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Il Foglio Rassegna Stampa
27.01.2010 Ritratto di Obama un anno dopo
Analisi di Christian Rocca

Testata: Il Foglio
Data: 27 gennaio 2010
Pagina: 8
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Chi è davvero Obama?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/01/2010, a pag. III, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Chi è davvero Obama? ".


Christian Rocca, Barack Obama

Non capita a tutti di essere paragonati, in un solo anno, a presidenti così diversi come Jimmy Carter e Ronald Reagan, Franklin Delano Roosevelt e Bush senior, George W. Bush, Abramo Lincoln, Bill Clinton e John Fitzgerald Kennedy. A super Barack Obama è successo anche questo, a scapito del riconoscimento pubblico di una sua specificità personale e politica. Certo è ancora troppo presto per trarre giudizi definitivi sulla sua presidenza, ma se suoi grandi sostenitori come l’editorialista afroamericano Bob Herbert del New York Times arrivano a chiedersi chi sia Barack Obama, vuol dire che il quarantaquattresimo presidente un problema di identità ce l’ha eccome. “Chi è Obama?”. Gli americani non sanno ancora rispondere a questa domanda. Obama è stato il candidato contrario alla guerra in Iraq che da presidente ha triplicato le truppe in Afghanistan ed esteso le operazioni belliche al Pakistan, allo Yemen e alla Somalia. Aveva promesso di chiudere Guantanamo e di cambiare l’architettura giuridica della guerra al terrorismo di George W. Bush, ma il supercarcere è ancora aperto e la gran parte dei prigionieri di al Qaida resterà in galera senza processo e a tempo indeterminato. Obama è stato il candidato contrario all’obbligo di acquistare un’assicurazione sanitaria (era la posizione di Hillary Clinton) e addirittura sprezzante nei confronti di John McCain che aveva proposto di togliere i benefici fiscali alle aziende che forniscono copertura sanitaria ai dipendenti, ma una volta entrato alla Casa Bianca le due proposte dei suoi avversari sono diventati i punti centrali della sua riforma. Obama è il presidente che ha riempito la squadra di governo con uomini di Wall Street, ma ora ha virato su toni demagogici contro le stesse banche che lui stesso ha salvato con il denaro pubblico. Era il candidato elitario per eccellenza, capace di trattare i concittadini da adulti e dotato di una retorica alta e contrapposta a quella dell’America reale di Sarah Palin, ma ha iniziato il suo secondo anno alla Casa Bianca da neopopulista. Obama ha un problema di credibilità, ha scritto Herbert, gli americani sanno che non possono fidarsi di lui in ogni occasione. Il presidente avrà tempo e modo per ritagliarsi uno spazio autonomo e mostrare un lato originale della sua personalità e azione di governo. Al momento, peraltro, all’orizzonte non si vedono avversari in grado di contendergli sul serio la rielezione del 2012, anche se alla Abc è stato lui stesso, l’altroieri, ad ammettere che qualche difficoltà potrebbe incontrarla: “Preferisco essere un grande presidente per un solo mandato – ha detto – piuttosto che uno mediocre per otto anni”. A un anno dall’insediamento, Obama ha fatto registrare alla Gallup il più vorticoso crollo da quando l’istituto demoscopico nazionale controlla il polso dell’opinione pubblica americana nei confronti dei presidenti in carica. Obama è entrato alla Casa Bianca con un “job approval” del 69 per cento, il più alto di sempre, ma ha girato la boa del primo anno al 47 per cento. Non era mai successo, al primo anno. La media dei primi dodici mesi, 57 per cento come Ronald Reagan, è la più bassa dal dopoguerra. Soltanto Bill Clinton ha fatto peggio di lui (49 per cento). Reagan e Clinton, però, sono stati rieletti tre anni dopo: Reagan perché ha cambiato la struttura sociale dell’America e ridato fiducia all’economia e al paese; Clinton perché ha iniziato a governare dal centro, abbandonando i progetti di ingegneria sociale liberal dei primi mesi. Obama ora si trova a un bivio, anche perché dare al predecessore la colpa di tutti i mali del mondo non paga più – anche se la tentazione persiste – e anzi paradossalmente s’è dovuto affidare proprio a Bush per coordinare le operazioni di raccolta dei fondi per gli aiuti ad Haiti, una bella rivincita per un ex presidente accusato anche da Obama di indifferenza nei confronti dei neri e dei poveri di New Orleans colpiti nel 2005 dall’uragano Katrina. Obama deve decidere se rimodulare la sua proposta politica oppure continuare a battere la strada fin qui perseguita. Il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, questa sera al Congresso di Washington, certificherà una scelta che appare scontata. C’è chi, come le superliberal pagine degli editoriali del New York Times, gli suggerisce di tentare il tutto per tutto, di forzare la mano al Congresso, di spiegare al paese l’importanza della riforma sanitaria e, in caso di sconfitta parlamentare, dare la colpa ai repubblicani, al partito del no, alla destra estremista e radicale che non si cura degli interessi della povera gente e opera per conto delle lobby. Lo scontro diretto però non è nelle corde di Obama, malgrado la sua retorica sia stata recentemente aggiornata con l’uso ripetuto del verbo “fight”, combattere. Tra l’altro non è detto che la mossa funzioni. Intanto perché finora non ha dato risultati, nonostante i tentativi non siano mancati. Poi perché a seguirlo su questa strada ci sarebbero sempre meno esponenti del Partito democratico, in questo momento molto preoccupati dalla possibilità di perdere il seggio alle elezioni di metà mandato di novembre e non proprio convinti che sia conveniente giocarsi le chance di rielezione su una riforma impopolare e su politiche economiche ancora incapaci di produrre effetti positivi. Infine c’è un problema che la Casa Bianca finora ha sottovalutato: sarà anche costoso e e complicato, ma agli americani piace il loro sistema sanitario e Obama non è ancora riuscito a spiegare in che modo la sua riforma migliorerebbe il servizio di chi oggi una copertura sanitaria ce l’ha e ne è soddisfatto. L’alternativa allo scontro frontale è quella adottata da Bill Clinton nel 1994. Anche Clinton aveva tentato al suo primo anno alla Casa Bianca di riformare la sanità, ma quando si è accorto che l’ambizioso progetto di riforma elaborato da sua moglie Hillary stava per affossare la sua presidenza ha scelto di cambiare le priorità dell’agenda politica. S’è occupato d’altro e ha preso a governare con incursioni nel campo conservatore (legge a difesa del matrimonio tradizionale, “l’era dello statalismo è finita”, riforma del welfare state, pareggio del bilancio). Clinton ha atteso la batosta delle elezioni di metà mandato del 1994 per fare una marcia indietro, poi annunciata allo Stato dell’Unione del 1995 (“Il messaggio è stato recepito”, ha detto in quell’occasione il presidente). Obama è già pronto alla svolta, prima ancora del voto di novembre, in modo da evitare l’annunciato tonfo elettorale. E’ probabile, com’è suo costume, che scelga una via mediana tra il rilancio dell’agenda e il ritiro alla Clinton. C’è ancora spazio, infatti, per approvare qualche aggiustamento dell’attuale sistema sanitario, magari per estendere la copertura sanitaria non soltanto ai poveri, agli anziani, ai bambini, ai dipendenti pubblici e ai militari come adesso, ma anche a chi oggi non si può permettere l’assicurazione a causa del rincaro dei premi. Gli uomini di Obama stanno già cercando di salvaguardare quei punti minimi di riforma condivisi da destra e sinistra e di portarli al voto al Congresso. Non sarebbe una riforma globale del sistema, come nei sogni liberal, ma la Casa Bianca potrebbe comunque portare a casa un successo non da poco e un concreto allargamento del numero di americani coperti da un’assicurazione. Il programma del secondo anno, per il resto, sarà molto meno ambizioso del primo. Questo è certo. Addio ai grandi progetti sull’istruzione, sull’ambiente, sull’energia, sull’immigrazione. Possibile la fine del principio clintoniano del don’t ask, don’t tell, la politica secondo cui il Pentagono non chiede ai soldati le preferenze sessuali, a patto che gli arruolati non facciano una bandiera della propria omosessualità. La Casa Bianca sta lavorando a un secondo pacchetto di stimolo dell’economia, dopo quello di inizio mandato da 787 miliardi di dollari. Il nuovo testo approvato dalla Camera stanzia 156 miliardi di dollari da impiegare per abbassare il tasso di disoccupazione oggi al 10 per cento, mentre quello del Senato è da 80 miliardi perlopiù di tagli fiscali alle imprese che assumono. Trovare i voti questa volta sarà più difficile. Il primo stimolo all’economia ha funzionato, è servito in qualche modo a contenere la grande recessione, come ha riconosciuto anche l’American Enterprise Institute secondo cui l’intervento pubblico ha avuto un impatto sull’economia pari a quattro punti di pil. Politicamente però non ha funzionato, la percezione popolare è diversa. I posti di lavoro non sono arrivati, la disoccupazione è aumentata, la crisi continua a farsi sentire. Secondo gli economisti keynesiani e di sinistra, uno su tutti il Nobel Paul Krugman, la ragione del fallimento politico è la dimensione ridotta del pacchetto varato dal Congresso su impulso di Obama. Secondo i conservatori, invece, l’intervento pubblico è stato dannoso per l’economia, per le tasche dei contribuenti e per il bilancio federale. Il deficit, inoltre, ha scatenato la protesta popolare, rappresentata oggi dai Tea party, i gruppi antistatalisti libertari e conservatori che stanno guidando la rinascita elettorale del mondo repubblicano. In assenza di risultati concreti, l’opinione pubblica ha bocciato di fatto la politica economica della Casa Bianca e non manca di ricordarlo al presidente a ogni occasione possibile: il cambiamento immaginato al momento del voto del novembre 2008 non era esattamente quello realizzato in questo primo anno di governo. L’ala sinistra della coalizione obamiana è delusa dal presidente, lo giudica incapace di battersi realmente per le cose promesse in campagna elettorale e, dalla riforma sanitaria alla sicurezza nazionale, lo considera troppo incline al compromesso con i conservatori. Gli indipendenti che a novembre a grande maggioranza avevano dato fiducia al candidato Obama sembrano essersene pentiti e, al contrario dell’ala liberal, giudicano questo primo anno obamiano troppo schiacciato a sinistra. I conservatori, dal canto loro, non gliene lasciano passare una e stanno vivendo un revival politico inimmaginabile diciotto mesi fa. C’è stato il voto in Massachusetts, alla vigilia dell’anniversario dell’insediamento alla Casa Bianca, a fotografare i primi dodici mesi di Obama. Il seggio simbolo della famiglia Kennedy e della riforma sanitaria è stato vinto da uno sconosciuto politico repubblicano locale, Scott Brown, dopo cinquantotto anni di appartenenza prima a John e poi a Ted Kennedy. A novembre del 2008, Obama aveva vinto lo stato del Massachusetts con 26 punti di scarto. Quindici mesi dopo, la sua candidata ha perso di cinque punti. Il 31 per cento degli elettori, in così poco tempo, ha cambiato idea. Il massacro del Massachusetts, come è stato definito dall’opinionista liberal del New York Times Frank Rich, non è un caso isolato. La stessa cosa è successa due mesi e mezzo fa in Virginia e in New Jersey, dove i candidati democratici fortemente sostenuti da Obama hanno perso la poltrona di governatore. Alle presidenziali Obama aveva vinto la Virginia di sei punti e il New Jersey di 18. Un anno dopo i suoi candidati hanno perso di 18 e di 4 punti, un clamoroso ribaltone di 25 e 20 punti percentuale. Il clima è questo e a novembre non promette bene per la Casa Bianca. Ogni giorno ci sono deputati e senatori democratici che si ritirano dalla corsa di midterm, perché certi di perdere le elezioni. L’ultima notizia negativa riguarda la famiglia Biden. Il figlio del vicepresidente era da tempo pronto a prendersi il seggio occupato dal padre per 36 anni e lasciato ad interim da Joe Biden al suo capo di gabinetto, in attesa del ritorno di Beau Biden dall’Iraq. L’altro ieri, il giovane Biden ha annunciato che non intende candidarsi. Il favorito, ora, è il repubblicano. Obama rischia di perdere anche il suo ex seggio in Illinois, almeno così sperano i repubblicani e scrivono i giornali sulla base dei sondaggi e del precedente politico in Massachusetts. Obama può ancora sperare in una ripresa dell’economia e in un rilancio dell’occupazione, ma dopo la débacle in Massachusetts non può più far finta di niente. Negli ultimi giorni ha deciso di concentrarsi sulle elezioni di novembre, riassumendo come consulente e coordinatore politico il manager della sua campagna elettorale David Plouffe e rimodulando toni, messaggio e politiche presidenziali. Il suo capo dello staff, Rahm Emanuel, è in difficoltà. Secondo l’ala sinistra del partito sarebbe lui la causa di troppa moderazione obamiana e per la prima volta sono iniziate a circolare voci su sue possibili dimissioni anticipate. Allo Stato dell’Unione di questa sera, Obama presenterà le ricette per il prossimo anno. Non sarà una lunga e dettagliata lista della spesa, come sono soliti fare i presidenti in queste occasioni. Piuttosto Obama abbandonerà gli ambiziosi progetti di cui si parlava fino a qualche settimana fa sull’ambiente, sull’immigrazione, sull’energia. La Casa Bianca non ha voti sufficienti né soldi necessari a realizzarli e, soprattutto, è consapevole che un ulteriore intervento del settore pubblico per regolamentare l’economia alimenterebbe la protesta antistastalista di quel mondo conservatore più radicale che in questi mesi ha guidato la riscossa repubblicana. Obama proporrà “un pacchetto di piccole iniziative per aiutare le famiglie del ceto medio”, incentivi fiscali per le famiglie con bambini a carico, tetti sulle rate dei prestiti a favore degli studenti, facilitazioni per i contributi previdenziali e altre piccole misure elaborate dalla task force sul ceto medio presieduta dal vicepresidente Joe Biden. La Casa Bianca ha coniato un neologismo, la “generazione sandwich”, per definire le famiglie dei baby boomer in difficoltà perché spremute dai costi per mandare i figli a scuola e da quelli per prendersi cura degli anziani genitori. L’obiettivo di Obama è dimostrare di essere vicino alle sofferenze economiche dell’americano medio. Il mantra è creare lavoro, occuparsi del deficit, aiutare il ceto medio, cambiare il modo di fare politica a Washington. L’altra mossa è quella del congelamento per tre anni della spesa pubblica ai livelli attuali, fatta eccezione per le spese militari e quelle per i diritti previdenziali e sanitari. In campagna elettorale era la proposta di McCain, pubblicamente ridicolizzata da Obama durante uno dei dei tre dibattiti presidenziali. Congelare la spesa, disse allora Obama, significa procedere con l’accetta, quando invece serve lo scalpello. L’Obama in versione populista ha cambiato idea. La spesa federale non supererà i 447 miliardi l’anno fino al momento della rielezione del 2012. Il risparmio per le casse federali è poca cosa rispetto a un deficit da mille miliardi di dollari, ma è pur sempre il segno di una svolta obamiana a favore del contenimento della spesa e una promessa solenne di non avviare ulteriori progetti sociali da pagare con i soldi pubblici. “E’ totalmente insensato”, ha commentato la conduttrice televisiva di sinistra Rachel Maddow. Il Nobel Krugman e i suoi amici, “imbarazzati” per la pessima decisione economica di Obama, scrivono di sentirsi “idioti” per averlo sostenuto.

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