Impiccato Ali il Chimico, assassinò 5000 curdi in Iraq Chi ha ancora il coraggio di sostenere che Saddam non aveva armi di distruzione di massa?
Testata: Il Foglio Data: 26 gennaio 2010 Pagina: 1 Autore: La redazione del Foglio Titolo: «Baghdad sotto attacco, tira aria di congiura contro il premier Maliki»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 26/01/2010, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Baghdad sotto attacco, tira aria di congiura contro il premier Maliki".
Agli Usa è stato rimproverato di aver invaso l'Iraq alla ricerca di armi di distruzione di massa che Saddam Hussein non possedeva. Ali il Chimico ha assassinato cinquemila curdi. Che cosa ha usato? I gas, armi di distruzione di massa. I critici di Bush se ne facciano una ragione. Saddam le armi le aveva, eccome. Per quanto riguarda l'impiccagione di Ali il Chimico, l'Iraq ha semplicemente rispettato una delle tradizioni del paese .Quando sarà diventato un Paese del tutto democratico, abbandonerà questa barbara usanza. Ricordiamo che l'esercito iracheno in un solo anno uccise 180.000 persone. Ecco l'articolo:
Ali il chimico
Roma. Quindici minuti, tre esplosioni potenti, target ad alto valore simbolico e pieni zeppi di persone. Questo è lo schema del terrore che da agosto ha già fatto più di cinquecento vittime a Baghdad. Nel giorno in cui le autorità irachene eseguivano la condanna a morte di Ali il Chimico, l’autore della strage chimica di cinquemila curdi a Halabja nel 1988 durante il regime di suo cugino Saddam, una prima bomba è esplosa davanti all’hotel Sheraton, appena attraversato il Tigri dalla Zona Verde. Pochi minuti dopo, un altro scoppio ha colpito l’hotel Babylon, nel quartiere centrale di Karrada. Infine al compound dell’Hamra, dove si trovano gli uffici delle principali testate internazionali e dei contractor stranieri, due uomini in giacca e cravatta si sono messi a sparare sulle guardie del posto di blocco e non appena hanno avuto mano libera hanno fatto entrare un piccolo camioncino carico di esplosivo che, a quindici metri dall’edificio, è saltato in aria. In tutto si contano quasi quaranta morti e più di cento feriti, tre crateri profondi alcuni metri davanti agli alberghi, la Reuters (l’ufficio sta vicino allo Sheraton) e il Washington Post hanno dichiarato che alcuni loro dipendenti sono rimasti feriti, mentre il corrispondente del Times ha detto che gli uffici sono rimasti senza vetri alle finestre. Il governo ha parlato di “un’estensione della vendetta degli ex di Saddam”, ma non si è spinto oltre nel collegare le tre bombe all’impiccagione di Ali il Chimico. La recrudescenza baathista – che un’estensione ce l’ha certamente, in Siria soprattutto, e che è già stata accusata degli altri tre attentati che hanno colpito la capitale negli ultimi cinque mesi – è un elemento del più vasto problema politico innescato dal premier, Nouri al Maliki, a poche settimane dalle elezioni: l’esclusione di 511 politici sunniti e di 15 liste elettorali (quelle a prevalenza sunnita) dalle parlamentari del prossimo 7 marzo. Non a caso sabato è arrivato a Baghdad il vicepresidente americano Joe Biden, il quale ha ripetuto con il suo fare rassicurante che questo “è un affare tutto iracheno, il governo saprà prendere la decisione giusta, la debaathificazione è un processo vitale per la democrazia dell’Iraq”, ma intanto chiedeva spiegazioni al premier su un’esclusione che inverte quel processo di unità e riconciliazione caldeggiato dagli Stati Uniti da anni. Anche se ieri 59 candidati sono stati riammessi, molti si sentono abbandonati dagli americani, che non sono intervenuti energicamente per impedire una frattura destinata ad avere conseguenze permanenti sulla tenuta delle giovani istituzioni irachene. Sotto gli occhi di Biden i marine hanno celebrato il ritiro da al Anbar, provincia simbolo del successo politico del “surge” del generale David Petraeus e della riconciliazione nazionale, là dove i sunniti si sono “risvegliati” e hanno deciso di credere alla promessa americana: voi tagliate i contatti con i guerriglieri e gli estremisti, li combattete assieme a noi, in cambio avrete una rappresentanza politica nei centri di potere e di governo di Baghdad. Ora che Maliki ha deciso di non mantenere quella promessa – che un pilastro strategico della dottrina americana, nonché garanzia della possibilità di ritiro delle truppe voluto dal presidente Barack Obama – i sunniti potrebbero prima di tutto boicottare le elezioni, come già fecero nel 2005, e poi tornare a tramare nell’ombra, con un inevitabile ritorno alle armi. A Baghdad tira aria di golpe, dicono allarmati alcuni commentatori, e il ritrovamento, quindici giorni fa, di trecento chilogrammi di esplosivo piazzati in punti nevralgici della capitale non ha fatto altro che aumentare il timore che la destabilizzazione politica sia già andata ben oltre la lista degli esclusi dal voto. La visita di Biden e il patto sotterraneo L’obiettivo principale di questa rivolta sempre meno sotterranea è naturalmente Maliki, che vuole salvaguardare il suo blocco di potere e ha così scatenato una ribellione anche interna agli sciiti. Nella famigerata lista – che secondo alcuni potrebbe crescere fino a contare seimila nominativi di “non graditi” – compaiono anche molti politici sciiti esclusi, dicono loro, perché non fedeli alla linea del premier. La rabbia è così forte che ci sarebbero addirittura stati contatti tra i sunniti e gli sciiti in rivolta per creare un’alleanza anti Maliki. Tra gli sciiti più contrari alla leadership attuale ci sono il vicepresidente Adel Abdul Mehdi, l’ex primo ministro Ibrahim al Jaafari e il più radicale di tutti, Moqtada al Sadr, che hanno tutti, per diversi e spesso nemmeno convergenti motivi, una buona ragione per ammansire i sunniti e per fare fuori il premier
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