"La seconda rivoluzione sionista", di David Braha
foto di Ruben Salvadori
Come un piccolo gruppo di studenti universitari può crescere e diventare la nuova frontiera per l’orizzonte politico in Israele
“Im tirzu ein zo agada”: se lo vorrete non sarà un sogno. Furono queste parole il motore ideologico del sionismo, uno dei grandi movimenti del XIX e XX secolo. Le scrisse Theodor Herzl, il fondatore del sionismo moderno, indicando agli ebrei della sua epoca la via per perseguire un’idea rimasta sogno per quasi duemila anni, e mostrando loro che tale idea era, in verità, tutt’altro che irrealizzabile: la fondazione di uno Stato per il popolo ebraico divenne realtà meno di mezzo secolo dopo la morte di Herzl (avvenuta nel 1906), e la storia di Israele prima e dopo la sua nascita si sviluppò sotto il segno di quello stesso sionismo che aveva inizialmente ridato luce ad un sogno millenario.
Arrivati alla fine del primo decennio del XXI secolo però le generazioni si sono avvicendate, la “vecchia guardia” di coloro che hanno lottato per la nascita dello Stato d’Israele è quasi scomparsa, le loro imprese appaiono ormai lontane. Il Sionismo sembra ormai quasi anacronistico: ha perso il suo impeto iniziale, e gli israeliani di oggi tendono a vivere i propri problemi quotidiani come cittadini di uno stato sotto continuo assedio, e non più come un popolo unito da un’eredità storica e culturale radicata nei millenni. È proprio questo il tipo di tendenza alla quale si oppone un’organizzazione giovanile nata appena due anni fa nei corridoi della Hebrew University of Jerusalem, e che adesso è cresciuta al punto di diventare una presenza solida in tutti i maggiori atenei israeliani. Il nome del movimento è Im Tirzu: la seconda rivoluzione sionista, e si autodefinisce come gruppo extra-parlamentare ed apolitico che predica la necessità di mantenere, e soprattutto far convivere in Israele le caratteristiche di Stato contemporaneamente ebraico e democratico. L’obiettivo dichiarato è quello di ridare lustro alle radici sioniste della società israeliana, in quanto solo una coesione ideologica e popolare al fine di raggiungere obiettivi comuni è in grado di fornire le risposte ai grandi problemi che Israele deve affrontare al giorno d’oggi. I giovani volontari membri di Im Tirzu sono infatti convinti che una delle maggiori minacce a cui Israele deve far fronte è la delegittimazione delle proprie origini e, in certi casi, della propria stessa esistenza: criticare l’esistenza ha come conseguenza quasi naturale una critica a priori di tutte le azioni, le intenzioni e le posizioni prese dallo Stato Ebraico, e proprio questa è la base sulla quale si poggiano le numerose correnti anti-sioniste e post-sioniste presenti in Israele così come nel resto del mondo. I tipi di attività proposti da Im Tirzu sono dei più vari, dalle manifestazioni di supporto all’esercito durante l’Operazione Piombo Fuso a Gaza, a seminari e lezioni tenuti da politici, professori, ed esperti sulla storia e sulla situazione geopolitica contemporanea di Israele, a proteste contro oratori che vengono nelle università a tenere discorsi che esortano alla violenza e al terrorismo: il tutto rigorosamente presentato in maniera apolitica, areligiosa e puramente patriottica.
Ma la domanda sorge spontanea: un movimento del genere è veramente quello di cui Israele, ma soprattutto le sue nuove generazioni, hanno bisogno? In molti direbbero di no: non sono pochi quelli che definiscono Im Tirzu un gruppo troppo conservatore, concentrato a scavare nel passato piuttosto che guardare al futuro; inoltre promuovere il sionismo come base dello Stato d’Israele è visto spesso come un modo per escludervi automaticamente tutte le minoranze etniche, a partire da quella araba. Tuttavia, una riflessione sulla crisi di identità che lo Stato Ebraico sta attraversando nel corso degli ultimi anni sarebbe utile a comprendere i motivi per cui la presenza di un gruppo come Im Tirzu è utile oggi come non mai. In un paese lacerato dalla questione di Gilad Shalit, dove il popolo ha perso quasi tutta la fiducia nella propria classe politica, ormai vista come un club elitario dove gli individui rincorrono solo i propri interessi, e non più quelli dell’intero paese – basti pensare allo scandalo per corruzione di cui fu protagonista l’ex-premier Ehud Olmert, o all’ostinazione con cui Tzipi Livni rifiutò di entrare in un Governo di unità nazionale se non alla condizione di ricoprire la carica di Primo Ministro – quello di cui c’è veramente bisogno, è un elemento condiviso che possa portare coesione tra tutti gli strati del popolo, un’identità comune che ricordi a tutti i motivi ed i valori per i quali Israele combatte e sopravvive di giorno in giorno. Ciò che Im Tirzu afferma, è che il sionismo è proprio quell’idea, in quanto non si tratta di una questione di destra, centro, o sinistra, ma molto più semplicemente di un patrimonio comune in cui tutti si possono rispecchiare: è per questo che nonostante le ripetute chiamate da parte dei maggiori partiti politici (Avoda, Kadima, e Likud in primis), i vertici del movimento hanno sempre rifiutato qualsiasi tipo di collaborazione o associazione.
Quindi un movimento come Im Tirzu è veramente quello di cui Israele ha bisogno al giorno d’oggi? La risposta è sì: è esattamente quello di cui c’è bisogno. A prescindere dall’ideologia di base, dalla promozione del sionismo, dalle motivazioni che spingono i membri a far parte del gruppo, il carattere apolitico di Im Tirzu sta evidentemente a segnalare non un disinteresse totale nella politica, bensì l’esatto contrario: un interesse ed un coinvolgimento in quello di cui la politica dovrebbe veramente interessarsi, vale a dire il bene comune del paese. Che la nascita e la rapida ascesa di questo gruppo possa essere davvero segno dell’inizio di una seconda rivoluzione sionista? È ancora presto per dirlo, ma se l’idea e gli obiettivi sono chiari in testa, Theodor Herzl ci insegna, “Im tirzu ein zo agada” – se lo vorrete non sarà un sogno.