Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/01/2010, a pag. 15, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Il consigliere di Obama è un traditore " e l'articolo di Luciano Canfora dal titolo " Ma lo storico che passò ai romani mise in salvo l’epopea del suo popolo ".
Che Rahm Emanuel abbia le idee poco chiare su ciò che vada giudicato bene per Israele, è certo. Che sia quindi un pessimo consigliere del presidente degli Stati Uniti, è altrettanto vero.
Questo però non giustifica la reazione sconsiderata e ignorante di chi in Israele non condivide le sue posizioni.
Se avessero letto bene Giuseppe Flavio, non l'avrebbero certo citato per attaccare Emanuel. Ecco i due articoli:
Francesco Battistini : " Il consigliere di Obama è un traditore "

Rahm Emanuel
GERUSALEMME — Lui leggerà un brano della Torah al Muro del Pianto. «E noi fischieremo». Lui offrirà un grande rinfresco in un grand hotel di Gerusalemme. «E noi grideremo da fuori». Lui abbraccerà il suo ragazzo. «E noi urleremo chi è suo padre: un traditore». E’ bastata una breve su un giornale — il capostaff di Obama, Rahm Emanuel, verrà in Israele a celebrare il Bar Mitzvah, l’ingresso nel mondo adulto di suo figlio — e la destra estrema s’è mobilitata. Tutti pronti a dargli «l’accoglienza che si merita: faremo in modo di trasformare nel peggior giorno della sua vita quel che lui spera sia il migliore». Di più. Gli hanno già scritto una lettera aperta. Paragonandolo al più bieco maramaldo della storia patria. Addirittura all’infame fariseo che passò dalla parte dei colonialisti romani, duemila anni fa: «Non sei tu— si legge —, il primo ebreo che vuole fare carriera a spese della sua gente. Sei stato preceduto da un traditore come Giuseppe Flavio. Tutti noi ci ricorderemo alla fine dei tempi. Ricorderemo lui e te come traditori da disprezzare che, per amore del ruolo, della fama o dei soldi, hanno contribuito a colpire il popolo ebraico».
Vuole fare una festa, e la festa gliela vogliono fare. La minaccia è chiara: se Emanuel è Giuseppe Flavio— l’uomo che convinse i suoi ad arrendersi con una specie di suicidio salvo poi, unico sopravvissuto, consegnarsi lui ai romani, fino a diventarne il fedele servitore —, Obama è l’imperatore Vespasiano. L’ultradestra lo pensa da un anno e non ne fa mistero, da quando sui muri di Gerusalemme fotomonta il presidente con la kefiah e lo ribattezza Obama Bin Laden. L’attacco al «traditore» Rahm, però, non è mai stato così diretto. Il cinquantunenne capostaff è doppiamente reo: di servire un’amministrazione Usa considerata antisraeliana e d’essere americano con passaporto israeliano, perdipiù figlio d’un famoso sionista. Itamar Ben-Gvir e Baruch Marzel, i due leader del Fronte nazionale, già incarcerati per le loro battaglie contro gay e arabi, sono stati diffidati dalla polizia: alla larga dal Bar Mitzvah del piccolo Emanuel. Loro se ne infischiano: «Rham ha sussurrato nelle orecchie di Obama parole contro Israele, ha operato come una quinta colonna. Come l’ultimo degli ellenisti che agirono contro la terra d’Israele. Accompagneremo le celebrazioni del Bar Mitzvah non con fiori e dolci, ma con urla di disprezzo e di sgomento per ciò che rappresenta».
Urla da ultrà. Che però fanno eco, nel vuoto di questi mesi. Nessun politico israeliano si dissocia. E sono molti quelli che in fondo condividono la protesta: «Il flop mediorientale l’ha ammesso lo stesso Obama nella sua intervista a Time — scrive Israel Hayom, tabloid sensibile alla destra— ed Emanuel ne è l’interprete».
Pure il premier Bibi Netanyahu non manca di marcare le distanze: ieri, prima volta da quando ha annunciato il congelamento delle colonie, è andato a Etzion (una colonia) a scavare tre buche per dire «qui piantiamo alberi e qui rimaniamo». L’ultima trovata dell’amministrazione Usa è di ripescare la carta Shimon Peres, scavalcando Bibi e pensando a un incontro fra il vecchio presidente e Abu Mazen. Ma non è detto che le cose siano più facili. E poi è un po’ come cambiare allenatore a stagione avanzata, quando il gioco va male: non salva dai fischi, nemmeno di Bar Mitzvah.
Luciano Canfora : " Ma lo storico che passò ai romani mise in salvo l’epopea del suo popolo "

Il 20 luglio dell’anno 67 dopo Cristo, dopo quarantasette giorni, la fortezza di Iotapata in Galilea, assediata da Vespasiano (allora generale agli ordini di Nerone) e difesa da Giuseppe Flavio, notabile ebraico che aveva fatto di tutto per sconsigliare la rivolta, capitolò. Vespasiano — che conosceva Giuseppe — proponeva una resa onorevole, ma Giuseppe fu impedito dall’accettarla dai suoi compagni di sventura. «Se la buona fortuna dei romani ti ha reso dimentico di te stesso — gli dissero — salveremo noi il buon nome della nostra gente. Ecco un pugnale: se ti suicidi, morrai da comandante degli ebrei; altrimenti morrai ugualmente, ma da traditore» (Guerra Giudaica, libro III, 359). Giuseppe racconta di esser venuto fuori dalla difficile situazione proponendo di tirare a sorte l’uccisione reciproca degli assediati. «Sta di fatto che — prosegue — o per caso o per provvidenza divina, fu lui l’ultimo a restare insieme con un altro, e non volendo né essere condannato amorte né macchiarsi di sangue fraterno, persuase anche l’altro a rimanere in vita». Nella traduzione in antico slavo (XII secolo) dell’opera di Giuseppe, l’episodio viene riassunto drasticamente così: «Fece la conta con destrezza in modo da imbrogliare tutti!»
Giuseppe aveva sconsigliato l’insurrezione descrivendo ai capi zeloti la sproporzione delle forze rispetto ai romani. È lo stesso argomento che Ecateo (fine VI secolo a.C.) aveva usato per scongiurare, invano, la rivolta ionica contro i persiani, finita in tragedia. E l’argomento con cui Giuseppe prendeva atto, finita ormai la rivolta, che la «fortuna» era definitivamente passata dalla parte dei romani è il medesimo con cui Polibio (II secolo a.C.) aveva deciso di passare, anche mentalmente, dalla parte della repubblica imperiale romana divenendone il più acuto storico e interprete.
«Del buon uso del tradimento» è il titolo di un celebre e riuscitissimo libro di un grande storico francese di origine ebraica, Pierre Vidal-Naquet (Roma, Editori Riuniti 1980, con prefazione di Arnaldo Momigliano). Polibio, in una celebre pagina, polemizzava sprezzantemente contro Demostene, maestro— al tempo suo (IV secolo a.C.) — nell’affibbiare a destra e a manca il marchio di «traditore». Fece «buon uso» del «tradimento» Giuseppe? Certamente sì. Scelse di scrivere in greco, cioè nella lingua più importante e diffusa dell’impero romano, la vera storia della guerra giudaica. Senza di lui e la sua monumentale opera, quella guerra eroica si sarebbe ridotta a un breve cenno all’interno di opere per lo più faziose di storici romani. Ora è, per sempre, un monumento al popolo ebraico.
Certo, senza la «folle» rivolta ionica, il problema della «liberazione dei greci d’Asia» non si sarebbe neanche posto. Senza la «folle» rivolta degli zeloti, il dominio romano sarebbe proseguito senza increspature in Palestina. Senza la rivolta del ghetto di Varsavia, l’infamia del dominio nazista sulla Polonia non sarebbe balzata davanti agli occhi del mondo. Ma tutto questo non deve lasciare in ombra le complicazioni concomitanti: dalla freddezza e poi strumentalizzazione con cui i greci si occuparono degli Ioni insorti, alla collaborazione polacca coi tedeschi occupanti nell’appesantire la persecuzione antiebraica. Onore dunque agli insorti capaci di lanciarsi in una battaglia persa in partenza, ma onore anche a Giuseppe che ha «messo in salvo», come avrebbe detto Erodoto, quella epopea.
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