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La Stampa - Informazione Corretta - Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.01.2010 Memoria: la letteratura, un antidoto all’oblio. Ma c'è un vescovo in Polonia ...
Il commento di Elena Loewenthal, i consigli letterari di Giorgia Greco, cronaca di Maria Serena Natale

Testata:La Stampa - Informazione Corretta - Corriere della Sera
Autore: Elena Loewenthal - Giorgia Greco - Maria Serena Natale
Titolo: «Se la memoria diventa un'ossessione - La letteratura, un antidoto all’oblio - 'L’Olocausto è un’invenzione'.Vescovo polacco fa scandalo»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 26/01/2010, a pag. 34, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Se la memoria diventa un'ossessione ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Maria Serena Natale dal titolo " 'L’Olocausto è un’invenzione'.Vescovo polacco fa scandalo " preceduto dal nostro commento. Pubblichiamo l'articolo di Giorgia Greco dal titolo " La letteratura, un antidoto all’oblio ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Elena Loewenthal : " Se la memoria diventa un'ossessione ", un titolo che non rispecchia il contenuto dell'articolo.


Elena Loewenthal

Come si fa a raccontare la Shoah, ora che i testimoni stanno svanendo? È possibile concepire altri modi per ricordare? Anche se siamo nell’era della comunicazione, non è facile dare risposte. Per tenere a bada il demonio della memoria, la scrittura narrativa s’avventura nel passato. Lo sterminio sovverte tutto, fa vacillare i già fragili equilibri fra cielo e terra, e la teologia è tutta da rifare: «Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile», scrive Hans Jonas. E l’uomo? Chi è l’uomo che ha potuto questo? «Queste sono le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d’ira: hai fatto tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso da un’incrollabile fede». Yossl Rakover condanna Dio e dopo tutto questo la parola si arrende.
È stato il processo Eichmann, quasi cinquant’anni fa, ad aprire la strada della testimonianza. Fino ad allora, i sopravvissuti avevano taciuto perché il silenzio sembrava l’unico antidoto a una sofferenza insopportabile. In quell’aula di tribunale Auschwitz divenne udibile. Da allora, quelle voci sono diventate il nostro modo di raccontare e trasmettere la Shoah: nella loro verità sembrano l’unica narrazione possibile. Tutto il resto, che cos’è? Finzione. Ma i testimoni se ne stanno andando e le generazioni s’avvicendano, unite soltanto dalla tenacia dei ricordi. Ad Auschwitz la memoria arranca, perde la bussola: come faremo a raccontare tutto questo, quando i testimoni non ci saranno più? Se l’editoria sembra condividere questo affanno con una bulimia libraria che ogni anno riempie scaffali e che sublima la parola «testimone» come una rarità sempre più preziosa, è stato proprio Yossl Rakover a tracciare un’altra strada, un cammino alternativo. Perché, come di recente ha ammesso il suo misterioso autore, Zvi Kolitz, questo eroe della parola è finto. Yossl Rakover si rivolge a Dio (Adelphi) non è affatto un manoscritto in bottiglia, ma un parto della fantasia. È, in altre parole, una strabiliante invenzione narrativa.
Raccontare la Shoah anche se non si è stati laggiù pare una sfida assurda. Perduta in partenza. Ma col tempo diventa una strada obbligata, e necessaria. Perché noi che siamo venuti dopo non possiamo rassegnarci al silenzio, non abbiamo il diritto di tacere. Ce l’hanno loro, casomai, i sopravvissuti - per non dover morire di strazio ogni giorno. Ed è stato proprio il processo Eichmann, con il suo corteo di testimoni, a rendere dicibile la Shoah - come verità e anche come invenzione. Cynthia Ozick, scrittrice americana, ebrea, ne Lo scialle (Feltrinelli) prova a descrivere Auschwitz senza esserci mai stata. L’effetto è dirompente: la finzione si rivela uno strumento efficace, attendibile. Anche lo scrittore israeliano Yoram Kaniuk (che per anni non è riuscito nemmeno a sorvolare in alta quota la Germania, per paura) ha inventato un «suo» Auschwitz, in Adamo risorto (Einaudi). Un romanzo surreale, terribile. Ma che pure precipita il lettore in quella realtà capovolta.
Inventare una storia dentro la Shoah significa inevitabilmente scrivere di se stessi, provare a fare i conti con quel passato che non hai vissuto ma ti abita dentro e non ti lascia in pace, mai. Si crea armati di impotenza: è impossibile immedesimarsi in quel laggiù se non l’hai visto in carne e sangue, come direbbe l’ebraico. L’inettitudine diventa un’ossessione, una specie di dybbuk, di spirito morto che ti porti dentro e non ti molla e ripete fino allo spasimo quanto noi che non ci siamo stati siamo inadeguati a parlarne. Eppure non possiamo fare a meno di scrivere, per esorcizzare: nel vero senso della parola, perché di maligna possessione si tratta. È un miscuglio tossico di viscido sollievo e feroce senso di colpa per non aver conosciuto Auschwitz, di inguaribile frustrazione e ancora senso di colpa, per non poter capire né condividere quel dolore. Anni e anni luce, anzi millenni di buio, ci separano da quell’universo. Questo è chiaro al piccolo Momik, protagonista di Vedi alla voce amore (Mondadori) in cui David Grossman esplora il mostro dello sterminio. La Shoah come spauracchio è anche la rappresentazione centrale di un’altra prova narrativa sulla memoria: Ogni cosa è illuminata (Guanda) di Jonathan Safran Foer. Non a caso, i due scrittori guardano a quel passato attraverso gli occhi dell’innocenza: un bambino e un adolescente. Jonathan Littell, in Le Benevole (Einaudi), tenta invece la strada analitica, quasi proustiana, della memoria - come per distribuire all’infinito il dolore e la vergogna. In questo senso, l’ultima frontiera è l’«adozione» del dybbuk, il demonio della memoria: l’ha fatto Peter Manseau nella Ballata per la figlia del macellaio (Fazi). Lui che non è ebreo, sopperisce alla perdita raccogliendo l’eredità dello yiddish, immedesimandosi in essa tanto da confondere il lettore - e se stesso.
Inventare dentro la Shoah non è un tabù, anzi. È diventata una necessità intima e terribile, per non perdere quella memoria che se ne sta andando con i testimoni. E fors’anche per immaginare, oltre a quel che è stato, anche tutto ciò che la Shoah non ha permesso che fosse.

INFORMAZIONE CORRETTA - Giorgia Greco : " La letteratura, un antidoto all’oblio "


Giorgia Greco

Quanto più la Shoah si allontana nel tempo e i pochi sopravvissuti, bambini o adolescenti durante la persecuzione nazista, diminuiscono ogni anno, tanto più diventa rilevante e imprescindibile il ruolo della letteratura per tramandare la memoria di quell’orribile crimine e tenere vivo il ricordo di coloro che non sono tornati per “raccontare”.
In occasione della Giornata della memoria abbiamo scelto per i nostri lettori alcuni testi di saggistica e narrativa fra le ultime novità proposte dalle case editrici italiane.
Leggere per non dimenticare

Essere ebrei omosessuali nella Berlino nazista…..
Nato nel 1923 a Berlino da padre ebreo e madre tedesca, Gad Beck ha raccolto le sue memorie sotto il titolo Dietro il vetro sottile pubblicate da Einaudi. Come sopravvivere dopo che Hitler, nel 1923, mise al bando gli omosessuali e Himmler progettò la pulizia sessuale della razza ariana. Beck si impegnò nella resistenza clandestina, fu tradito da una spia, arrestato e torturato. Tornò libero solo con l’arrivo dell’Armata Rossa e nel 1947, andò a vivere in Palestina per tornare a Berlino nel 1979.

“Dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz” scriveva Adorno. Una verità da cui sgorga La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Edizioni Salomone Belforte & C., testo originale ebraico a fronte con prefazione di Gianfranco Fini). Si tratta di un’antologia di poeti appartenenti a varie generazioni: chi, come Yitzak Katzenelson e David Vogel, morì nel lager; chi, durante la seconda guerra mondiale già si trovava nella Palestina mandataria. Il titolo del libro è un verso di “Mezzanotte” di Shin Shalom: “La notte tace. Io invece rimango nella strada lunga e vuota e grido.

Anna Frank, Primo Levi sono i nomi che vengono alla mente nel leggere questo straordinario romanzo autobiografico di Zdena Berger, Raccontami un altro mattino (Baldini Castaldi Dalai)
Con una prosa semplice ma molto incisiva l’autrice riesce a far partecipe il lettore di un orrore intollerabile. Ma fortunatamente trionferanno la volontà di non soccombere, la speranza di un futuro possibile che non viene mai meno, la capacità di ritrovare il coraggio nel più piccolo dei gesti.
Uscito per la prima volta in America nel 1961, il libro ebbe un grande successo, benché in seguito fu per lungo tempo dimenticato. Ripubblicato ora in America e per la prima volta in Italia, è un testo che lascia un’emozione indimenticabile, una pietra miliare in ricordo di quanti sono morti nella Shoah, un monito per far comprendere ai giovani il significato di parole come persecuzione, fame e morte, ma anche per far scoprire l’importanza dell’amicizia e della solidarietà.

Pubblicato da Tropea a cura di Laurel Holliday, ex insegnante universitaria e psicoterapeuta, Ragazzi in guerra e nell’Olocausto è la prima sconvolgente raccolta di diari tenuti da bambini e ragazzi di ogni parte d’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Dai ghetti della Lituania, della Polonia, della Lettonia e dell’Ungheria ai campi di concentramento di Terezìn, Stutthof e Janowska, dalle strade bombardate di Londra alla prigione nazista di Copenaghen, queste pagine sconosciute al grande pubblico e conservate in poche copie superstiti, raccontano che cosa significhi per un adolescente vivere ogni giorno con la consapevolezza che può essere l’ultimo. Eppure in situazioni tanto drammatiche la scrittura diventa testimone di una irriducibile voglia di vivere.
Il diario per questi ragazzi diventa un sostegno, un amico cui confessare le proprie paure ma al tempo stesso una forma di resistenza alla follia dei tempi. Un modo per salvaguardare la propria umanità e quella degli altri.

La Shoah è il luogo e il tempo dove anche le parole e non solo le vite vengono sfigurate, assumono un volto nuovo. Gli ebrei caricati sui treni merci erano stucken, “pezzi”. Giornalista e regista, Leoncarlo Settimelli, in Le parole dei lager. Dizionario ragionato della Shoah e dei campi di concentramento (Castelvecchi), spiega queste parole e questi nomi, in un modo piano e comprensibile al grande pubblico, da Antisemitismo a Zyklon B passando per kapò, Impiccagioni e Tifo petecchiale. Corredato di repertori e bibliografia, costituisce un utile strumento per conoscere e capire.

L’infanzia a Budapest, il divorzio dei genitori, il rapporto coi nonni e la matrigna, l’esperienza dei lager e il ritorno in Ungheria, il partito comunista e l’era Kàdàr, il premio Nobel e la depressione. Dossier K di Imre Kertész è un romanzo autobiografico in forma di dialogo, il cui ritmo si snoda su domande capitali e pone il lettore nella condizione di muovere intelligenza ed emozioni. Ironico e penetrante, l’autore si mette a nudo e traveste da intervista il suo testamento letterario, filosofico ed esistenziale.

Tami Shem Tov è un’autrice israeliana che dedica i suoi libri all’adolescenza. In Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Piemme Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra, un libro che prende avvio da una storia vera e avvalendosi di una documentazione tangibile costruisce un romanzo che è uno scambio di attese, paure e sogni. Tutto dentro lo sterminio. La protagonista è una bambina e attraverso i suoi occhi e le parole, i disegni che il padre le manda diventano il meccanismo di sopravvivenza trasfigurando l’orrore della Shoah in qualcosa di diverso, quasi irreale.

Come gli scrittori sopravvissuti hanno raccontato l’esperienza dei lager, la costruzione letteraria della memoria concentrazionaria. E’ il tema del saggio di Carlo De Matteis Dire l’indicibile edito da Sellerio. Dalla “specie umana” di Robert Antelme alla “notte” di Elie Wiesel, dal racconto “come necessità e liberazione” (Primo Levi) al “dovere d’essere ebreo” (Jean Améry), dalla memoria dialogica di Ruth Kluger alla “necropoli” di Pahor, alle voci di donne (Edith Bruck, Zdena Berger, Charlotte Delbo), alla deportazione come “avventura adolescenziale” (Imre Kertész).

E’ una vicenda ispirata a una storia vera Daniel Stein, traduttore di Ludmila Ulitskaya, pubblicato da Bompiani a cura di Elena Kostioukvitch. L’autrice che è nata nel 1943 nella regione degli Urali, direttrice artistica del teatro Ebraico oltre che membro del parlamento culturale europeo ci regala con questo libro un intreccio di esistenze: dalla vecchia comunista finita in un ospizio israeliano all’ex dissidente diventato fanatico ultrareligioso a Hebron, alla monaca tormentata, al medico salvatore di ebrei, a Daniel Stein, chissà, forse uno dei trentasei giusti.

Gli ebrei lituani, da un’occupazione all’altra, dall’Unione Sovietica alla Germania nazista e ritorno all’Urss. Sullo sfondo di un clima profondamente antisemita, a cominciare dalla stessa Lituania, Igor Argamante, un russo-polacco naturalizzatosi italiano durante la guerra, rievoca quell’epoca nel libro intitolato Gerico 1941 (Bollati Boringhieri).
L’autore che vive a Trieste nelle sue storie di ghetto e dintorni, a Wilno barricata come Gerico, ci regala un ritratto nitido, impavido dell’animo umano: tra debolezze, meschinità, ambizioni, tradimenti e fedeltà.

Chi sopravviveva dopo lunghi giorni trascorsi, in condizioni disumane, insieme ad altre decine di deportati, nei vagoni dei treni che da varie località d’Europa conducevano gli ebrei alla loro ultima destinazione si trovava dinanzi, al termine del viaggio, la rampa.
La “rampa degli ebrei” era quel punto della terra dove i treni merci si fermavano e vomitavano il loro carico umano, destinato per la gran parte alle camere a gas e ai forni crematori. Se c’è un luogo che assomiglia all’inferno è proprio quello. Anna Segre, psicoterapeuta e Gloria Pavoncello, sociologa, hanno intitolato così, Judenrampe (Elliot), il saggio che contiene una raccolta di testimonianze preziose di ebrei catturati in Italia e a Rodi, in Ungheria, Croazia, Libia giunti in quell’inferno e tornati. Ognuno racconta con parole proprie l’orrore indicibile, mentre le curatrici con estrema sensibilità veicolano le emozioni più profonde fra una parola e l’altra.

Con l’arrivo degli anglo-americani da ovest e dell’Armata Rossa da est, nei mesi che vanno dall’aprile 1944 alla primavera del 1945, molti dei settecentomila detenuti ancora presenti nei campi di concentramento, già stremati da mesi di privazioni e violenze, sono costretti ad un nuovo supplizio: le cosiddette “marce della morte”. Per ordine di Himmler, capo supremo delle SS, nessun detenuto sarebbe dovuto cadere vivo nelle mani del nemico.
I prigionieri erano costretti a camminare per chilometri in condizioni disumane per raggiungere i campi di raccolta e chi non riusciva a rimanere allineato in fila con gli altri oppure chi aveva ancora la forza di tentare la fuga veniva trucidato dalle guardie.
Nel saggio Le marce della morte edito da Rizzoli, Daniel Blatman, docente di storia degli Ebrei dell’Europa orientale e Storia dell’Olocausto presso l’Avraham Harman Institute of Contemporary Jewry dell’Università ebraica di Gerusalemme, supera l’approccio assunto nei dibattiti processuali del dopoguerra, che si concentrano sull’aspetto amministrativo e burocratico e quello di molta storiografia degli anni ’60 e ’90, che considera la fase dell’evacuazione solo come “l’ultimo atto omicida di matrice ideologica nel contesto della soluzione finale”. Per la prima volta le marce della morte non sono più considerate come epilogo della vita dei campi di concentramento, ma come momento centrale della storia del genocidio nazista, avviato nel 1941 e conclusosi con la fine della guerra. Con una scrittura scorrevole, lo storico israeliano indaga l’identità e le motivazioni di carnefici, vittime, liberatori oltre che dei civili tedeschi che spesso negli ultimi mesi di guerra in una quotidianità carica di forte drammaticità si trasformarono in occasionali carnefici.

Giorgia Greco

CORRIERE della SERA - Maria Serena Natale : " 'L’Olocausto è un’invenzione'.Vescovo polacco fa scandalo  "

A proposito di rapporti con la Chiesa, forse B-XVI potrebbe chiarire questa faccenda? Un vescovo polacco negazionista alla vigilia del Giorno della Memoria?
Sullo stesso argomento, invitiamo a leggere la Cartolina da Eurabia di Ugo Volli di oggi, pubblicata in altra pagina della rassegna.
Ecco l'articolo di Maria Serena Natale:


Tadeusz Pieronek

STRASBURGO— «Gli ebrei furono innegabilmente la maggioranza ma non i soli a morire nei campi di concentramento», nell’apparato di morte nazista finirono «anche zingari, polacchi, italiani e cattolici. L’Olocausto in quanto tale è un’invenzione degli ebrei». Rimbalzano sulla rete e sono subito un caso le dichiarazioni del vescovo Tadeusz Pieronek, classe 1934, teologo, ex segretario e portavoce dell’episcopato polacco, pubblicate sul portale cattolico italiano Pontifex. Dichiarazioni prontamente smentite da Pieronek, che in una contro-intervista all’agenzia di informazione cattolica Kai e poi sulla tv nazionale denuncia la «manipolazione delle mie parole in un’intervista non autorizzata». Ma il testo apparso su Internet fa comunque in tempo a provocare reazioni di sdegno nella comunità ebraica. E assesta un brutto colpo alla delicata trama dei rapporti tra cattolici ed ebrei parzialmente ricucita con la visita di Papa Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma dopo lo strappo sulla beatificazione di Pio XII, il pontefice del «grande silenzio» sulla Shoah. A soli due giorni dal sessantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte dell’Armata rossa. In passato molto vicino a Giovanni Paolo II, Pieronek è assai stimato in Polonia, chi lo conosce ne parla come di un grande umanista. Nel testo non autorizzato il vescovo avrebbe da un lato rivendicato l’incontestabile diritto alla memoria per «tutte le vittime», dall’altro ha accusato gli ebrei di «intollerabile arroganza» e di «usare la Shoah per ottenere vantaggi spesso ingiustificati. Ma non ci si può appropriare della tragedia per fare propaganda». Un attacco durissimo «agli ebrei che beneficiano di una copertura mediatica favorevole perché sostenuti dall’enorme potere e dal supporto incondizionato degli Stati Uniti», che si saldava alle critiche contro Israele per la costruzione della barriera in Cisgiordania, «colossale ingiustizia contro i palestinesi, i cui diritti fondamentali sono violati». «Certo tutto questo— concludeva Pieronek nell’intervista— non nega la vergogna dei campi di concentramento e le aberrazioni del nazismo».

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