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La Stampa Rassegna Stampa
23.01.2010 Memoria: sei milioni di accusatori
Elena Loewenthal ricorda Gideon Hausner, procuratore al processo Eichmann

Testata: La Stampa
Data: 23 gennaio 2010
Pagina: 6
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Allora il mondo scoprì la Shoà»

Su Tuttolibri, il supplemento culturale del sabato della STAMPA, pubblica oggi, 23/01/2010, alcune pagine dedicate alla memoria della Shoà (27 gennaio) con diversi articoli/recensioni. Scegliamo il pezzo di Elena Loewenthal, che, attraverso il testo di Gideon Hausner, procuratore nel processo ad Adolf Eichmannn a Gerusalemme, autore del libro Einaudi " Sei milioni di accusatori", rievoca gli anni nei quali il mondo scoprì l'orrore dello sterminio.


Gideon Hausner

La memoria non è sempre stata un imperativo categorico. Ricordare non ha sempre rappresentato un esercizio civile, anzi morale. Fino ai primi Anni Sessanta - cioè mezzo secolo fa - quel passato prossimo che si chiamava Shoah abitava dentro silenzi carichi, sguardi muti, volti che si giravano dall’altra parte. Fino a quel tempo, in Israele la Shoah prendeva voce «soltanto» negli incubi notturni di cui il paese aveva (e forse ha ancora) il triste primato. Il comando di tacere, rimuovere, provare (invano, ovviamente) a dimenticare era una necessità di sopravvivenza, sembrava l’unico modo per tornare all’esistenza e garantirla ai propri figli. I morti, la sofferenza patita, il dramma di una tragedia inenarrabile, dovevano occupare meno spazio possibile. Sia perché tutto pesava troppo, sia anche per quella vergogna a un tempo di vittime e di sopravvissuti: l’umiliazione di aver subito e quella di essere stati più «fortunati» di quegli altri, di quei sei milioni.
Oggi questa consegna del silenzio pare impossibile, eppure fino a che Adolf Eichmann non ricomparve sulla scena del mondo, dopo quindici anni di beata clandestinità in Argentina, la Shoah era stata in Israele soprattutto un abisso muto e i bambini non avevano idea di che cosa significasse quel numero blu tatuato sul braccio di tanti genitori. Poi i servizi segreti lo rintracciarono e lo presero. All’inizio di aprile Adolf Eichmann fu trasportato nella «Casa del Popolo» di Gerusalemme, di notte, dentro un’autoambulanza a sirene spente. L’11 di quel mese il processo iniziò. Si concluse a metà dicembre. Il 30 maggio del 1962 Eichmann venne giustiziato. In quei mesi, Israele e il mondo intero «scoprirono» la Shoah: la storia prese a gridare nelle voci dei testimoni, nei numeri scanditi, nel volto impassibile di quell’ometto diabolico.
Il processo Eichmann fu una terribile rivoluzione della memoria. Fu un processo pubblico, perché non solo Israele, il mondo intero ebbe a sentire, via radio, molte udienze e deposizioni. Fu lo spartiacque nel nostro misurarci con quella storia. Se fino ad allora sembrava avverata l’incubotica profezia che i nazisti gridavano a Primo Levi - «Prova a sopravvivere! Vedrai che nessuno crederà a quello che hai da raccontare!» - il processo sbatté la verità in faccia a tutti. A quel paese di sopravvissuti che era allora Israele spiegò che il silenzio era forse più insopportabile dei ricordi.
Ma è bene precisare che il processo Eichmann non ebbe in sé nulla di simbolico. Rappresentò un momento storico fondamentale del nostro comune dopoguerra, e fu qualcosa di autentico di per sé. Ineccepibile dal punto di vista giuridico, come spiega Alessandro Galante Garrone nel saggio apposto all'edizione italiana della relazione introduttiva tenuta dal procuratore generale Gideon Hausner. Il testo uscì in italiano il 15 dicembre del 1961, a pochi mesi dall’esecuzione di Eichmann, sotto il titolo Sei milioni di accusatori: ora viene opportunamente ripubblicato da Einaudi, con un’introduzione di Simon Levis Sullam.
In quei mesi, dentro quell’aula, si affrontano questioni storiche e giuridiche fondamentali. L’avvocato di Eichmann, Servatius, cercò di delegittimare il luogo e la corte: come spiega mirabilmente Galante Garrone, tutto si smonta di fronte all’evidenza che Eichmann aveva sterminato gli ebrei in quanto popolo, e non come tedeschi, polacchi, italiani, greci. Quel popolo ora aveva un posto, uno stato, dov’era giusto che quell’uomo venisse processato. Inoltre, come (non certo «se») condannare per un omicidio ripetuto sei milioni di volte un Eichmann che non si era mai sporcato le mani di sangue? Di fronte a un crimine di quelle proporzioni, qualunque pena risultava inadeguata: l’istanza di giustizia non poteva restituire nulla, né alle vittime né ai sopravvissuti.
Questo libro, storia e testimonianza a un tempo, è un’opera fondamentale - e lo è forse più che mai oggi, a cinquant’anni di distanza - nel nostro rapportarci alla Shoah, nel misurarci con quel passato e la nostra labile memoria. Hausner detta qui la prima storia della Shoah, una cronaca tanto misurata quanto precisa nei dettagli, che racconta come funzionava il meccanismo dello sterminio, come si espanse in tutta l’Europa occupata dai tedeschi. Il responsabile di questa immensa macchina da distruzione era lui: quell’ometto squallido che restava sempre impassibile dentro la sua gabbia, di fronte alle accuse, ai testimoni, allo strazio tangibile.
Se le ore, i giorni, i mesi trascorsi in quel luogo ispirarono ad Hanna Arendt il principio della banalità che il male porta in sé - in altre parole, Eichmann non è diverso da tutti noi - tanto in questa introduzione quanto nella requisitoria finale, Hausner pone l’accento su quel principio di responsabilità che rimbombava ogni volta che Eichmann ripeteva - con la voce e con il silenzio - il suo ritornello: «Mi sono limitato ad eseguire gli ordini»: «E’ lecito supporre che, se per caso la bandiera con la svastica sventolasse di nuovo, salutata da frenetici “Heil”, se di nuovo si sentissero le grida isteriche del Führer, se il filo spinato segnasse ancora il recinto dei campi di sterminio, noi rivedremmo quest’uomo sull’attenti, pronto a riprendere il suo triste mestiere di boia».

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