Un attacco ad Abu Mazen dalla superspia di Gerusalemme nasconde un retroscena: la frenata imposta dal presidente palestinese al processo di pace, per motivi, non sempre limpidi, di potere.
Proprio nei giorni della speranza ritrovata, mentre Umar Suleiman, onnipotente ministro egiziano capo dei servizi segreti, va in America da Barack Obama dopo avere visto sia Abu Mazen sia Benjamin Netanyahu, non poteva mancare una doccia fredda sul processo di pace. Non basta che Hamas negli ultimi giorni abbia lanciato altre decine di missili Kassam su Israele. Stavolta ha parlato un personaggio di alto peso specifico, un «senior» che si consulta quando non si sa che pesci pigliare.
Si tratta di Ephraim Halevy, ex responsabile del Mossad e oggi capo dell’unità di ricerca strategica della Hebrew University di Gerusalemme. Due volte interpellato da Galei Tzahal, la radio dell’esercito, sul cattivo andamento delle trattative con Hamas per la liberazione del soldato rapito Gilad Shalit e sulla nuova prospettiva di apertura fra Netanyahu e Abu Mazen, Halevy ha reagito beffardo. «Abu Mazen» ha sostanzialmente detto la superspia «ha un potere zero e una volontà di pace meno di zero. Tutti i suoi soldi, i suoi militari armati, in una parola il suo potere, gli vengono forniti da Israele che mantiene l’Autonomia palestinese come un marito mantiene la moglie; però Abu Mazen ci ripaga di una moneta che non solo non prelude a un processo di pace, ma lo preclude».
Halevy ha citato le celebrazioni che l’Autonomia palestinese ha tenuto in piazza, sugli organi di stampa, con discorsi pubblici e con un lacrimoso video della tv ufficiale per ricordare sia Wafa Idris, la peggiore di tutte le terroriste donne, che nel 2002 colpì 102 persone facendosi esplodere, sia la terrorista Dalal Mughrabi, che nel 1978 ammazzò 37 persone che viaggiavano su un autobus lungo la costa, compresi dieci bambini. Halevy si è detto sconcertato dal panegirico del terrore intonato da Abu Mazen, e anche dal fatto che il moderatissimo primo ministro Salam Fayyad, amico di Obama, sia andato in visita personalmente alla tenda di lutto degli assassini di un religioso ebreo, Meir Ashalom Chai, a loro volta scovati e giustiziati da Tzahal. Anche Abu Mazen ha detto che quei palestinesi uccisi, che avevano pochi giorni prima freddato un israeliano sul ciglio della strada, erano esempi e martiri per tutti quanti. Halevy ha pure parlato della solita rampante corruzione nell’Anp, dell’incapacità di Al Fatah di reggersi in piedi senza il sostanzioso, incessante contributo internazionale.
Alla fine, veniva da pensare che Halevy preferisse Hamas. Il giornale Haaretz gli ha dedicato questa settimana un fondo in cui invita Netanyahu, mentre si spara da Gaza, a prendere in considerazione l’idea di rendere più malleabile il rapporto con chi governa il milione e mezzo di palestinesi che vi abitano. Hamas ha oltretutto in mano Gilad Shalit, quindi costringe Israele a danzare al ritmo dell’impossibile scambio proposto. Di fatto tutto il mondo sospetta che la difficoltà a chiudere le trattative per la liberazione del soldato, dal momento che Israele ha accettato l’impossibile (cioè consegnare circa 1.000 terroristi in cambio di un ragazzo di leva), sia legata a due temi. Primo, la richiesta di Israele di liberare parte dei prigionieri lontano dalla Cisgiordania, dove è facile infiltrare i terroristi. Secondo, il rifiuto di liberare, oltre ad alcuni altri pluriassassini, soprattutto quel Marwan Barghouti che, amato dalla base, metterebbe a rischio la leadership di Abu Mazen.
Insomma: l’Al Fatah moderato di Abu Mazen e Fayyad sembra più un impiccio che una soluzione per fare ripartire la locomotiva mediorientale.