Mario Carrara
Il 15 maggio 1935 la polizia politica effettua a Torino un'azione a largo raggio contro il movimento antifascista, ovviamente clandestino, di "Giustizia e Libertà". L'operazione fa seguito a quella di poco più di un anno prima, sempre a Torino, che si era conclusa con quindici arresti ed una improvvisa fiammata, ovviamente gestita dall'alto, di antisemitismo. Il fatto che undici dei quindici arrestati fossero ebrei aveva fatto scrivere sul "Tevere" a Telesio Interlandi, futuro direttore de "La Difesa della Razza", un duro attacco contro "questo plotoncino di ebrei antifascisti e antitaliani". Interlandi sosteneva poi che "con documenti ebraici alla mano, l'ebreo non si assimila (ed) esige una doppia nazionalità, diciamo pure una doppia patria....".
Poi, misteriosamente come era stata ordinata, la campagna antisemita per il momento cessa.
L'azione del maggio '35 non ha però la stessa risonanza di quella dell'anno precedente, anche perché non conduce a nessuna nuova scoperta di presunti complotti di antifascismo puramente verbale. E tuttavia qualche risultato bisogna pure portarlo sul tavolo del capo della polizia. Possibilmente di qualche rilievo. Quindi non l'arresto di qualche figura minore e a tutti ignota, ma di qualche personalità di spicco. Meglio se è uno scienziato o un intellettuale noto. Meglio se la sua fama travalica i confini nazionali.
Così, la polizia va ad effettuare una sommaria perquisizione a casa dell’ebreo (così almeno dice l’OVRA) Edoardo Mario Carrara, docente di medicina legale e antropologia criminale nell'Ateneo torinese e attento studioso di psichiatria e di tossicologia, insomma di quanto è legato al mondo del delitto. Carrara è considerato un inno¬vatore della scuola positivista italiana: le sue teorie sono state al centro di grandi polemiche, e oggi in parte superate, ma è il destino dei grandi ricercatori e delle loro conclusioni. Il professore viene accusato di intrattenere rapporti con il cognato, che è lo storico Guglielmo Ferrero, riparato all'estero, e con elementi dell'antifascismo, soprat¬tutto di "Giustizia e Libertà".
Altro a suo carico non c'è. Con rincrescimento non si può procedere al suo arresto. Non resta quindi che continuare a tenere il suo tele¬fono sotto controllo e ad aprirgli la corrispondenza.
L'occasione non manca. Arriva l'anno dopo. Lo denuncia alla polizia un suo collega, lo psichiatra Edoardo Andenino. Lo ha visto, dice, aggirarsi in ambienti antifascisti. Gli consta, aggiunge, che a casa Carrara si tengano frequentemente incontri antifascisti.
A ottobre del '36 Mario Carrara, che ha settant'anni, viene in fine arrestato. Il principale capo d'accusa verte su una lettera che Carrara ha mandato al mi¬nistro della Giustizia del governo legittimo spagnolo, Ruiz Funes, una lettera-messaggio che contiene, grave re¬ato, "parole d'incoraggiamento".
Malgrado la proposta del prefetto di Torino di limitarsi a mandare Carrara al confino, il regime vuole strafare, forse per 'dare un esempio", e lo studioso resta in carcere, dove peraltro gode della stima e della simpatia del direttore, del medico e dei secondini.
Poi finalmente gli viene concessa la libertà provvisoria. Fa a tempo a finire il suo monumentale "Manuale di medicina legale" ed a ve¬dere pubblicato il primo volume. A maggio del 1937 è ricoverato in clinica. Le sue condizioni di salute erano rapidamente peggiorate da quando era stato fatto segno alle pressanti attenzioni del regime (più di quanto sia accaduto ad altri docenti universitari che ne ave¬vano condiviso le decisioni). Ma il segno ultimo coincide con la pa¬rola fine da lui messa sotto la sua ultima opera. Muore il 10 giugno 1937. Ha quasi 71 anni.
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Nel 1925 Mario Carrara era stato tra i firmatari del contromanifesto di Benedetto Croce. Due anni più tardi il ministro dell'Interno chiedeva al prefetto di Torino di tenere sotto stretta sorveglianza Carrara, reo di appar¬tenere - diceva la nota ministeriale - agli alti gradi della masso-neria. La nota proseguiva mettendo in guardia il prefetto: Carrara, affermava, è un furbone e si trattiene da ogni attività compromettente. Indice di grande pericolosità.
Farà magari anche parte di questa "furbizia" dello studioso accettare il giuramento del 1927 (che egli presta alla fine del '26), ma Carrara sembra meno "furbo" nel 1931. Non solo rifiuta la nuova formula di giuramento che si richiede ora ai docenti universitari, ma addirit¬tura "concorda" il rifiuto insieme ad altri due colleghi, Giorgio Levi della Vida e Bartolo Nigrisoli. Quasi un complotto, una associazione per delinquere.
Come capita agli altri non-giuranti, anche su Carrara vengono esercitate pressioni, magari amichevoli, anche affettuose, perché adempia a quella che agli occhi dei più appare come una noiosa formalità burocratica e basta, senza un vero significato. E a rigore potrebbe essere sostenibile la tesi che se tutti i 1250 professori universitari giurassero, il giuramento stesso sarebbe svuotato di ogni contenuto.
E' il filosofo del diritto dello stesso ateneo torinese di Carrara, Gioele Solari, che tenta di convincere il suo amico medico patologo. Alla fine però si arrende. Dirà più tardi che "ogni insistenza non era solo inutile, ma anche inopportuna. Egli ubbidisce ad un imperativo mo¬rale, di fronte al quale ogni cosa perde valore".
Così, alla richiesta del rettore Silvio Pivano, storico del diritto, di giurare, Mario Carrara risponde il 13 novembre 1931 che la for¬mula del nuovo giuramento comporta obblighi di natura politica che nulla hanno a che fare con la sua materia d'insegnamento. Sarei molto felice, scrive al rettore, di poter continuare a impartire questo insegnamento, che esula dalla politica ed è esclusivamente tecnico, a condizione però che "io possa farlo con l'animo libero da ogni preoc¬cupazione e con la dovuta libertà continuare l'attività di studi".
Poco dopo il rettore comunica a Carrara che il ministro della Pubblica Istruzione gli consentirebbe di chiedere il pensionamento. Ma se non lo avesse fatto, se avesse persistito nella sua decisione di rifiutare il giuramento, le conseguenze per lui sarebbero state serie (e come si è visto, queste conseguenze ci saranno pochi anni dopo). Carrara rifiuta. In una lettera ad un altro non-giurante, Gaetano De Sanctis, spiega di non aver visto il motivo di ritirarsi spontanea¬mente. E lei, caro De Sanctis, che cosa farà? De Sanctis a giorni ne seguirà l'esempio.
Il 15 dicembre 1931 Mario Carrara manda al ministro della Pubblica Istruzione una lunga lettera dove nega di aver voluto mettersi contro il governo con il suo rifiuto di giurare fedeltà al fa¬scismo. E' proprio per evitare un confronto politico, scrive, che ho scelto di non giurare, per rimanere completamente fuori dalla poli¬tica. Il giuramento è cosa seria, spiega, ed io non posso dare alla mia attività didattica alcuna colorazione politica. Se si deve formare nei giovani una coscienza scientifica, bisogna evitare di inculcare nelle loro menti apriorismi dottrinali o pregiudizi teologici.
"Abituato ad attribuire al giuramento la serietà dovuta, non ho sentito di potermi impegnare a dare intonazione, orientamento, fi¬nalità politiche alla mia attività didattica (...) La ricerca scientifica può dirsi spassionata e disinteressata solo nel senso che ha per unica passione e per unico interesse il vero. Perciò all'insegnamento superiore non veggo altro limite conveniente che la probità intellet¬tuale e morale del maestro. Questi limiti mi sono sempre volentero¬samente imposti nella mia attività didattica, che dura ormai da trent'anni; e se i risultati ne furono tali da potermene senza pre¬giudizio vantare; se ebbero espansione ed efficacia anche di là della mia scuola e di là dai nostri confini, l'attribuisco proprio a questa intellettuale, da cui ogni elemento pratico e contingente rimane escluso".
Il 3 gennaio 1932 il rettore gli comunica che è lui ad essere escluso dall'università. Poco dopo decade anche dalla funzione di medico delle carceri. Fino alla sua morte si è visto come il regime lo abbia tenuto sotto tiro.
Sulla sua lapide al cimitero di Torino, qualcuno, molti anni dopo, farà scrivere: "In vita invincibile seguace dei diritti inalienabili della libertà dell'uomo".
Giorgio Levi della Vida
"Quando ritornai dall'America nell'ottobre del 1945, la più giovane delle mie figliole, che aveva fatto il corso di lettere all'università, mi raccontò che nella sessione estiva del 1940 aveva dato l'esame di filosofia con il professor Gentile. Avendo letto il suo nome nell'elenco degli esaminandi, le domandò se era mia parente; e qu¬ando gli rispose che era mia figlia, si commosse, cominciò a darle del tu, a chiamarla , ad accarezzarle il mento; e poi le disse in tono concitato: ........".
Queste le parole di Giorgio Levi della Vida nelle sue memorie ap¬parse nel 1966 con il titolo di "Fantasmi ritrovati".
Dice Levi della Vida che la figlia però non gli comunicò mai il mes-saggio (oppure non gli arrivò mai la lettera) e quando Levi ne ebbe noti-zia dopo la fine della guerra, "era troppo tardi per ringraziarlo". Giovanni Gentile infatti era stata assassinato a Firenze un anno e mezzo prima.
Ma poi, con un senso di understatement molto britannico, Levi ag¬giunge che"di fatto, questa grande amicizia tra me e Gentile non c'è mai stata". E si capisce perché. Non fosse per altro, per il giuramento di fedeltà al fascismo voluto da Giovanni Gentile, imposto nel 1931 ai docenti universitari e che Levi della Vida rifiutò di firmare. Occasioni di scontro con Gentile non mancano an¬che as¬sai prima che Mussolini indossasse l'abito buono per rispon¬dere alla chiamata del re.
Giorgio Samuele Levi della Vida nasce a Venezia il 22 agosto del 1886, ma dopo qualche peregrinazione a Firenze e a Genova i suoi genitori si trasferiscono stabilmente a Roma nel 1903, quando Giorgio ha 17 anni.
La sua educazione è laica e liberale, ma il suo interessamento per le religioni è fortissimo e certo non per l'atmosfera che si respira in casa sua. E anche Giorgio, coscientemente ebreo, non pro¬fessa alcun credo. Come Schiller, ama ripetere, anch'io non seguo al¬cuna religione di quelle conosciute, e perché? Per religione.
Studente brillante, curioso, con l'animo innato del ricercatore, stu¬dia la lingua e la religione ebraiche fin dall'adolescenza, ma altret¬tanto fa con il cristianesimo e poi con l'Islam. Il barnabita Giovanni Semeria lo introduce nei meandri del cattolicesimo e gli fa capire, a lui agnostico e lontano dai rituali della fede e forse dalla fede stessa, la pulsione religiosa che muove le anime autenticamente prese dalla ricerca della verità divina.
Presto Giorgio Levi della Vida conoscerà a Roma (e ne resterà amico per tutta la vita) Ernesto Buonaiuti, destinato ad occupare la catte¬dra di Storia del cristianesimo alla Sapienza e a diventare il corag¬gioso leader dei modernisti in campo cattolico.
Dal canto suo Levi sceglie l'indirizzo orientalistico e nel 1909 si lau¬rea con Ignazio Guidi, in quel momento il più illustre conoscitore italiano di lingue semitiche e assai noto anche fuori dall'Italia.
Levi Della Vida accompagnerà poi Guidi nelle sue campagne di scavo, e durante una di queste campagne conosce a Creta uno dei suoi futuri compagni di disavventura, Gaetano De Sanctis.
Dal 1911 incomincia il proficuo rapporto di lavoro tra Giorgio Levi della Vida e lo storico dell'Islam Leone Caetani, duca di Sermoneta. Con lui collabora agli "Annali dell'Islam".
Il 1911 è anche l'anno del suo matrimonio con Adelaide Campanari, dalla quale avrà tre figli, Giorgina, Carlo e Giuliana.
Eccezionale la carriera universitaria del brillante orientalista quale subito rivela di essere Levi della Vida. Insegnante di letteratura araba all'Istituto Orientale di Napoli nel 1914, a soli 28 anni, dal 1916 è professore straordinario di Lingue semitiche all'Università di Torino. Nel 1917 vince la cattedra per l'insegnamento della filo¬logia semitica e ne resterà titolare a Torino fino al 1920, con la lunga parentesi della guerra, durante la quale viene richiamato alle armi con il grado di tenente e con l'insolita funzione di interprete dall'arabo.
Nel 1920, nominato ordinario, torna a Roma e occupa la catte¬dra di Ebraico e Lingue semitiche, la stessa che era stata di Guidi, andato in pensione due anni prima.
In effetti in quell'anno ha già pubblicato diversi libri di ebraistica e di islamistica. Prima del '31 avrà al suo attivo opere ponderose come "Studi sul califfato di Alì", "Ebrei, la loro storia, religione e cultura" e, in francese, "Les de Hisam ibn al-Kalbi et Muhammad ibn al A'rabi".
Nel gennaio del 1920 Levi della Vida conosce il suo collega di facoltà Giovanni Gentile, che cortesemente assi¬ste alla prolusione che Levi fa al suo corso.
E' una prolusione ("La politica dei profeti d'Israele") che a Gentile però non piace e per motivi apparentemente paradossali. In termini sportivi si potrebbe dire che Levi è dalla parte dei re e, lui ebreo, contro i profeti. Gentile al contrario privilegia i profeti e non tiene in grande considerazione i re d'Israele.
Il fatto è che il laico Levi Della Vida osserva nella sua prolu¬sione come la maggior parte dei profeti ebrei, con l'eccezione di Geremia, si dilettassero a redarguire i re d'Israele e di Giuda. Questi, secondo le accuse dei profeti, seguivano una politica di appease¬ment nei confronti dei grandi imperi vicini, Assiria ed Egitto in primo luogo. La volontà di Dio, sempre secondo i profeti, esigeva in¬vece che i nemici venissero sfidati senza compromessi o concessioni.
In quella prolusione Levi Della Vida, si schiera dunque apertamente a fianco dei re contro i profeti e non solo per spirito laico. Levi vuole di-mostrare come in certe circostanze e dati i rapporti di po¬tenza, una politica di pace e di compromessi sia la sola pos¬sibile, mentre un intransigente bellicismo porterebbe un piccolo paese alla cata¬strofe.
Infatti, proseguiva Levi, ogni volta che in Israele il fanatico entu¬siasmo dei profeti era riuscito ad avere la meglio sulla prudente condotta dei re, era seguito un immane di¬sastro. Ammirare i profeti per l'intensità del loro sentimento reli¬gioso e per il valore estetico del loro linguaggio poetico, va benis¬simo, ma bisogna anche giudi¬carli severamente dal punto di vista dei risultati.
Che a difendere i profeti d'Israele contro i re fosse invece Gentile è però solo apparentemente paradossale. Al tempo di questa prolu¬sione era in atto l'occupazione di Fiume da parte di D'Annunzio e i nazio¬nalisti chiedevano a gran voce l'annessione della Dalmazia, a qua¬lunque costo. I prudenti come Nitti venivano vi¬lipesi. Non si era ancora all'allucinante "viva la morte" gridato anni dopo dai falangisti spa¬gnoli nella guerra civile, ma alla "bella morte" sì. E Gentile, anche se formalmente liberale, si sentiva già molto vi¬cino alle posizioni dei nazionalisti intransigenti. Dunque dalla parte dei profeti e contro i re.
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La passione di Giorgio Levi della Vida per il mondo dell'oriente semita non lo distoglie dall'interesse per le vicende politiche italiane. A partire dal 1919 Levi è presente come commentatore politico fisso sul "Paese" di Francesco Saverio Nitti. Il giornale si pone subito decisamente contro il sorgente fascismo, del quale l'orientalista denuncia instancabilmente i vizi d'origine.
Levi della Vida scrive sul "Paese" fino al 1922. In questi anni colla¬bora anche al "Mondo" e alla "Stampa". La sua visione politica è acuta e non si restringe certo alla contrapposizione tra liberalismo e fascismo. Vede già in una forma di solidarietà europea l'unico mezzo per uscire da una crisi economica che già capisce essere foriera di rovina. Se non si arriverà a concretizzare questa solidarietà, scrive, "allora ci sarà un'altra solidarietà, quella della rovina".
Ma la prima rovina per l'Italia è in agguato e Levi della Vida la vede arrivare con lucida angoscia. Molti anni più tardi, dopo la fine della seconda guerra mondiale, dirà che la sua era stata una contrarietà fisiologica a fare qualsiasi tipo di concessione, teorica o pratica, al fascismo. Per il fascismo aveva avuto un rifiuto che prima di essere morale o politico era estetico. Levi della Vida non sopportava la retorica esibizionista di un patriottismo pomposo e privo di reali contenuti, l'apologia della violenza, l'esaltazione della guerra come "igiene dei popoli". "Il non aver capito subito il suo carattere - scriverà del fascismo - è uno dei più gravi errori commessi dagli italiani, uno dei sintomi più chiari della decadenza dell'intelligenza politica".
Quando negli anni, nei mesi immediatamente precedenti alla marcia su Roma Giorgio Levi della Vida è testimone delle violenze fasciste anche nella capitale, invita i fascisti non violenti, quelli che ancora credono nella legalità e hanno fede nelle idee piuttosto che nel manganello e nell'olio di ricino, a dissociarsi dai teppisti che anche in loro nome compiono ogni sorte di azioni illegali e violente. "Se non lo faranno - scrive - allora il fascismo è un'associazione terro¬ristica che si pone di sua volontà al di fuori delle leggi e visto che attacca le radici dell'esistenza nazionale, la legge ha il dovere di di¬struggerla. Questo è il dilemma dal quale non c'è scampo".
La prosa di Levi della Vida attira ad un certo momento l'attenzione di Mussolini che attaccando "Il Paese", nell'ottobre 1921 scrive: "....sul un certo signor Giorgio Levi della Vida - ma perché si occupa di politica italiana? - pubblica le sue calunnie pseudofilosofi¬che contro il fascismo". E qui mette conto di osservare come Mussolini sia in uno dei suoi momenti di antisemitismo acuto. Chiedendosi retoricamente perché Levi della Vida si occupi di poli¬tica italiana, Mussolini afferma che gli ebrei non sono italiani e non hanno quindi diritto di parteci¬pare alla vita politica pubblica.
Ma ecco - non è la prima e non sarà l'ultima volta - il Mussolini uno e due. Il Mussolini uno è quello che vede gli ebrei come stranieri ostili. Il Mussolini due è invece quello che pochi giorni più tardi, il 19 novembre, torna ad occuparsi del "Paese" e di Levi della Vida, per definirlo "uno dei pochi autori di quel giornale che mantiene una obbiettività nel giudicare il fasci¬smo". La tecnica della demonizzazione dell'avversario e poi della sua disinvolta totale "riabilitazione" non è invenzione recente.
Il 22 ottobre dell'anno successivo, il 1922, Mussolini, dopo la "marcia su Roma", è incaricato dal re Vittorio Emanuele III, più preoccupato delle eventuali mene contro di lui dei suoi cu¬gini Aosta che di quelle del fascismo contro il paese, di formare il nuovo governo.
Alla fine di ottobre a Giovanni Gentile viene affidato il ministero della Pubblica Istruzione. A Giorgio Levi della Vida, caduto in un agguato delle squadracce fasciste, è somministrato invece l'olio di ricino.
Levi della Vida non è tuttavia uomo da sopportare l'ingiuria e la violenza senza reagire. Scrive due lettere di dura protesta. Una la spedisce al capo del governo e del partito fascista, il cavalier Benito Mussolini, l'altra a Giovanni Gentile, che come ministro della Pubblica Istruzione dovrebbe essere, come scriverà Levi della Vida, il "protettore naturale dell'indipendenza dei professori".
Succede che a fargli prontamente rispondere è proprio Mussolini, il quale delega il sottosegre¬tario all'Interno Giacomo Acerbo a depre¬care con parole vibranti l'accaduto. Il capo del governo, scrive Acerbo, assi-cura il valoroso docente che avrebbe fatto condurre un'inchiesta se¬vera.
Naturalmente l'inchiesta non viene fatta e il caso archiviato, anche se Mussolini, ora al potere, cerca di frenare le sue squadracce. Ma Gentile non ritiene nemmeno opportuno rispondere.
Il seguito riguarda il rap¬porto diretto tra Gentile e Levi Della Vida.
Siamo nel 1923. E' l'anno della "riforma Gentile" della scuola.
Levi della Vida, che dirige la Scuola Orientale dell'università di Napoli, ha qualcosa da obiettare sulla riforma e a un anno di di¬stanza dalla disavventura dell'olio di ricino e dalla mancata risposta di Gentile alla sua lettera, torna a scrivergli, naturalmente senza fare cenno all'episodio, ma per esporgli le sue osservazioni in merito alla progettata (e quasi giunta in porto) riforma scolastica.
Di nuovo Gentile non risponde e Levi della Vida coglie l'occasione della sua riconferma alla direzione dell'Istituto all'inizio dell'anno accademico 1923-1924 per comunicare al rettore Francesco Severi, molto amico di Gentile e al tempo stesso e contingentemente antifa¬scista dichiarato, di non potere più accettare l'incarico. Sono dolente, scrive Levi, di non essere in grado di accettare una prova di fiducia da parte del ministro che quella fiducia mi aveva negata poche set¬timane prima. Appunto con il fin de non recevoir delle sue osser¬vazioni sulla riforma.
Pochissimi giorni dopo Levi è chiamato a Roma dal capo di gabinetto di Gentile. E qui incomincia una sceneggiata. Il capo di gabinetto si straccia le vesti e si copre di cenere la testa. Sono io, gli dice, che ho dimenticato di consegnare la sua lettera al ministro e per questo il ministro Gentile mi ha fatto un violento rabbuffo. Ma come, gli av¬rebbe detto, come non rispondere a un uomo della statura, del va¬lore di Levi della Vida, uno scienziato preclaro e un caro amico?
Dopo questa premessa (non occorre dire che il povero capo di gabi-netto si è addossato la colpa per coprire il superiore) Gentile può ri-cevere Levi della Vida. E gli riserva grandi effusioni di simpatia e di stima. "Molto mi meraviglia, gli dice, che lei abbia potuto sup¬porre che una sua visita e soprattutto i suoi illuminati consigli non mi sa¬rebbero stati graditi. Ma come ha potuto pensarla una cosa del ge¬nere?". "L'ho pensata - risponde Levi della Vida - dopo che lei non ha risposta alla mia lettera di un anno fa, quella dell'olio di ri¬cino".
All'accenno di Levi della pronta risposta di Mussolini, Gentile di¬venta cremisi. Poi sarà lo stesso Levi della Vida a toglierlo d'imbarazzo.
L'attività politica pubblica di Levi cessa non molto tempo dopo il delitto Matteotti, quando le sorti d'Italia sono segnate. E' ancora at¬tivo nell'autunno del 1924 nel Consiglio dell'"Unione nazionale delle forze liberali e democratiche". Ma la sua ultima uscita è la firma sotto al contromanifesto di Benedetto Croce nel 1925.
Tra il '25 e il '31 Giorgio Levi della Vida resta sotto la sua tenda di studioso e di scienziato. E sono anni proficui per l'orientalistica ita-liana.
Ma ecco nell'estate del 1931 incominciano a circolare strane voci, che s'intensificano a settembre. Si parla dell'intenzione del governo d'imporre una nuova formula di giuramento ai professori universi¬tari, e non solo a quelli nuovi, ma anche a coloro che già nel 1927 avevano giurato fedeltà al re e alla patria (giuramento che Levi della Vida, al contrario di altri, non aveva avuto alcuna remora a pronunciare).
Alla fine di settembre si presenta da Levi all'università un alto funzionario del ministero della Pubblica Istruzione, che lo prega di prestare giuramento per non privare la scienza, dice, di un così va¬lido elemento. Ma Levi della Vida non ha tentennamenti. Gli ri¬sponde: "Io non sono solo uno scienziato, ma anche un uomo". E chiude il discorso.
Il 17 novembre Levi riceve l'invito del rettore di presentarsi da lui per prestare giuramento. Il 19 novembre Levi della Vida comunica al rettore che non gli è possibile giurare perché la formula del giu¬ramento sottintendeva oltre al dovere di ossequio e obbedienza an¬che una approvazione interiore e una partecipazione attiva. Per me, scrive, un giuramento è qualcosa di molto importante ed ho un'idea forse troppo alta del mio onore per giurare senza convincimento. Se la formula, aggiunge, mi negasse solo una parte di libertà esterna, non avrei avuto remore a giurare, ma non posso "approvare una formula che mi negherebbe la libertà di pensiero".
Il 12 dicembre del '31 arriva anche al rettore dell'università di Roma la lettera del ministro che sollecita dal docente ribelle entro tre giorni, le sue "deduzioni". In pratica un ultimatum, esattamente lo stesso mandato ai suoi undici colleghi.
Il giorno 15, giusto in tempo per rispettare il termine ultimativo di tre giorni, Giorgio Levi Della Vida risponde al ministro e "deduce".
"La giustificazione della mia condotta - scrive - è contenuta nella di-chiarazione da me inviata in data 19 novembre al Rettore dell'Università di Roma" e cioè che "non mi è possibile prestare giu¬ramento secondo una formula che implica non già un impegno di ossequio e di obbedienza, bensì una adesione intima e una parteci¬pazione attiva di tutto se stesso. Rispetto troppo la santità del giu¬ramento per non attribuirgli, interi e precisi, il significato e il valore che esso comporta, e sento troppo altamente del mio onore per pro¬nunciare un atto di fede senza convinzione. A una formula che vin¬co¬lasse soltanto la mia libertà esteriore non avrei da opporre alcuna resistenza: non posso accedere, qualunque siano le conseguenze che possono derivare dal mio diniego, a una formula che vincola la li¬bertà del mio pensiero". Così com'è, aggiunge, il giuramento non è solo "una totale adesione a determinati principii" ma "una vera e propria filosofia, o meglio, come è stato affermato da parte singo¬larmente autorevole, una religione". E "questa fede, sinceramente professata, posso rispettare, ma non mi sento di parteciparvi".
La lettera del ministro Giuliano nella quale gli viene comunicata la sospensione dal servizio "per motivi di incompatibilità con le linee politiche generali del governo", non tarda ad arrivare a Levi della Vida.
Il 1° gennaio 1932 Levi della Vida è fuori dall'università.
Non resta tuttavia senza lavoro. E torna curiosamente il nome di Giovanni Gentile, davvero "uno e centomila".
Un passo indietro. Nell'autunno del 1925 Gentile (che ormai da un anno non è più ministro ma che continuerà sempre, per sua sfor¬tuna, ad essere l'eminenza culturale del fascismo) propone a Giorgio Levi della Vida di collaborare all'Enciclopedia Italiana, poi diven¬tata, dal nome del suo fondatore e mecenate, semplicemente "la Treccani".
Levi, che un carattere facile non lo è davvero, risponde che non solo era difficile per lui accettare, ma che la maggiore difficoltà sarebbe dovuta provenire proprio da Gentile "poiché era lui quegli che nei suoi scritti filosofici aveva tante volte teorizzato l'unità inscindibile dell'attività dello spirito e negato la possibilità di distinguere il pensiero teorico da quello pratico......".
Ma Gentile è pronto a ribattere ed è disposto ad attenuare il suo ri¬gore teorico per raggiungere il suo obbiettivo pratico, che è ora quello di fare dell'Enciclopedia un'opera grande, come di fatto è poi avvenuto. Così dice a Levi che ognuno avrebbe fornito le proprie cognizioni per così dire tecniche senza che questo implicasse un im¬pegno totale della personalità.
Levi gli obietta che molti hanno rifiutato di collaborare all'Enciclopedia. Tra coloro che hanno declinato l'invito a collaborare all'Enciclopedia, dice, vi è pure un amico di Gentile, il critico Cesare De Lollis.
E Gentile: "Come mai mi ha detto di no, lui che è tanto mio amico?".
Scriverà Levi della Vida: "Come per un'illuminazione improvvisa mi apparve chiara la mentalità di Gentile. Al quale pareva inconcepi¬bile che un amico di antica data e di sicura fede gli rifiutasse l'aiuto richiesto non per altro che per una divergenza di idee. E vidi affio¬rare nel pensatore insigne (.) la psiche intatta e frescamente primi¬tiva che gli etnologi ravvisano in certe civiltà sottosviluppate dove la solidarietà di gruppo prevale in maniera assoluta su ogni altro principio e interesse e unisce in vincolo indissolubile e perpetuo, per il bene e per il male, coloro che fanno parte del gruppo stesso".
Di Gentile l'amico De Lollis usava lapidariamente dire: "Mi piace Gentile: è un buon brigante".
Che Gentile sia "un buon brigante" lo dimostra una prima volta alla fine del '31 quando scrive a Levi di essere dispiaciuto per il suo ri¬fiuto di giurare, ma "non posso che apprezzare la sua dichiarazione di fedeltà verso la sua coscienza....Oggi le voglio dichiarare la mia simpatia per il suo carattere....".
Pare dimostrare questa simpatia quando l'insigne orientalista viene cacciato dall'università, mantenendogli la collaborazione all'Enciclopedia (che alla fine Levi della Vida si era risolto ad accettare), e assicurandogli libertà di espressione. Che potrà servirgli nella monumentale e dotta voce "Ebrei", per la quale Levi rifiuta ogni (interessato) “suggerimento” di qualche sacerdote di casa all'Enciclopedia.
Con Gentile si beccheranno sempre, è vero. Quando Gentile gli dice che il fascismo è una realtà dalla quale non si può prescindere e ne¬gandolo ci si mette fuori dalla storia, Levi risponde che "anche Satana ha una parte essenziale nell'economia della Redenzione, ma non per questo è meno dannato all'inferno". Ma continueranno a la¬vorare insieme.
Sorvegliato dalla polizia, pedinato, con il telefono sotto controllo, mai però Levi della Vida ha da temere qualcosa da Gentile che in un certo senso si fa per lui almeno oggettivamente mallevadore.
E probabilmente è Gentile che si adopera per fargli avere il passa¬porto nell'agosto del 1938, mentre Mussolini incomincia a varare le prime leggi antiebraiche. Un telegramma del ministero dell'Educazione Nazionale al ministero degli Affari Esteri, datato ap¬punto agosto '38, dice che "In relazione a fonogramma N° 883159/1036 del 9 agosto 1938 relativo alla richiesta fatta prof. Samuele Levi della Vida per rinnovo passaporto Stati Uniti America et Canadà ragioni studio comunicasi che per quanto concerne questo Ministero nulla osterebbe al riguardo. Devesi peraltro far pre¬sente che professore anzidetto non est di razza italiana.
Stati Uniti e ritorno
Nel 1939 l'università americana della Pennsylvania gli offre la cat¬tedra di orientalistica. Giorgio Levi della Vida accetta e si trasferisce negli Stati Uniti con regolare passaporto.
Alla fine della seconda guerra mondiale Levi torna a Roma dove non riceve una accoglienza molto calorosa dai suoi colleghi né dalla burocrazia italiana che gli chiede di dimostrare di aver mantenuto la nazionalità italiana. Levi della Vida soffoca l'ira, lui che pochi anni prima era stato definito di "razza non italiana". Comunque, scrive, "mi è grato dichiarare che non soltanto non ho assunto la cittadinanza degli Stati Uniti, ma non ho nemmeno mai fatto alcun passo preliminare per ottenerla. Avendo lasciato il mio paese per sottrarmi alla tirannide fascista, era ovvio che desiderassi rientrarvi non appena esso fosse stato restituito alla libertà".
Nel 1945 riottiene dunque la cattedra, riprende l'insegnamento e per molti anni farà parte del Comitato italiano per la libertà di cul¬tura.
Il 12 ottobre del 1948 grande seduta alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma. All'ordine del giorno la proposta del preside Funaioli, "a proposito del riesame e dell'eventuale conferma dell'incarico di Filosofia morale" di restituire la cattedra al professor Balbino Giuliano. Sì, proprio quel Balbino Giuliano che diciassette anni prima, nel 1931, come ministro della Pubblica Istruzione aveva cacciato dalle università italiane i dodici professori che ave¬vano rifiutato di giurare fedeltà al fascismo. Si tratterebbe, dice il preside della Facoltà, di "un atto di umanità verso un collega di cui tutti serbano affettuoso ricordo". Tutti? Dei ventinove professori presenti alla seduta, ce ne sono due che di Giuliano non dovrebbero serbare un affettuoso ricordo, Gaetano De Sanctis e lui, Levi della Vida.
Secondo quanto si legge nel verbale della seduta "Levi della Vida, dopo premesso che egli ha sempre dato voto favorevole al richiamo di vecchi colleghi al di sopra di ogni considerazione politica e che è sempre stato contrario a ogni procedura di epurazione per motivi ideologici, dichiara tuttavia di essere spiacente di non poter aderire alla proposta per il Giuliano".
Conclusione? Si legge nell’ordine del giorno finale che la Facoltà “ …si onora di formulare le seguenti proposte: 1) che il prof. Balbino Giuliano venga restituito alla cattedra di Filosofia morale…”
L'ordine del giorno vota quasi all’unisono (quasi) per il ritorno trionfale di Balbino Giuliano già docente di Filosofia morale (morale!) per meriti fascisti sulla cattedra tenuta al caldo per lui.
Renzo De Felice ricorda come i reintegrati (a larghissima maggio¬ranza, come si è visto, alla Facoltà di Filosofia, all'unanimità a Scienze Politiche) tutti o quasi avessero raggiunto, con i loro set¬tant'anni e più, l'età pensionabile. Il gesto, per Balbino Giuliano, per Gioacchino Volpe, era dunque un gesto politico deliberato.
Nessuno avrebbe voluto infierire sui vinti, come questi avevano in-fierito quando detenevano le leve del potere, ma un minimo di de¬cenza poteva "salvare l'anima" a qualcuno.
Giorgio Samuele Levi Della Vida muore a Roma, nella sua casa di via Po 9, il 25 novembre 1967. Ha 81 anni.
Piero Sraffa
La pioggia cadeva finissima dal cielo nero di Cambridge quell'8 set-tembre 1983 e la bandiera del Trinity College a quattro scacchi rossi e blu pendeva a mezz'asta. Il professor Sandro Vaciago, direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Londra, lesse il commosso messaggio del presidente Pertini per la scomparsa di Piero Sraffa, "grande italiano, nel quale erano mira¬bilmente fuse la genialità scientifica e l'alta coscienza morale e po¬liica". Come era giunto Sraffa in Inghilterra? Nato a Torino il 5 agosto 1898 da una famiglia di ebrei pisani, figlio di Angelo, eminente studioso di diritto commerciale e poi Rettore dell'università Bocconi, e di Irma Tivoli, Piero Sraffa aveva velocemente fatto i suoi studi universitari e poi si era cimentato in una impegnativa tesi di lau¬rea con Luigi Einaudi. L'argomento era l'inflazione monetaria in Italia ed Einaudi non mancò di notare l'acume singolare del giovane studente. Nella primavera del 1921 Sraffa trascorse un periodo alla London School of Economics dove incominciò a riflettere sulla teoria dei prezzi e sulla concorrenza imperfetta.
Siamo intanto nel 1923 e Mussolini è andato al potere.
Sraffa scrive due articoli: il primo, un saggio scientifico, apparirà sull’Economic Journal, l'altro sul Guardian. Sono articoli che finiscono nelle rassegne stampa del capo del Governo e lo mandano in bestia. Mussolini invia un telegramma furibondo ad Angelo Sraffa in cui qualifica gli articoli del figlio Piero come azione spregevole, atto di puro e semplice disfattismo nei confronti del si¬stema bancario, vero e proprio sabotaggio delle finanze italiane.
L'amicizia con Keynes è omai non solo una profonda traccia intellet-tuale, ma prospetta anche una concreta via d'uscita dal ginepraio italiano. Così nel 1927 Sraffa, grazie a Keynes, ottiene un posto di insegnamento al King's College. Nel frattempo Sraffa è andato in cattedra anche a Cagliari, ma l'aria libera di Cambridge, luogo in cui avevano insegnato, tra i molti, Erasmo da Rotterdam, Bacone e Newton, gli pare assai più salubre.
Keynes intanto gli affidava la cura dell'opera omnia di David Ricardo, la direzione della mitica Marshall Library, la supervisione delle ricerche economiche del King's.
Sraffa era un personaggio geniale ma alquanto bislacco. Un'incredibile timidezza lo tratteneva dal parlare in pubblico, e qualcosa lo frenava anche nello scrivere. La sua opera fondamentale, Produzione di merci a mezzo di merci, poco più di 100 pagine, esce nel 1960, ma la sua elaborazione teorica ri¬sale ad oltre trenta anni prima.
Piero Sraffa era un uomo alto, magro, molto malinco¬nico. Viveva solo in un piccolo appartamento affacciato sul secondo cor¬tile del Trinity College (dove si era trasferito nel '40) e lo si vedeva spesso in bicicletta lungo i viali di quel piccolo, prezioso mondo universitario. Partecipava sobriamente alle manifestazioni o ai festeggiamenti tradizionali dell'università e qu¬alcuno dei suoi studenti si domandava se quell'uomo così pallido ed esangue si ricordasse qualche volta di mangiare. Grato all'Inghilterra dell'ospitalità e della libertà di ricerca, non volle mai rinunciare alla cittadinanza italiana e proprio per questo avrebbe dovuto passare, dopo il 10 giugno 1940, qualche mese confinato nell'isola di Mann come internato civile di guerra. Esperienza utile, commentò, perché almeno "ho potuto ascoltare un po' la radio". Si può dire che Sraffa nutrisse una profonda avversione per i mass media. Guardava appena i titoli dei giornali, esclusa la breve parentesi del confino.
La speculazione scientifica porta negli anni Trenta Piero Sraffa a differenziarsi profondamente da Keynes. La ricerca dell'economista torinese si orienta sui problemi più astratti della teoria del valore, sull'interdipendenza di produzione e distribuzione, sulla ripresa del concetto (fisiocratico, classico e marxiano) di surplus. Approda così a quella teoria della concorrenza monopolistica e del mercato imper¬fetto che sarà più tardi sviluppata da Joan Robinson e E.H. Chamberlin.
Ma se Sraffa era in rotta con Keynes sul piano della scienza econo¬mica, ancora più lontano da lui era sul piano politico.
Keynes, in un discorso alla scuola liberale estiva di Cambridge aveva già detto nel 1925: "La lotta di classe mi troverà sempre dalla parte della borghesia colta" (il discorso è raccolto in Saggi politici pubblicati in Italia nel 1966). Sraffa era dall'altra parte, giurava sulla lotta di classe, era un comunista attivo e lo sarebbe rimasto per tutta la vita.
Un altro geniale personaggio del Club di Cambridge fu l'economista Paul A.M. Samuelson. Tra lui e Sraffa esisteva un rapporto di concorrenza e di amichevole polemica. Si beccavano, con puntiglio, passeggiando tra i fioriti giardini di Cambridge. Una mat¬tina Samuelson disse all'interlocutore: "Sarebbe difficile, caro amico, immaginarti fuori del capitalismo e della proprietà privata. In ter¬mini marxiani, agli studenti che non faticano nei campi né sudano nelle fabbriche, ma invece pensano profondi pensieri e frugano nelle biblioteche, la sussistenza è garantita dal plusvalore. Metaforicamente parlando, sono i profitti che gli amici della nostra università sanno strappare al mercato per offrirli alle nostre ricer¬che quelli che rendono possibili i nostri successi intellettuali".
Un’altra fondamentale amicizia di Sraffa fu quella con Antonio Gramsci.
Nel biennio 1919-1920, cioè fin dall'inizio delle pubblicazioni, Sraffa collabora a Ordine Nuovo dove incontra il leader del PCI e anche Palmiro Togliatti. Nel 1924 proprio su Ordine nuovo ap¬paiono una lettera di Sraffa, non firmata, e un'ampia replica di Gramsci che si rivolge a lui parlando dell'"amico S.". Non c'è piena intesa tra i due in quel momento. Il giovane economista pone for¬temente l'accento sulla priorità da attribuire a una rivoluzione borghese contro il fascismo.
Gramsci sostiene in replica che "in questa lettera sono contenuti tutti gli elementi necessari e suffi¬cienti per liquidare un'organizzazione rivoluzionaria come è e come deve essere il nostro partito". Ma il sodalizio intellettuale si stringe. Paolo Spriano scriverà che Sraffa è stato per un lungo travagliato decennio, tra il 1927 e il 1937, "più che un amico, un fratello di Antonio Gramsci, l'uomo che per la liberazione del capo del PCI re¬cluso si è battuto ogni giorno, con tenacia, intelligenza, cuore; ha cercato di alleviargli la detenzione aiutandolo in tutti i modi, man¬dandogli libri e riviste, andandolo a trovare in carcere a San Vittore, a Turi, a Formia; ha raccolto le sue ultime parole di combattente comunista nel marzo del 1937, alla clinica Quisisana di Roma".
Mentre dell'opera di David Ricardo stava curando la grande edizione, Sraffa veniva anche in Italia, regolarmente tallonato dalla polizia, e faceva pressioni sullo zio materno, il senatore Mariano D'Amelio, primo presidente della Corte di Cassazione perché intervenisse presso il Tribunale Speciale per accelerare la pratica della libertà condizionale per l’amico. Sraffa fu il primo a sapere da Tatiana Schucht, la cognata-corrispondente di Gramsci, come questi avesse sprezzantemente rifiutato l'idea di rivolgere una do¬manda di grazia a Mussolini, il quale invece la esigeva come condi¬zione irrinunciabile per autorizzarne la liberazione.
Un mese prima di morire, Gramsci disse al suo amico e interlocutore che bisognava cercare un'intesa tra opposizioni antifasciste e, a qu¬anto pare, Sraffa fece conoscere questo pensiero anche a Togliatti. Per qualche tempo Piero Sraffa frequentò Carlo Rosselli, ma le divergenze di giudizio sulla situazione politica interna ed internazionale tra loro non erano poche.
Sraffa, a differenza di Rosselli, ammirava l'Unione Sovietica e vedeva in essa, secondo il più puro stereotipo comunista dell'epoca, il baluardo anticapitalista ed il primo laboratorio di un'umanità nuova sorgente dalla lotta di classe su scala mondiale. In Italia serbò poche amicizie, Sergio Steve, Giulio Einaudi, Giorgio Napolitano, Pierangelo Garegnani, Raffaele Mattioli. Negli ultimi anni della sua vita non tornò più nel nostro paese. Nel 1981 fu colpito da trombosi e passò gli ultimi anni della sua esistenza in una clinica che curiosamente si chiamava The Hope, fino al 3 settembre del 1983, quando si spense.
Lo status accademico di Sraffa in Italia rimase fino al1931 quello di un docente cui era consentito di insegnare all'estero. Nel 1931, in coincidenza con la richiesta del giuramento di fedeltà al fascismo, egli inviò una lettera di dimissioni al Rettore della Regia Università di Cagliari. La storia della sua vita e la coincidenza di quelle dimis¬sioni con l'imposizione del giuramento permettono di unire Sraffa alla compagnia di coloro che non giurarono.
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E dopo: le cattedre vuote del ‘38
Non dovevano passare molti anni ed ecco altre espulsioni dalle università. Secondo un documento del 31 ottobre 1950 firmato Vischia per il ministero della Pubblica Istruzione, questi i nomi dei docenti universitari allontanati dal servizio – gli ebrei nel 1938 per le leggi razziali, e altri per ragioni politiche tra il 1931 e il 1939: Graziadei Antonio, Levi Alessandro, Levi Mario Giacomo, Levi Beppo, Del Vecchio Giorgio, Finzi Marcello, Fano Marco, Ascoli Maurizio, Mondolfo Rodolfo, Forti Ugo, Donati Benvenuto, Luzzatto Gino, Ravenna Ettore, Almagià Roberto, Borgese Giuseppe Antonio, Herlitzka Amedeo, Foà Carlo, Salomon Enrico, Bachi Riccardo, De Rossi Gino, Finzi Guido, D'Ancona Paolo, Lattes Leone, Del Vecchio Gustavo, Ottolenghi Samuele, Momigliano Attilio, Lombroso Ugo, Pincherle Maurizio, Finzi Enrico, Terracini Aron Benvenuto, Horn D'Arturo Guido, Cassuto Umberto, Terracini Alessandro.
Salvo quattro o cinque, sono tutti ebrei. Eppure mancano nomi, visto che i docenti universitari ebrei cacciati dalle università italiane nel 1938 erano circa novanta.