Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 14/01/2010, a pag. 41, l'intervista di Susanna Nirenstein a Saul Friedländer dal titolo " Non esiste la banalità del male ".
Nella sezione "Libri Raccomandati" di Informazione Corretta è presente una scheda dedicata alle opere di Saul Friedländer. Ecco l'intervista:
Saul Friedländer
Nato a Praga pochi mesi prima che Hitler prendesse il potere, nascosto in un convento in Francia fino alla fine della guerra mentre i genitori venivano deportati e uccisi ad Auschwitz, battezzato e, infine, dopo aver capito di essere ebreo, emigrato clandestinamente in Israele nel ‘48, Saul Friedländer è il maestro dei maestri viventi della ricerca sulla Shoah, premio Pulitzer 2008: la sua opera più importante (i due volumi La Germania nazista e gli ebrei.1933-´39 e Gli anni dello sterminio. 1939-´45, ambedue usciti con Garzanti, ma non si può non menzionare il suo stupendo e autobiografico A poco a poco il ricordo) con un metodo del tutto innovativo, ha dipinto un affresco corale che non lascia nel silenzio nessuno dei protagonisti del periodo: non solo la leadership del III Reich e i loro provvedimenti dunque, ma i tedeschi nel loro complesso, governi e popolazioni delle nazioni intorno, le vittime, i loro atti, i loro pensieri riportati dai diari in tutto il continente. Ora, in un piccolo libro edito da Laterza (Aggressore e vittima, pagg.153, euro 15), in una serie di lezioni, tira le fila dei suoi studi e afferma, a dispetto di altri storici, la centralità dello sterminio nella politica nazista, constata la partecipazione attiva alla Shoah dei paesi conquistati dal III Reich (salvo l´Italia, ci tiene a dire), non è d´accordo su alcuni aspetti del lavoro di Hilberg e della Arendt né con chi vede nello sterminio un prodotto estremo della modernità ma invece lo inquadra come il prodotto principale dell´antisemitismo "redentivo", apocalittico, di Hitler e quindi di una ossessione pseudoreligiosa che fa molto pensare, in chi scrive, al fondamentalismo di oggi. Il volume contiene anche la storia di due storici ebrei, uno tedesco, Ernst Kantorowicz, l´altro il notissimo Marc Bloch, fondatore delle Annales, morto nella Resistenza: ambedue increduli della persecuzione a fronte del loro patriottismo, e disposti in un certo senso, in modo molto diverso l´uno dall´altro, a mettere da parte la propria identità: un focus speciale e conturbante.
Telefoniamo a Saul Friedländer, oggi professore all´Ucla di Los Angeles (ma anche all´università di Tel Aviv), e lui ci risponde con mille accenti, slavo, francese, anglosassone, israeliano... una summa della storia del Novecento.
Professore, il principio che lei ha adottato è l´ascolto di tutte le voci. Non si può limitare lo studio alle decisioni naziste e alle cifre della morte, ribadisce in questo libro. Una critica implicita ad altri storici, a chi?
«La storia in genere tende ad addomesticare gli eventi trovando delle spiegazioni logiche per tutto. Io invece volevo una narrazione precisa, erudita, in cui fossero però presenti le vittime che, col loro dolore, illusioni, paure, procurassero dei veri e propri momenti di incredulità, spezzassero l´autocompiacimento del distacco scientifico. Fare una storia "integrata", significa mostrare come ogni aspetto interagisce con l´altro, i tedeschi, gli altri paesi europei, e soprattutto gli ebrei e i loro comportamenti, le parole, che nel passato sono stati analizzati solo a parte. Solo con le testimonianze che arrivano dai diari e interferiscono con gli altri attori si riesce a dipingere il quadro così com´era. E solo così la storia diventa non addomesticabile».
Anche Raul Hilberg con La distruzione degli ebrei d´Europa (1961) ha addomesticato la storia?
«Sì, anche se il suo lavoro è meraviglioso, il primo, il più importante, ma in realtà è la storia della macchina burocratica nazista. Gli ebrei come soggetti ne stanno fuori. Poi ha aggiunto altri studi, ha attaccato i Consigli ebraici, gli Judenrät, ma non scrisse davvero cosa stava succedendo agli ebrei. Il cuore della ricerca rimase la politica nazista. Invece nel racconto devi sentire improvvisamente un bambino polacco di 12 anni che nel suo diario chiede a Dio cosa sta succedendo. Quello smarrimento è parte fondamentale della storia».
Tra le sue conclusioni, c´è quella sulla decisa partecipazione, o al massimo sul silenzio, di tutte le popolazioni laddove ci furono deportazione e sterminio. Come fu possibile?
«In Polonia, l´antisemitismo era profondo; perfino alcuni leader della resistenza antitedesca non furono scontenti che la Germania stesse risolvendo il "problema degli ebrei". In generale l´antisemitismo, che aveva origini religiose, creò indifferenza per la sorte del popolo ebraico».
Gli italiani, lei scrive, sono un enigma.
«Furono un´eccezione. Eppure doveva essere il contrario vista la forte influenza della Chiesa. Invece nel complesso gli italiani, compresi molti alti ufficiali di Mussolini, aiutarono gli ebrei, come ad esempio, ma non solo, nel Sud Est della Francia finché l´Italia ebbe il controllo della regione».
Hitler giocò un ruolo fondamentale, lei dice, non furono i tedeschi a chiedergli lo sterminio. Lei non la pensa come lo storico Goldhagen.
«Hitler non salì al potere per il suo antisemitismo, ma per motivi economici. Però era ossessionato dall´idea che gli ebrei fossero alla base della sconfitta della I Guerra Mondiale e, in quanto liberali e rivoluzionari al tempo stesso, corrodessero dal di dentro il paese, l´intera Europa. Portò avanti con sistematicità prima il progetto di escluderli dalla società, poi di spingerli fuori dal territorio, infine, quando la Russia contrattaccò e gli americani entrarono in guerra (anche Roosevelt secondo Hitler era controllato dagli ebrei) si convinse che se non fossero stati uccisi, avrebbero causato di nuovo la disfatta. L´ho definito antisemitismo redentivo, significa credere che per salvare il mondo devi liberarti degli ebrei. Prima fu il credo di un piccolo gruppo di nazionalisti: una volta al potere i nazisti, divenne la dottrina ufficiale di un paese, amplificata da una propaganda martellante».
Era un´ossessione ideologica, quasi religiosa.
«Esattamente. Se fosse stata solo la macchina burocratica a portare avanti lo sterminio, se Hilberg avesse ragione, allora il meccanismo si sarebbe fermato quando la guerra iniziò ad andare male. Tutto allora divenne difficile, pensi allo sforzo che richiedevano anche solo i trasporti verso i lager. Eppure, al contrario, i tedeschi più perdevano, più andavano veloci nella distruzione degli ebrei. In Ungheria, pochi mesi prima della caduta, lo stesso Hitler spiegò ad Antonescu che doveva liberarsi dei suoi 700 mila ebrei. Ne furono sterminati 400 mila».
Quindi lei non è d´accordo con Hannah Arendt e la sua "banalità del male".
«Il male non era affatto banale, gli uomini forse. Ma che il paese più avanzato del continente abbia concepito di sterminare in modo industriale tutti gli ebrei d´Europa e l´abbia fatto, è quanto di più estremo e inumano si possa immaginare. Gli altri stermini, e tanti ce ne sono stati, non hanno mai visto questa ricerca fino all´ultimo uomo, dietro ogni angolo. Hannah Arendt scrisse delle cose giuste, ma sono quelle che ha preso da Hilberg: il tono invece che ha usato verso gli Judenrät, quell´ironia... non sono affermazioni che vogliono capire, compatire. La sua tesi sugli Judenrät poi, che rendeva gli ebrei collaboratori della distruzione del loro stesso popolo, è largamente infondata, ogni loro influenza fu marginale».
Non è d´accordo nemmeno con gli storici, come Gotz Aly, che giudicano la Shoah un aspetto non primario rispetto agli obiettivi principali del Reich.
«È una scuola di ottimi storici, però considerano le politiche antiebraiche tedesche non secondarie, ma comunque come conseguenze automatiche della colonizzazione a Est e la redistribuzione del potere economico. Io penso che la persecuzione degli ebrei non fu l´unico scopo di Hitler ma certo fu centrale, e con la guerra lo divenne ancora di più. Il suo testamento è chiaro: quello è il tema fondamentale».
Crede anche che la Shoah non sia figlia della modernità, un´opinione invece largamente condivisa.
«Non si sarebbe potuta compiere senza l´industrializzazione della morte, è chiaro. Ma non fu la modernità a portare tanta inumanità. Non ha prodotto niente del genere in nessun paese sviluppato. È una forzatura. Fu invece l´aspetto ossessivo, ideologico, apocalittico a partorire questo abominio».
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