Dall' OPINIONE di oggi, 16/01/2010, la storia di Irin Ahmed, una ex terrorista suicida che ha cambaito idea, nel racconto di Michael Sfaradi.
Nonostante diversi esponenti di Al Fatah abbiano più volte dichiarato che la seconda intifada, quella per intenderci del 2002, era stata programmata da Arafat e dai suoi fin nei minimi particolari e si aspettava soltanto il momento giusto per farla scattare, la stragrande maggioranza dei media internazionali continua a raccontare la favola che si trattò di un'insurrezione spontanea dovuta alla famosa passeggiata, dell’allora capo dell'opposizione al Parlamento israeliano Ariel Sharon, sulla spianata del Tempio di Gerusalemme.
Si tratta di un falso che continua ad essere citato come un'assoluta verità. Nel maggio dello stesso anno, con la rivolta all'apice della sua violenza, la vita in Israele e nei territori palestinesi era diventata estremamente difficile per tutti. La popolazione israeliana era arrivata al punto di dover sopportare la media di un attentato al giorno, con i notiziari serali che erano un continuo bollettino di guerra, alla fine si contarono centinaia di morti e migliaia di feriti la stragrande maggioranza dei quali civili e di tutte le età.
Quella palestinese, dal canto suo, si ritrovò a fare i conti con nuove difficoltà che andavano ad aggravare la già precaria situazione in cui viveva, e vive ancora, nonostante centinaia di milioni di dollari di aiuti internazionali. Il problema più grave che dovette affrontare fu la disoccupazione, giacché la maggioranza dei datori di lavoro israeliani rinunciarono, per motivi di sicurezza, alla manovalanza arabo palestinese in conseguenza a gravi atti di aggressione con morti e feriti sui posti di lavoro.
Poi, a completare l’opera c’era anche la quasi impossibilità di movimento fra i territori e Israele, difficoltà dovuta ai continui controlli da parte della polizia e delle unità antiterrorismo israeliane.
Questo era il quadro della situazione quando accadde ciò che vogliamo raccontare, cioè la storia di Irin Ahmed, una studentessa universitaria palestinese che all'epoca dei fatti abitava in uno dei sobborghi di Ramallah in Cisgiordania.
Stanca di questa situazione Irin decise di entrare a far parte di uno dei gruppi terroristici che istruivano gli aspiranti suicidi nell'uso degli esplosivi e, dopo un breve periodo di addestramento, arrivò anche per lei il momento di entrare in azione e diventare una martire in nome di Allah; Il 22 maggio 2002 era per lei il giorno della verità. Vestita all'occidentale con pantaloni jeans, camicia colorata, capelli al vento e occhiali da sole, fu accompagnata, insieme ad Is Abadir di 16 anni, anche lui pronto a morire, al centro di Rishon le Zion, importante città a sud di Tel Aviv. Is indossava, sotto la camicia un giubbetto con 22 kg di esplosivo, biglie metalliche e chiodi per rendere più devastante i danni dell'esplosione, mentre Irin aveva con sé una borsa esplosiva del peso di 30 kg. Il loro compito era di trovare un punto affollato per portare a compimento l’operazione.
Una volta individuato l'obbiettivo Is si sarebbe fatto esplodere mentre Irin avrebbe atteso l'arrivo dei soccorsi per entrare in azione e mietere vittime fra i paramedici e i poliziotti che sarebbero arrivati, mettendo a segno un doppio attentato; uno schema che, purtroppo, abbiamo visto ripetersi più di una volta. I due ragazzi, in preda a un caos psicologico che noi non possiamo minimamente immaginare, girarono indisturbati, per circa tre ore con il loro carico di morte, sulle strade del centro cittadino mescolandosi alle persone che in quel momento, occupate negli acquisti e ignare di ciò che si stava preparando, rischiavano la vita. Irin, improvvisamente, decise che non era pronta a morire.
Qualcosa era cambiato e le sue convinzioni cominciarono a vacillare. Come lei stessa ha raccontato si ritrovò seduta su una panchina nel giardino comunale sentendosi come uno zombi. In quel momento il suo sguardo si incrociò con quello di un bambino che da un passeggino la vide e le sorrise, “Non avevo il diritto di sacrificare vite innocenti” dichiarò poi ai poliziotti che la interrogarono. Il sorriso di quel bimbo le salvò la vita e la salvò a chissà quante altre persone che, da lì a poco, sarebbero rimaste vittime del gesto che stava per compiere. Il suo essere donna, e futura mamma, ebbe la meglio sulle insane idee che la propaganda le aveva instillato nella mente, e dopo aver capito che quello che stava per fare avrebbe colpito soltanto dei civili innocenti, senza portare alcun vantaggio alla causa del suo popolo, decise di rinunciare e di chiamare i due accompagnatori per essere recuperata e riportata a casa.
Quando riuscì a contattarli, dopo diversi tentativi, si accese fra loro una discussione dai toni aspri, pieni di minacce e intimidazioni sia nei suoi confronti che in quelli della sua famiglia, ma per lei non era ancora arrivato il momento di morire.
Cercò anche di convincere Is, il suo compagno di sventura, a fare altrettanto, i due parlarono a lungo, ma quando fu il momento di risalire in macchina e tornare verso Ramallah il ragazzo decise di rimanere ancora un po’ in città e al momento di separarsi la rassicurò dicendo che sarebbe tornato da solo. Lei era convinta che anche Is avrebbe desistito dal suo intento, ma si sbagliava. Apprese, a distanza di meno di un’ora dall'edizione straordinaria del telegiornale israeliano, che un attentato terroristico era stato compiuto proprio nel posto dove lei era stata seduta per tutto il pomeriggio. Is Abadir si fece esplodere, venti minuti dopo che Irin era stata recuperata, in un angolo del parco cittadino dove persone anziane s’incontravano per giocare a scacchi o a carte, e il risultato del suo gesto costò la vita a tre persone, lui compreso, e causò decine di feriti, alcuni anche gravi. Irin Ahmed fu arrestata dalla polizia israeliana a distanza di due giorni dall'attentato e condannata a sette anni di carcere per tentata strage.
Oggi, dopo essere tornata in libertà, ha deciso di raccontare la sua storia; come era arrivata a decidere di suicidarsi in quel terribile modo e, soprattutto, cosa e quali pensieri positivi l'avevano convinta a desistere. Per fare ciò gira il mondo, soprattutto l'Europa, l'ultima conferenza in ordine di tempo è stata tenuta all'Università di Lisbona in Portogallo. Si definisce una "Missionaria della Pace" e cerca di rendere partecipi al dramma suo, del suo popolo e di tutto il Medioriente, il maggior numero di persone spiegando che non sarà la violenza la via per arrivare a una soluzione e, soprattutto, quanto sia dannoso il terrorismo per gli interessi stessi del popolo palestinese. Per il suo gesto di rinuncia Irin Ahmed è stata in qualche modo "punita" dai vertici palestinesi, il suo nome, infatti, non ha mai fatto parte delle liste, che l'autorità palestinese inoltrava al governo israeliano, dei prigionieri da scambiare o di cui si chiedesse la liberazione, ed è per questo che ha scontato la sua condanna fino all'ultimo giorno. Dopo il 22 maggio 2002, visto “l'insuccesso” registrato con Irin, il “Modus Operandi” degli attentatori suicidi cambiò drasticamente; si registrarono infatti casi in cui la detonazione di pacchi o giubbetti esplosivi non era più comandata dal "suicida", ma da una un altro terrorista che lo seguiva a distanza di sicurezza. Questo per evitare improvvisi ripensamenti. La storia di Irin Ahmed ci racconta comunque che la ragione può ancora prendere il sopravvento sulla violenza e sull'odio. Si tratta però di un caso unico perché decine sono stati gli attentatori che si sono fatti esplodere mietendo centinaia di vittime, senza il minimo tentennamento. E questo non è successo solo in Israele, ma anche negli USA (11 settembre) e in Europa (metropolitana di Londra e ferrovia di Madrid). Siamo consapevoli che la strada che porterà a una pacifica coesistenza fra i popoli è ancora lunga e che molte saranno ancora le vittime che pagheranno il prezzo di quest’odio assurdo, ma la speranza che ripensamenti e voglia di vivere, come quelli che portarono Irin a prendere la decisione che prese possano caratterizzare un futuro migliore del presente non deve mai morire. Vorrei aggiungere a quest’articolo una nota di carattere personale; Rishon le Zion è la città di chi vi scrive, e il luogo dove Is Abadir si fece esplodere dista meno di quattrocento metri dalla mia casa. Dopo l'esplosione fui uno dei primi ad arrivare sul posto e, insieme ad altri, portai, in attesa delle ambulanze che non tardarono ad arrivare, un primo soccorso alle persone che erano rimaste a terra ferite. Se Irin Ahmed avesse portato a termine la sua missione, probabilmente, il mio nome figurerebbe sulla lista delle vittime di quest’assurdità che si chiama terrorismo.
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