Nel Giorno della Memoria i muri di una strada romana recano le velenose e insane scritte antisemite di una finora sconosciuta “Militia” in cerca di un quarto d’ora di visibilità. Eccoli accontentati. In Iran il Presidente Kamenei, che rappresenta l’ala moderata del regime dittatoriale di Ahmadinejad, sostiene che la Shoà è una invenzione sionista e ribadisce il proposito di distruggere Israele. Un libraio milanese proclama in un cartello che non venderà i libri di un noto giornalista televisivo. Il prologo di un rogo? Si tratta di tre notizie che apparentemente appaiono disomologhe per “qualità” e “quantità”. In nessun modo si possono paragonare i graffiti antisemiti con le minacce di genocidio, né questi due con la trovata pubblicitaria (ancora la “visibilità”) di minuto boicottaggio. E invece si collegano. I teppisti di Roma saranno pochi, ma la tentazione di imitarli, sempre per essere in qualche modo e magari per qualche momento “visibili” è tanta, come insegnano i vari grandi fratelli e le isole dei famosi. Persino gli incauti dirigenti iraniani sono portati a “rilanciare” ogni tanto per occupare una scena cui un sempre sollecito e pavido Occidente offre una buona sponda di ultimatum a grappoli, come dire minacce a vuoto. A riportarci ad una realtà più dura, seria e drammatica, è lo sconvolgente documento portato dallo storico della Shoà Marcello Pezzetti il 27 gennaio alla mostra del Vittoriano sulla partecipazione del Teatro alla Scala di Milano con il suo soprano Lia Origoni ad una serata (il 16 febbraio 1943), chiamata “Sud Solare” per il diletto, scrive il Corriere della Sera, “delle guardie SS di Auschwitz-Birkenau”. Ora si può immaginare che la rappresentante italiana dello spettacolo, a cui partecipavano altre “stelle” internazionali, non si sia limitata a vedere ad Auschwitz il suo camerino, il palcoscenico preparato per l’occasione, i suoi colleghi e gli ufficiali e soldati tedeschi, magari per l’occasione in alta tenuta. Le camere a gas erano in funzione, i forni crematori erano accesi e l’acre odore della carne bruciata giungeva alle narici dei cantanti e dei suonatori “internazionali”. Qualche detenuto si sarà pur mosso nel campo, non li avranno nascosti tutti. E probabilmente la signora Origoni (di sicuro tratta in inganno; non le avranno certo detto: “Guarda devi andare in un campo di sterminio a cantare”), di ritorno dalla tournée avrà pur detto a qualcuno che ad Auschwitz non c’erano solo teatri e palcoscenici. E’ lecito ritenere che il soprano abbia avuto in loco almeno qualche sentore – qualche odore – di quanto si stava perpetrando. Ripetiamo la data: 16 febbraio 1943. La macchina nazista di morte stava lavorando al suo massimo. Che qualcuno sostenga ancora oggi che nessuno in Italia sapeva o sospettava, riceve oggi una ulteriore prova “a carico”. Sì, a carico di quanti avrebbero forse potuto (l’Italia il 16 febbraio del ’43 era ancora paritariamente alleata della Germania) fare o dire qualcosa e non hanno fatto o detto. E comunque nessuno dovrebbe schierarsi oggi dietro il “non sapevano”, “non potevano”. Diciamo che non volevano?