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La Stampa Rassegna Stampa
24.01.2010 Guantanamo non chiude, ma l'Irak si schiera con l'Iran
Due notizie, buona la prima, cattiva la seconda. Entrambe una sconfitta per Obama

Testata: La Stampa
Data: 24 gennaio 2010
Pagina: 14
Autore: Maurizio Molinari-Asseel Kamal
Titolo: «Guantanamo a vita, senza processo-L'Iraq non aprirà i cieli a un blitz contro l'Iran»

Sulla STAMPA di oggi, 24/01/2010, a pag.14, due notizie, una buona, l'altra cattiva. La buona è nel pezzo di Maurizio Molinari, Guantanamo non chiude, il terrorismo va preso sul serio e non con la mano tesa. Un'altra smentita alla politica di Obama. La cattiva è nel servizio da Baghdad, dal quale si apprende che l'Iraq non lascerà passare nel proprio spazio aereo aerei direti contro l'Iran. Altro schiaffo a Obama.
Eccoli:

Maurizio Molinari: " Guantanamo a vita, senza processo"

CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Quarantasette detenuti di Guantanamo resteranno in prigione a tempo indeterminato, senza affrontare alcun processo. A stabilirlo è la task force del dicastero della Giustizia che il ministro Eric Holder aveva incaricato di esaminare lo status di tutti i presunti terroristi nel supercarcere militare nella base Usa a Cuba. Dopo quasi un anno di lavoro, gli esperti hanno redatto un rapporto nel quale affermano che 110 detenuti «possono essere rilasciati subito o in un’altra data» perché non costituiscono pericoli alla sicurezza, 35 saranno processati da tribunali civili o commissioni militari e 47 «non saranno nè liberati nè processati».
E’ quest’ultima decisione che ha scatenato le dure proteste dell’Associazione delle libertà civili in America (Aclu), il cui direttore Anthony Romero afferma che «a questo punto la chiusura di Guantanamo promessa da Obama diventa un atto simbolico, di scarsa importanza» perché si perdura il vulnus giuridico ereditato da Bush, la «detenzione illimitata senza processo». Jameel Jafeer, responsabile del dossier Guantanamo per l’Aclu, aggiunge: «Se vi sono prove a carico di questi 47 detenuti non capiamo perché non possa essere istruito un processo, il sospetto è che queste prove non ci siano». Ma la tesi della task force è che si tratta di «personaggi molto pericolosi» le cui prove a carico «non resisterebbero all’esame di un processo» essendo state raccolte dall’intelligence in operazioni di guerra. Scegliendo la strada del processo si rischierebbe di rimetterli in libertà oppure di rivelare metodologie segrete.
Toccherà ora al Consiglio di sicurezza nazionale esaminare il rapporto prima di portarlo all’attenzione di Obama. Un percorso che può portare a modifiche anche perché fra i 110 detenuti di cui si suggerisce il rimpatrio vi sono almeno 30 yemeniti ma sembra improbabile dopo il fallito attentato di Natale, organizzato dalle cellule yemenite di Al Qaeda grazie al contributo di alcuni ex detenuti di Guantanamo rilasciati nel 2007.
Nella base si trovano ancora 196 detenuti - inclusi 24 di cui è stata già autorizzato il rilascio - e l’amministrazione sta trattando con diverse nazioni per accelerare il rimpatrio di quelli considerati non più pericolosi. Obama aveva promesso di chiudere il carcere entro il primo anno di mandato ma ha dovuto ammettere l’impossibilità di riuscirci per le molteplici difficoltà legali.

Asseel Kamal: " L'Iraq non aprirà i cieli a un blitz contro l'Iran "


Nuri Al Maliki, nuovo alleato dell'Iran

Sadiq Al Rikabi è il consigliere politico più ascoltato dal primo ministro iracheno Nuri Al-Maliki. Ama l’Italia ed è convinto che ci sia molto spazio di crescita nelle relazioni tra i due Paesi: «Dal petrolio all’addestramento delle forze di sicurezza i nostri legami sono sempre più stretti». Restano i problemi, la sicurezza, le divisioni etniche, il difficile processo che dovrà portare alle elezioni del prossimo marzo, le turbolenze nei Paesi vicini, come Iran e Siria. Ma «l’esperimento democratico iracheno» va avanti e vuole costruire un nuovo modello nelle relazioni tra le nazioni del Medio Oriente, anche in vista del ritiro americano nel 2010, quando le truppe da combattimento degli Usa lasceranno il Paese e resteranno soltanto alcune grandi basi.
Mister Al Rikabi, l’Iraq potrà camminare con le sue gambe, dopo il ritiro americano?
«Spetta alle forze di sicurezza irachene dare la risposta. Abbiamo raggiunto un accordo con gli Stati Uniti, siamo decisi entrambi a rispettarlo, tocca ai professionisti renderlo possibile».
La situazione nella regione resta però tesa. Si parla di un possibile attacco di Israele all’Iran. L’Iraq sarebbe disposta a lasciare sorvolare il suo spazio aereo?
«L’Iraq è una nazione sovrana e non permette a nessuno di sorvolare i suoi cieli. Vogliamo costruire relazioni pacifiche con tutti i Paesi confinanti, basate sul reciproco rispetto, senza interferenze e aggressioni».
Quindi un buon rapporto con l’Iran resta prioritario? Alcuni sunniti dicono che i legami con Teheran stanno diventando troppo stretti.
«L’Iran è un vicino importante, come del resto la Turchia. Siamo ansiosi di costruire un rapporto lontano da quello del passato, quando l’Iraq retto da una dittatura era un elemento aggressivo, destabilizzante. Vogliamo lanciare una nuova fase, giocare un ruolo positivo».
Ma dopo gli attacchi suicidi che hanno fatto centinaia di morti a Baghdad, è convinzione di molti esperti che potenze vicine stiano ancora armando la mano dei terroristi.
«Siamo in guerra con il terrorismo da sei anni e siamo convinti che questi attacchi non sarebbero potuti durare così a lungo senza l’aiuto logistico, finanziario e il reclutamento provenienti dall’estero. Ci siamo appellati alle Nazioni Unite perché ci sia un’inchiesta imparziale, da parte di terzi, che stabilisca chi c’è dietro le esplosioni che colpiscono il popolo iracheno e le sue istituzioni. Vogliamo la verità».
Che cosa pensa delle aperture del presidente Obama nei confronti del mondo musulmano? Vi aiuteranno?
«Tra Occidente e mondo islamico le relazioni debbono essere guidate dalla razionalità, dalla logica del dialogo, dallo scambio culturale. Il mondo è diventato un piccolo villaggio. Non ha senso chiudersi in piccole isole, senza futuro».
E la comunità cristiana? Negli ultimi anni si è dimezzata: c’è chi dice che si stava meglio sotto Saddam Hussein.
«I cristiani sono una parte indivisibile del popolo iracheno. Vogliamo mantenerli nel seno della nazione, vogliamo che abbiamo un ruolo importante nella ricostruzione del nostro Paese. Certo, i cristiani hanno sofferto molto in questi ultimi anni, sono vittime del terrorismo come le altre componenti del popolo iracheno. Il governo farà di tutto per proteggerli, anche perché rappresentano una comunità pacifica che ha sempre rifiutato la violenza».
Un passaggio decisivo saranno le elezioni di marzo. La nuova legge elettorale però ha scontentato molti. Per alcuni è troppo favorevole ai curdi, non rischia di portare a un Kurdistan indipendente?
«Le elezioni saranno un passo decisivo per consolidare la nostra giovane democrazia. La nuova legge è un passo avanti rispetto al 2005, i cittadini potranno scegliere i loro rappresentanti e non votare in liste bloccate. Quanto al Kurdistan, il ministro Tariq Al-Hashimi ha prospettato pericoli che non ci sono. La legge non consente ai curdi di creare uno Stato indipendente, accresce soltanto la loro rappresentanza. Resta il problema di Kirkuk, ma sarà il prossimo governo a risolverlo, anche in base ai risultati elettorali».
Uno degli obbiettivi del governo iracheno è tornare a essere uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. A che punto siamo?
«Dopo che avremo definitivamente sconfitto il terrorismo, nel giro di pochi anni, e posto le fondamenta dello Stato, riusciremo ad attrarre investitori, a metterli in una corretta competizione, in modo che sia i Paesi consumatori che quelli produttori traggano profitto dall’industria petrolifera. I primi passi sono già stati fatti, c’è un enorme interesse. Se l’Iraq tornerà a essere un protagonista sul mercato petrolifero tutto il mondo ne beneficerà, soprattutto in termini di stabilità dei prezzi».
E l’Italia?
«Le relazioni sono ottime. Apprezziamo lo sforzo dell’Italia nel campo della sicurezza, con l’addestramento delle nostre forze di polizia. Ma anche nel campo commerciale le cose procedono bene. Acquistiamo macchinari italiani, l’Eni ha siglato molti contratti per lo sviluppo di campi petroliferi, come uno di più grandi nella regione di Bassora. Anche nella cultura e nell’archeologia la cooperazione è molto stretta. Sono ottimista sulle relazioni con l’Italia».

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