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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Aharon Appelfeld, Un’intera vita 01/02/2010

Un’intera vita                         Aharon Appelfeld
Traduzione di Elena Loewenthal
Guanda                                    Euro 16

Aharon Appelfeld, ebreo nato nel 1932 a Czernowitz in Bucovina, nella stessa città di Gregor von Rezzori, lo scrittore asburgico che la trasformò nella mitica Cernopol, ha una difficile infanzia da raccontare: la violenza nazista gli uccise la madre, lo separò dal padre, vittima del campo di sterminio, e lo ridusse, bambino di nove anni, alla fuga e al vagabondaggio nel tentativo di sopravvivere.
Il suo ultimo e definitivo approdo fu la Palestina, dove tuttora vive: qui è diventato scrittore e il narrare è la missione, il senso della sua vita. Per coloro che hanno vissuto la tragedia della Shoah il tracciato della memoria è arduo da seguire e doloroso.
Appelfeld era un bambino quando fuggì dal campo di concentramento e visse per tre anni rintanato nei boschi, rifugiato tra gente che lo accolse, sì, ma lo trattò “come un cane pazzo”, intuendo la natura di ebreo che egli, per istinto di conservazione, negava. Nato in una famiglia borghese assimilata (così si diceva di chi voleva far parte della società occidentale accantonando la propria provenienza ebraica), avrebbe sperimentato lo smarrimento del non appartenere alla propria cultura e sentirsi perseguitato da quella a cui aspirava o di cui si credeva già parte integrante.
Nel romanzo Un’intera vita questo tema si spiega con lenta chiarezza nel tramite del racconto in prima persona della protagonista. Helga, una bambina di dodici anni, attraverso la separazione dalla madre, ebrea convertita, sposata a un possidente austriaco e nondimeno internata durante la guerra in un campo di concentramento, scopre “il segreto”, la diversità della sua natura e intraprende un viaggio reale e morale alla ricerca della madre e delle radici di lei che infine, in tutta pienezza, condivide.
E’ uno strano modo di raccontare la tragedia degli Ebrei, un modo distillato e cadenzato dal ritmo di una salmodia e dalla vibrazione del sogno. Dal momento della misteriosa partenza della mamma (le si dice per una questione burocratica) si fa largo nella mente della bambina la percezione del divario tra la mentalità del padre e la spirituale ironia della mamma, donna colta e intelligente, e cresce anche la coscienza della diversità che il paese addita con convinta brutalità: non basta la conversione a cancellare il segno della razza.
La piccola Helga impara a conoscere l’altro che sua madre rappresenta e ne segue le orme, la cerca fin dentro il campo di concentramento, senza mai ritrovarla, se non nella presenza assidua del sogno, nel ricordo, nel suo farsi adulta e conscia di appartenere alla cultura ebraica a cui si sente chiamata.
Il racconto luminoso e devastante di questo cammino segna la volontà di credere, oltre il martirio della Shoah, alla costruzione di un futuro dentro la cultura e la religione che Appelfeld fa proprie. Dal passato del dolore nasce la coscienza di una potenzialità nuova, purificata nel segno dell’appartenenza, ritrovata e confermata dalla scelta della lingua ebraica in cui il romanzo è scritto.

Marta Morazzoni
Tuttolibri – La Stampa


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