Sul convegno di filosofia da tenersi a Teheran, organizzato dall'Onu, sul FOGLIO di oggi, 16/01/2010, a pag.2, un approfondita analisi di Giulio Meotti, dal titolo " L'Onu elegge Teheran capitale della filosofia. E ignora i fiolosofi in galera ".
Roma. Ieri una corte di Teheran ha condannato a quindici anni di prigione e a 74 frustate Zia Nabavi, attivista del movimento studentesco e portavoce del Consiglio per il diritto all’educazione. Una delle sentenze più pesanti tra quelle impartite ai prigioneri politici arrestati dopo le elezioni di giugno. E’ con una serie di simili condanne comminate a intellettuali, giornalisti e religiosi ribelli che l’Iran ha “celebrato” la decisione delle Nazioni Unite, tramite l’Unesco, di nominare Teheran capitale mondiale della filosofia per il 2010. Nei giorni scorsi è uscito sulla Stampa l’appello contro la decisione dell’Unesco firmato da Giuliano Amato e Ramin Jahanbegloo, filosofo iraniano e intervistatore prediletto di Isaiah Berlin, di cui in Italia si può leggere il pamphlet “Leggendo Gandhi a Teheran” (Marsilio). Jahanbegloo è il pensatore iraniano che tre anni fa è stato imprigionato per cinque mesi nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. “Riteniamo che la candidatura dell’Iran per la prossima edizione non possa essere accolta come una ordinaria rotazione della sede, dal momento che sappiamo, purtroppo per esperienze che ci sono vicine, come in Iran si possa essere incarcerati e si possa rischiare la vita per le proprie idee”. L’Iran è disseminato oggi di filosofi e pensatori incarcerati per le loro idee. Una schiera di perseguitati che disonora la ricchezza culturale persiana. Il sociologo americano Kian Tajbakhsh, provenientedalla Columbia University e arrestato aTeheran durante le proteste post elettorali, è stato condannato a dodici anni. In questa truppa di filosofi dissidenti svetta Akbar Ganji, lo studioso di filosofia politica per molti anni in galera e liberato grazie soltanto all’intervento dell’amministrazione Bush. Altissimo il prezzo pagato da un altro filosofo e accademico, il professor Hashem Aghajari, invalido di guerra ed erede spirituale di Ali Shariati, il teorico di un “islam senza clero”. Aghajari è stato condannato a morte per blasfemia nel 2002 (la pena poi era stata sospesa) e oggi è il guru intellettuale delle confraternite studentesche antiregime. Tanti sono i filosofi e accademici cacciati negli ultimi anni. Mohammad Shabestari e Hossein Bashiriyeh, noti esponenti riformisti, sono stati costretti alle dimissioni durante la “rivoluzione culturale” nelle università volute dal presidente iraniano Ahmadinejad. E’ un esiliato interno il filosofo e religioso Mohsen Kadivar. La polizia in Iran annulla spesso i suoi sermoni e per il suo appoggio alla dissidenza studentesca Kadivar si è fatto un anno e mezzo di carcere a Evin. Kadivar aveva denunciato i privilegi del clero e l’inaccessibilità dei ruoli chiave ai non religiosi e ai non musulmani. Poi c’è l’esercito dei filosofi in esilio. Alcune delle migliori intelligenze iraniane vivono in Europa. Abdolkarim Soroush è stato chiamato “alleato di Satana” e “spia occidentale”. E’ l’astro più brillante della nouvelle vague iraniana che vuole riconciliare islam e modernità. Visiting professor prima a Harvard e a Princeton, Soroush è il teorico della “democrazia religiosa”. Troviamo Daryush Shayegan, il filosofo autore de “Le régard mutilé”, un punto di riferimento per un’intera generazione iraniana post rivoluzionaria. Il mullah Reza Hajatpour insegna filosofia in Germania, dove ha pubblicato un libro contro la “mullahcrazia”. L’olandese Afshin Ellian insegna diritto e filosofia all’Università di Leiden. Il professor Mohsen Sazegara insegna filosofia politica nella costa orientale degli Stati Uniti ed è uno dei più celebri dissidenti del regime, da cui negli anni Ottanta fu sbattuto in galera con l’accusa di far parte dei ribelli del Mujahedin-e Khalq. Era il tempo della repressione che travolse bambini e vecchi, giovani soltanto sospetti di “deviazionismo” o, peggio, di ateismo. Le prove sono trascurate: basta il sospetto, la convinzione del giudice che l’imputato sia “un ipocrita”. “Fu un punto di non ritorno per me”, ha raccontato Sazegara al Foglio nel novembre scorso. “C’era una ragazza, le dissero: ‘Frustate questa puttana’. Lei iniziò a piangere, ‘non ce la faccio più’ disse. E l’uomo degli interrogatori le rispose: ‘E allora come farai a tollerare la punizione di Dio? Nella prossima vita sarai all’inferno’. E la portarono via. Da allora sono stato imprigionato quattro volte dal regime”. Come nel febbraio del 2003, quando Sazegara chiede un referendum sul regime. Viene arrestato, il suo computer, i suoi libri, le sue ricerche distrutte e confiscate. Annuncia uno sciopero della fame e della sete, che quasi lo uccide. Oggi Sazegara tiene corsi ad Harvard e Yale, e su di lui pende una condanna a sei anni di carcere per aver istigato nella popolazione atteggiamenti critici sul regime. I loro nomi sarebbero motivi più che validi per indurre l’Unesco a rivedere la decisione di fare di Teheran la capitale della libertà di pensiero. Anche Neda Soltan, la ragazza assassinata e diventata simbolo delle proteste, era laureata in teologia e filosofia.
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