non è un pericolo per i passeggeri, ma un fortissimo deterrente contro qualsiasi attentatore.

Confrontando quindi il sistema israeliano con quelli nel resto del mondo, la differenza maggiore risiede nella tempistica. Se quasi ovunque la sicurezza è concentrata all’interno del terminal, con controlli persona per persona unicamente nel momento in cui il passeggero si avvia verso le zone di imbarco, in Israele vi sono “anelli” di sicurezza che iniziano ben prima dell’arrivo in aeroporto (all’acquisto del biglietto con controlli del profilo di ciascuno, sul tratto di autostrada che conduce all’aeroporto etc.) e che non si concludono al passaggio del metal detector, ma proseguono fino a quando tutti i passeggeri scendono dal velivolo (con le guardie aeree sempre all’erta). Di certo si può dire che nessun sistema è perfetto, ma perlomeno un controllo del genere è molto più efficiente ed agevole di controlli puntuali su ogni singolo individuo, che alla fine creano soltanto file infinite e tanta frustrazione. Avranno imparato i vari Obama, Gordon Brown, Merkel, Sarkozy, Berlusconi, la lezione di Detroit? Sembrerebbe proprio di no. Questa volta ce la siamo cavata con uno scampato pericolo. Ma probabilmente bisognerà aspettare un altro 11 Settembre perché comprendano che la soluzione al problema sicurezza aerea non è buttare soldi su un sistema che ha già ampiamente dimostrato di fare acqua da tutte le parti, bensì riformare il sistema stesso alla radice in maniera quanto più pragmatica e realista.



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