1931 Il professore deve giurare - prima parte
Luciano Tas
La vicenda di un pugno di professori universitari italiani (su 1250) che nel 1931 rifiutano di giurare fedeltà al regime fascista è appena sfiorata nella amplissima bibliografia dedicata al fascismo e a Mussolini in tanti decenni di vita politica e culturale democratica.
Quanti sono stati i professori che non vollero giurare? In genere si afferma che fossero 11 o 12.
Renzo De Felice nel suo "Mussolini il Duce" afferma che il numero è controverso e difficilmente accertabile con precisione perché l'allontanamento dal servizio avvenne con diverse e non sempre esplicite motivazioni.
De Felice ricorda che furono "accettate le di¬missioni" di Piero Sraffa e di Edoardo Ruffini Avondo, che furono "dispensati dal servizio" Ernesto Buonaiuti, Giorgio Levi della Vida, Gaetano De Sanctis, Vito Voltetrra, Mario Carrara, Lionello Venturi, Bartolo Nigrisoli, Fabio Luzzatto. Furono poi "collocati a riposo a do¬manda per avanzata età e anzianità di servizio" A. Rossi, G. Vicentini, F. Atzeri Vacca, Giorgio Errera, Francesco Ruffini. Vennero collocati a riposo (senza domanda da parte degli interessati) "per avanzata età e anzianità di servizio" Antonio De Viti De Marco e Vittorio Emanuele Orlando. Fu infine collocato a riposo "per provati motivi di salute" Piero Martinetti.
Tutti questi provvedimenti fu¬rono presi tra il 20 ottobre 1931 e il 5 febbraio 1932. Quasi tre anni dopo, il 29 ottobre 1934, fu dichiarato dimissionario Giuseppe Antonio Borgese che fino ad allora figurava "a disposi¬zione" in quanto insegnante negli Stati Uniti.
Helmut Goetz, autore della più organica opera su questo argomento (“Il giuramento rifiutato. Docenti universitari e il regime fascista”, La Nuova Italia editrice), scrive che ancora oggi non è chiaro il numero esatto dei profes¬sori non giuranti, però si attiene alla comunicazione fatta il 19 dicembre 1932 dall'allora ministro dell'Educazione Nazionale Balbino Giuliano al Consiglio dei Ministri. In quel documento si afferma che dei 1250 professori ordi¬nari e straordinari delle università e degli istituti superiori di cul¬tura solo dodici "si sono rifiutati di prestare giuramento". Goetz ri¬tiene che non vi sia "motivo di dubitare dell'esattezza della lista compilata dal Ministro che elencava i nomi, gli Atenei di apparte¬nenza e le materie di insegnamento di chi si era rifiutato".
Il ragionamento dello studioso tedesco è valido, ma sembra giusto integrarlo con altre considerazioni. Indubbiamente Giuseppe Antonio Borgese al momento in cui si svolsero i fatti non si trovava a Milano a insegnare estetica, ma le sue idee antitotalitarie erano già note e il suo desiderio di non rientrare in Italia finché il paese fosse stato dominato dal fascismo non certo occultato.
Le stesse di¬missioni di Piero Sraffa, allora giovane economista, amico di Gramsci e successivamente docente di fama mondiale all'università di Cambridge, la città dell'Inghilterra scelta come luogo di esilio, non possono essere spiegate con motivi di burocrazia.
Difficile invece conoscere le motivazioni dei professori Rossi, Vicentini, Atzeri Vacca: e non è possibile perciò far coincidere la loro domanda di collocamento a riposo per anzianità di servizio con la volontà di rifiutare il giuramento di fedeltà al regime fascista.
Per questo si parla in genere dei quattordici (o piuttosto dodici più due) che prefe¬rirono lasciare la loro missione di insegnanti per irrinunciabili ra¬gioni di principio.
Alcuni tra loro appartengono all'aristocrazia della cultura italiana, altri sono meno celebri. Insegnavano materie diverse e in genere non erano legati tra loro da stretti rapporti di amicizia. Talvolta non si conoscevano neppure. Formano però, tutti insieme, un episodio storico omogeneo, analizzato magistralmente dal professor Goetz, da cui sono tratte ampie informazioni. Altrettanto prezioso il libro di Giorgio Israel e Pietro Nastasi “Scienza e razza nell’Italia fascista”.
Prima di Natale
Tutto deve finire prima del Natale 1931. Prima delle vacanze uni-versitarie tutti i docenti devono pronunciare il giuramento di fe¬deltà che i dipendenti statali sono tenuti a prestare allo Stato. Un giuramento che per i docenti aveva già una sua forma particolare e che ora è stata di nuovo modificata.
Non basta più al regime fascista nel suo "anno IX", né basta a Giovanni Gentile, il filosofo che al regime ha prestato la sua ideologia e nel regime vede lo strumento necessario per imporla al paese, la solenne promessa di fedeltà al re e allo Statuto, né l'impegno altrettanto solenne di formare al me¬glio i giovani cittadini che saranno domani i quadri del paese.
Maturata nel corso degli ultimi anni Venti, oggetto di un decreto-legge del 1931, è introdotta nella Gazzetta Ufficiale del Regno la nuova formula, che così è pronta per le labbra se non proprio per il cuore dei docenti universitari italiani.
All'articolo 18 del decreto-legge del 28 agosto 1931, pubblicato l'8 ottobre sulla Gazzetta Ufficiale e tito¬lato "Disposizioni sull'istruzione superiore", si legge: "I professori di ruolo e i pro¬fessori in¬caricati sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula se¬guente: ".
Questo giuramento va a sostituire quello dedicato solo al re e alla patria e che era considerato un puro rituale senza danni. Del resto il giura-mento di fedeltà al re non è tanto vecchio. Nella formulazione in uso risaliva ad appena sette anni prima. L'articolo 31 del regola¬mento ge-nerale delle università emanato il 6 aprile del 1924, suo¬nava così: "Giuro di essere fedele al Re e ai successori del Re, di osservare le-almente lo statuto e le leggi, di osservare i doveri ac¬cademici e di educare dei cittadini ad essere operosi, leali e fedeli alla patria". Una formula che ricalcava quella richiesta ai dipendenti pubblici dopo il 1859, ma che agli occhi del fascismo è troppo vaga, troppo poco impegnativa. Il fascismo non può accontentarsi di un mero rituale: il giuramento deve compro¬mettere chi lo pre¬sta e coinvol¬gerlo in tutte le azioni del regime. Appunto, imponendo un giura¬mento di fedeltà ai docenti universitari, forgiatori di scienza e di¬spensatori di coscienza, il fascismo ne chiede l'anima.
La campagna a favore della fascistizzazione della scuola italiana dall'asilo all'università incomincia si può dire all'indomani dell'incarico conferito da Vittorio Emanuele III a Mussolini. Diventa più tambureggiante dopo la crisi seguita al delitto Matteotti nel 1924 e al definitivo imporsi del fascismo, ed è par¬ticolarmente intensa negli anni 1927-29, quando il regime è suf¬ficientemente consolidato. Da molte parti, per opportunismo se non per convin¬zione, intellet¬tuali e accademici invocano l'epurazione degli antifascisti. Però nemmeno quelli che per essere riusciti prima o dopo a salire sul carro del vincitore si mostrano più zelanti seguaci del nuovo corso pensano di fare aggiungere alla formula del giura¬mento al re la pesante, sostanziale e palesemente assai più impegnativa dichiarazione di obbedienza al partito unico, la fe¬deltà al regime.
Ci pensa il filosofo Giovanni Gentile.
I motivi che spingono Gentile a inventarsi la nuova formula di giu-ramento di fedeltà al regime fascista sono molteplici.
E’ probabile che Gentile, ideologo del totalitarismo, abbia inteso avviare l'Italia verso la completa identificazione tra Stato e regime, incominciando "dalla testa". L'obbedienza non si presta dunque più alle sole leggi dello Stato, votate da un Parlamento che è l'espressione della volontà della maggioranza dei cittadini, ma anche al partito fascista, che però quella maggioranza non rappresenta.
Qualcuno, più sbrigativamente, pensa che il giuramento sia un capi¬tolo della "filosofia del manganello", come viene sarcasticamente, ma anche un po' ingiustamente chiamato il pensiero di Gentile.
Altre ipotesi sociopsicologiche ventilate. Il desiderio da parte di Gentile (e di Mussolini) di omologare l'intellighenzia italiana. Di questo obiettivo il giuramento rappresenterebbe una tappa di av¬vicinamento.
Ma ancora: il giuramento fa parte di un piano politico teso a com-promettere, umiliare e infine asservire gli intellettuali, cui verrebbe così sottratta l'"anima".
Più terra terra, ma non meno attendibile, un'altra ipotesi. L'idea di Gentile d'imporre il giuramento agli intellettuali in catte¬dra è la stizzosa risposta a quegli intellettuali che in risposta al manifesto fascista del 21 aprile 1925 avevano firmato pochi giorni dopo il manifesto di Croce. Come dire: avevate firmato per lui? E ora giurate per me.
E' quindi possibile che l'idea del giuramento si possa anche leggere in chiave polemica proprio nei confronti di un altro filosofo, Benedetto Croce, di cui peraltro l'"anticrociano" per scelta non casu¬ale, Benito Mussolini, ebbe a dire, nel discorso di chiusura del Congresso fascista del 1925: "Vi farò una confessione che vi riem¬pirà l'animo di raccapriccio (…). Non ho letto mai una pagina di Benedetto Croce.... ".
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Croce e Gentile si può dire che nascano filosoficamente insieme, con gli occhi rivolti all'idealismo tedesco, e che abbiano compiuto anche un tratto di strada insieme. Per questo è più forte ora la rivalità tra i due filosofi.
E pensare che Giovanni Gentile si era presentato sulla scena politica come un liberale. Potenza e duttilità delle parole. E persino quando Gentile aderisce al partito fascista nel 1923, un anno dopo essere stato chiamato da Mussolini nel suo primo governo al ministero della Pubblica Istruzione, lo fa da liberale. Scrive infatti al presi¬dente del Consiglio, comunicandogli la sua "formale adesione al Partito Fascista", che con quella adesione ha creduto di "compiere un atto doveroso di sincerità e di onestà". Ma ecco ora la singolare professione di fede liberale: "In questi mesi da che ho l'onore di collaborare alla Sua opera di Governo e di assistere così da vicino allo sviluppo dei principii che informano la Sua politica, mi son do¬vuto persuadere che il liberalismo, com'io l'intendo e come lo inten¬devano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno aperta¬mente contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei. E perciò mi son pure persuaso che fra i liberali d'oggi e i fascisti che conoscono il pen¬siero del Suo fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve schierarsi al fianco di Lei".
Questa visione di Gentile del liberalismo è curiosamente simile, an¬che nei modi di esprimerla, a quella di Stalin. Anche il dittatore ge¬orgiano dirà di avere raccolto lui le bandiere del liberalismo lasciate cadere nel fango dai "falsi" liberali. Sembra proprio che siano coloro che sopprimono, o sostengono chi sopprime, ogni libertà a dichia¬rarsi gli unici liberali autentici, gli unici liberali davvero a denomi¬nazione di origine controllata.
La "rivelazione" di Mussolini di non avere mai letto una pagina di Benedetto Croce è però solo una battuta, anche se è probabilmente vero che il Duce, la cui cultura rimase sempre quella abborracciata di un approssimativo autodidatta, non masticasse molto di filosofia, né quella di Croce, né quella di Gentile. E neppure di Nietzsche, da lui millantata.
Il fatto però è che Croce era diventato ben presto, dopo un breve periodo di sospensione del giudizio, un oppositore del nuovo regime liberticida, mentre Gentile lo aveva, come si vede, entusiastica¬mente avallato. E siccome Mussolini voleva dare dignità ideologica al fascismo, pensò di incaricare Gentile di rivestire il nudo partito fascista di panni buoni, o almeno presentabili, cuciti con le dottrine hege¬liane dello Stato.
E' così che Mussolini accetta tutto quello che gli passa il convento gentiliano, il succo del cui pensiero è "Tutto per lo Stato, nulla contro lo Stato, nulla fuori dallo Stato". Appunto il famigerato “Stato etico”.
E' stato detto che la dottrina gentiliana dello Stato, diventata la dottrina ufficiale del fascismo (che come si è detto doveva darsene una) è una caricatura del pensiero di Hegel. Croce anzi dubitava dell'hegelismo di Gentile e rilevava molto presto, prima ancora dell'ascesa di Mussolini al potere, che la metafisica di Gentile era inquinata da elementi irrazionalistici a loro volta male recepiti da Nietzsche.
Come che sia, Mussolini, una volta consolidatosi al potere, con uno dei suoi famosi scatti d'umore ordina a Gentile di preparargli una "dottrina del fascismo". E' il 1929 e al filosofo di Castelvetrano ven¬gono dati due mesi di tempo.
Gentile non può che ricopiare Hegel e la sua filosofia dello Stato. Secondo autorevoli storici e filosofi il fascismo aveva trovato in Hegel e nella parte più debole del suo pensiero la sua stella cometa, molto di più di quanto non ebbe poi a fare il nazionalsocialismo di Adolf Hitler, malgrado ogni apparenza contraria.
Assai precedente alla sistemazione ideologico-filosofica del fascismo è il Manifesto degli intellettuali del fascismo del 1925, reso pubblico il 21 aprile, Natale di Roma, che cerca le coordinate generali del pensiero fascista. E il completamento per così dire naturale dell'intero sistema - politico, culturale, ideologico - è l'imposizione del giuramento di fedeltà al sistema stesso, a incominciare con par¬ticolare solennità dall'apice del sapere, l'Università, ma senza ov¬viamente trascurare tutta la scuola italiana, a partire dall'asilo, da quelli che diventeranno presto i "Figli della Lupa".
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Nel giuramento imposto ai docenti universitari si parla di non svol¬gere (al presente e come solenne promessa per il futuro) alcuna at¬tività che "non si concili coi do¬veri del mio ufficio". E siccome tra i doveri dell'ufficio c'è quello di formare cittadini de¬voti al regime fa¬scista, è palese che il solenne impegno del docente è d'impedire la formazione di qualsiasi altra forma di pensiero politico nelle menti dei suoi studenti, quale che sia la materia del suo insegnamento.
Gli studenti universitari non potranno avere una marcia diversa da quella del resto del paese, dove l'appartenenza a un partito che non sia quello fascista o ad una associazione non fascista è già un reato. Chi vi aderisce si colloca automaticamente tra i fuorilegge, tra i criminali.
D'altronde associazioni non fasciste ormai non ce ne sono più, per¬sino gli inge¬gneri hanno un sindacato fascista e chissà come sarà il cal¬colo fascista del cemento. I partiti poi, tutti i partiti, meno ap¬punto il PNF, Partito Nazionale Fascista, sono già stati sciolti e quindi conside¬rati illegali da ormai parecchi anni. Perciò non si capisce bene l'urgente necessità politica di costringere quanti istituzional¬mente si dedicano a "formare cittadini operosi" a giurare fedeltà al fa¬scismo. Ecco perché il giuramento è qualcosa di diverso e di più profondo. Il suo obiettivo va oltre la semplice adesione di chi è obbligato a pronunciarlo al vago credo mussoliniano che oltre ai suoi orpelli dannunziani e cesarei non ha molto da proporre.
E' lunga per Giovanni Gentile la marcia di avvicinamento al giura¬mento da imporre ai professori universitari, ma la sua azione è perfettamente coerente al suo pensiero, che è poi quello che Benito Mussolini esprime (probabilmente proprio dietro suggerimento o dettatura di Gentile che sembra esserne il ghost-writer) il 22 no¬vembre del 1925 al "Congresso degli Istituti Fascisti di Cultura": "Nel con¬cetto fascista la cul¬tura non è un semplice orna¬mento dell'intelligenza, ma uno strumento nella lotta per la vita e un'arma del Regime e per il Regime".
Ma se per Mussolini quello strumento e quell'arma servono per formare un regime in cemento armato, per Gentile si tratta di uno strumento e di un'arma meno contingenti, atti cioè a tradurre in pratica e per i tempi a venire la sua idea di Stato egemone, espres¬sione della "volontà generale" e del genio nazionale.
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Il primo, o uno dei primi, a contrastare il “lungimirante” disegno di Gentile, era stato un docente di diritto commerciale all'università di Napoli, Alberto Marghieri, il quale ebbe a dichiarare apertamente già nel 1925 il suo dissenso, intanto verso ogni forma di giura¬mento (anche se la promessa di fedeltà al re non disturbava di fatto nes¬suno) e poi in particolare verso formule politiche attuali da in¬serire espressamente negli statuti universitari.
Marghieri doveva trovare poi nel senatore Giuseppe Santarelli, do¬cente d'Igiene all'università di Roma, una voce concorde. Nessun giuramento speciale doveva essere imposto ai professori, ebbe a dire Santarelli in Senato, perché ogni giuramento che non fosse ge¬nerico andava a mi-nacciare la libertà d'insegnamento garantita dalla legge. Nemmeno tanto tra le righe risultava chiaro dal suo intervento che poco gli andava anche il giuramento di fe¬deltà al re, giudicato come mi¬nimo ridicolo in quanto a nessuno sarebbe mai venuto in mente di sovvertire le istituzioni o rovesciare la monar¬chia. Ed appariva chiaro che anche a Santarelli poco piaceva qual¬siasi tipo di giuramento, generico o meno,
Fuori dal Parlamento era stato il giurista e pedagogo Alfredo Poggi ad affermare che lo Stato non ha bisogno di alcun giuramento per¬ché, ebbe a dire, già esistono precisi articoli di legge atti a punire eventuali reati. E il tradimento della patria (o del re che la incar¬nava) o la slealtà verso il paese in ogni forma sono appunto dei reati contemplati dai codici.
In genere però non vi sono reazioni vistose alla progressiva con¬quista delle università. Così Gentile, un passo alla volta, raggiun¬gerà il suo obbiettivo.
Nel 1927 effettua una prima correzione alla formula del giura¬mento. Di che si tratta? Al di là del "Giuro di essere fedele al Re e ai successori del Re" e così via, viene aggiunta una postilla apparente¬mente abbastanza innocua e anodina. Chi è chiamato a giurare si limita ad aggiungere la solenne assicurazione di non far parte né di avere intenzione di fare parte in futuro di as¬socia¬zioni o partiti le cui attività non siano in accordo con i suoi doveri professionali.
L'aggiunta potrebbe ancora essere considerata accet¬tabile o quanto meno abbastanza logica. Anche se superflua e ovvia, non si pone in rotta di collisione con la dignità di chi giura. Sembra corretto ai più chiedere che per esempio chi si occupa di trasfusioni di sangue giuri o comunque garantisca di non fare parte dell'associazione amici dei vampiri o chi insegna giurisprudenza non operi in proprio o in so¬cietà nel ramo rapine.
Ma la postilla è un altro piccolo passo e Gentile lo sa bene.
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Dei docenti universitari che rifiutano di piegare la schiena di fronte al regime qualcuno rifiuta esplicitamente di giurare, qualche altro si defila in punta di piedi, so¬prattutto con la richiesta di collocamento a riposo per raggiunti limiti d'età. Altri ancora "mancano" il giuramento per¬ché in malattia o in permesso, e al loro ritorno la formalità non gli verrà più richiesta, probabilmente per mera disfunzione burocra¬tica. In tutto però una ventina di docenti.
Gli altri giurano. Il fascismo po¬trà affermare che il 99% dei professori universitari ha giurato fe¬deltà al regime.
Sia chiaro: non tutti quelli che alla fine del 1931 giurano sono fa¬scisti. Le motivazioni della loro accettazione sono molte¬plici e non eguali per tutti, anche se nella maggioranza dei casi si tratta della ricerca del quieto vivere. Tra quelli che giurano in molti c'è una ri¬serva mentale, spesso di comodo, qualche volta au¬tentica. E salvo per una minoranza di docenti universitari davvero fascisti per cal¬colo, non c'è gioia nel vedere estromesse dall'università personalità di grande rilievo intellettuale e morale. Non c'è la gioia di vedere la¬sciare libere delle cattedre come av¬verrà invece nell'autunno del 1938 quando ad essere estromessi dall'università saranno i docenti ebrei.
"Non che tutti i giuranti (cioè quelli che giurarono) fossero o fossero divenuti di convinzione fascista - scriverà nella sua Luigi Salvatorelli - e neppure che tutti giurassero per semplice tornaconto o comodità. Vi erano, probabil¬mente, quelli che, considerata la natura della materia insegnata, conclusero che per essi il giuramento fascista era vuoto di conte¬nuto. Vi furono quelli attaccati all'insegnamento, come attività per¬sonale e come missione. Dio solo giudica i cuori".
L'indulgenza di Salvatorelli (su quella di Dio bisogna crederci sulla parola) non tiene conto di due elementi. Il primo è che se i "giuranti", come li chiama l'illustre storico, scelgono il silenzio di fronte all'allontanamento dei loro sia pur pochi colleghi, non al¬trettanto fanno gli studenti che improvvisano vere e proprie mani¬festazioni di solidarietà con i professori esonerati, correndo dav¬vero quei ri¬schi che molti anni dopo, in clima di democrazia, non correranno i vari protestatari con le loro manifestazioni contro i diversi governi.
Il secondo elemento che suscita qualche perplessità sull'indulgenza di Salvatorelli è che i docenti hanno grandi responsabilità di ordine morale nei confronti dei loro discenti. A prescindere dall'ordine di studi, quale effetto può avere su un giovane l'esempio che gli viene offerto da colui che deve rappresentare un modello? Il giuramento, o il rifiuto di giurare, di un maestro, quale dovrebbe essere il do¬cente, non può restare senza conseguenze su coscienze ancora in formazione.
Ma anche per i dodici o tredici che rifiutano il giuramento le moti-vazioni del gesto non sono eguali per tutti, né il comporta¬mento di tutti loro negli anni a seguire sarà sempre coerente con questo raro atto di coraggio.
Ma chi sono questi professori che rifiutano di giurare?
Si tratta di (in ordine alfabetico):
Ernesto Buonaiuti, Storia del cristianesimo, Università di Roma;
Mario Carrara, Antropologia criminale, Università di Torino;
Gaetano De Sanctis, Storia antica, Università di Roma;
Giorgio Errera, Chimica, Università di Pavia;
Giorgio Levi della Vida, Lingue semitiche, Università di Roma;
Fabio Luzzatto, Filosofia del Diritto, Scuola Sup.re Agric.ra, Milano;
Piero Martinetti, Filosofia, Università di Milano;
Bartolo Nigrisoli, Clinica chirurgica, Università di Bologna;
Francesco Ruffini, Diritto Ecclesiastico, Università di Torino;
Edoardo Ruffini Avondo, Storia del diritto, Università di Perugia;
Lionello Venturi, Storia dell'arte, Università di Torino;
Vito Volterra, Fisica matematica, Università di Roma.
A questi dodici nomi aggiungiamo, come già detto, quello di Giuseppe Antonio Borgese, docente di Estetica alla Statale di Milano, che alla fine del 1931 è assente dall'Italia, ma il cui ri¬fiuto di giurare è implicito e gli costerà l'allontanamento ufficiale dalla catte¬dra; e quello di Piero Sraffa, docente di Economia politica a Perugia e poi a Cagliari.
Tra quelli che si defileranno chiedendo il collocamento a riposo vi è l'ex presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, docente di Diritto costituzionale a Roma e Antonio De Viti de Marco, Scienza delle finanze, sempre a Roma. Altri, come Mario Rotondi, Diritto commerciale a Pavia, chiedono e ottengono il tra¬sferimento all'Università Cattolica di Milano, dove peraltro il giu¬ramento verrà richiesto più tardi. Infine Guido De Ruggiero, Storia della filosofia a Roma e Giuseppe Delogu, Storia dell'Arte, sono tra i pochi che rie-scono a non giurare, in qualche modo defilandosi senza dichiarare la loro inten¬zione e continuando per qualche tempo tranquillamente ad occupare le loro cattedre.
Dei 14 dissidenti accertati sei sono ebrei: Carrara, Errera, Levi della Vida, Luzzatto, Volterra e Sraffa. Una percentuale troppo alta rispetto alle proporzioni numeriche della comunità ebraica italiana per non far aumentare i sospetti sugli ebrei di Mussolini, che da qui probabilmente incomincia a covare propositi di vendetta, malgrado (e forse a causa di) la sua amante e Ninfa Egeria Margherita Sarfatti.
Se mi occupo qui solo dei sei “ribelli” ebrei non significa che ignori tutti gli altri, ma tra queste vittime del fascismo solo agli ebrei toccò di essere anni dopo condannati a morte, e forse la prima riga di quella sentenza fu proprio l’espulsione dalle università. Altre righe verranno scritte nel 1938, quando tutti i docenti ebrei – erano novanta, - subirono la stessa sorte, che avessero giurato o meno. Le ultime righe furono scritte da mano tedesca, ma a porgergli la penna era stato il governo fascista.
Ma prima di occuparci di questi sei “ribelli”, diamo un sguardo all’Italia degli anni Trenta.
L’Italia degli anni Trenta
Il regime fascista possiede ora tutti gli strumenti del potere assoluto.
L'Italia di questi anni è un paese fortemente controllato e spiato. Esistono, nelle catalogazioni dell'Archivio di Stato, circa trecentomila fascicoli intestati ad altrettante persone. Tutta la nazione è sotto una grande e continua lente, attentissima a indugiare anche sulle "voci", sulle barzellette, sugli insulti dedicati al regime e al “duce”.
Mussolini ha tutto quello che gli serve per controllare l'opinione del paese. Ha la sua giustizia, il Tribunale speciale contro i dissidenti, il suo esercito speciale, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, controlla i giornali e il più potente mezzo di comunicazione dell'epoca, la radio (EIAR, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), e ha instaurato al posto del Parlamento - dopo avere dichiarato decaduti i deputati dell'opposizione - la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Mussolini tiene sotto controllo il paese attraverso un apparato po¬li-ziesco, l'OVRA (una sigla che non vuol dire nulla, ma che alle orec¬chie del duce suona sufficientemente intimidatoria), che arruola quasi un migliaio di agenti e sovvenziona alcune migliaia di informatori.
A capo dell'OVRA è installato l'ambiguo Arturo Bocchini, un abile poliziotto e strutturalmente lontano, bon vivant com'è, dai sinistri modelli offerti da altre dittature. L'OVRA, speculando su alcuni di¬fetti caratteriali di un paese non aduso al costume de¬mocratico, cerca di ottenere il massimo della vigilanza sul popolo italiano senza esagerare in violenza. Bocchini non è Ezov o Himmler, non pretende di pur¬gare il paese e convertirlo, ma semplicemente di sapere, ogni giorno, lo stato dell'ordine pubblico italiano, visto dall'angolo della dittatura.
Povertà e disoccupazione preoccupano il cavalier Bocchini, nel senso che non devono turbare l'immagine di un regime solido e applaudito. L'Italia è ancora paleocapitalistica, le imprese aprono e chiudono a seconda delle opportunità di lavoro stagionali. Non c'è alcuno "statuto dei lavoratori", né cassa integrazione.
Nel quartiere romano Appio-Metronio, scrive alla Questura un fun-zionario del locale commissariato di PS, si contano quasi diecimila disoccupati che "ricavano i mezzi di sostentamento contraendo de¬biti, svendendo le loro poche masserizie, nonché ricorrendo a qual¬che sussidio della pubblica beneficenza".
E se i poveri e i disoccupati non hanno la possibilità di manifestare, hanno però quella di mendicare, magari nei luoghi turistici più ri¬nomati di Roma. Per esempio Via Veneto. Il cavalier Ripandelli, solerte funzionario della Regia Questura, am¬monisce in un preoccupato rapporto: "Trattandosi di località molto frequentate da giornalisti stranieri, ritengo opportuno segnalare la cosa da me personalmente constatata".
Un'altra ossessione è il controllo delle manifestazioni celebrative cui pure il regime indulge come occasione di coreografia e di rafforza¬mento della popolarità di Mussolini (in URSS molti anni dopo si sarebbe chiamato "culto della perso¬nalità").
L'ideale del poliziotto è che non si formino gruppi di più di tre persone. Ma come far convivere il sistema del sospetto con lo spirito di "bagno oceanico di folla" caro al Duce?
Le misure preventive di polizia diventano altamente acrobatiche. Nelle città dove si reca Mussolini la polizia compie una sorta di disinfestazione preventiva: i sospetti, gli inaffidabili politicamente o semplicemente quelli che mostrano comportamenti strani, vengono arrestati due o tre giorni prima della visita e rila¬sciati il giorno dopo il ritorno a Roma del Duce.
La polizia politica scrive e segnala tutto, anche quello che dovrebbe essere considerato evento fascista, come quello che si tiene al Gran Hotel di Roma per festeggiare Italo Balbo e i suoi futuri trasvolatori. Il rapporto di polizia informa che "il pranzo ufficiale è terminato alle 22; la serata (?) alle 4.15".
L'OVRA lavora a stretto contatto con il Tribunale speciale, e questo fa la sua parte. Il suo curriculum reca infatti giudizi per 4596 imputati, cui vengono irrogati quasi 28mila anni di carcere, mentre le condanne a morte, in maggioranza eseguite, sono 42.
L'iscrizione al Fascio è obbligatoria per tutti gli impieghi pubblici e sostanzialmente indispensabile ("la tessera del pane", si dice) anche per una serie di impieghi privati. Per molti lavoratori manuali è richiesta la tes¬sera del partito, per esempio i camerieri.
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La dittatura insomma c'è, ma è basata se non proprio o non sempre sul consenso, almeno sull'apatia del "tengo famiglia", sul "non dissenso". Il re¬gime del resto è attivo e incontrastato modellatore di comportamenti, attraverso la stampa (controllata), la radio (controllata), il cinema concepito come industria propagatrice di tradizioni e virtù "italiane", soprattutto di messaggi mirati, diretti o indiretti.
Mussolini non ha peraltro familiarità con le nuove, incipienti tecnologie. E dunque crede soprattutto alle pubbli¬che manifestazioni di massa, ai raduni "oceanici", alle parole d'ordine passate magari attraverso qualche compiacente fiancheg¬giatore ("Sorge il sole, canta il gallo - Mussolini monta a cavallo", pa¬role di Curzio Malaparte, trent'anni dopo cantore della Cina comu¬nista di Mao).
Peraltro l'Italia fascista è ben lontana dalle società dei “grandi”, è un piccolo paese di cui il duce incoraggia con l'esempio personale e con gli strumenti di propaganda il profondo provincialismo. I modelli cui s’ispira sono sostanzial¬mente tre: l'italianità, il ruralismo, la virilità.
Il primo di questi schemi-modello è affermato non solo attraverso un nazionalismo retorico di derivazione dannunziana, ma anche con una presunta difesa della lingua italiana dalle mode linguistiche internazionali, soprattutto francesi e anglosassoni. Benito Mussolini è un modesto poliglotta, parla discretamente il francese, imparato nei suoi giovanili soggiorni di esiliato in Svizzera, ignora l'inglese, se la cava malamente nel tedesco che ostenta invece di conoscere perfettamente con Hitler, che lo sovrasta in eloquenza torrentizia.
Poi Mussolini s’inventa la “italianizzazione”delle parole straniere, con effetti involontariamente comici. Il bar si chiamerà “quisibeve”, il comico Rascel diventa Rascelle, la soubrette Wanda Osiris diventa Vanda Osiri, il Milan diventa Milano, il Genoa Genova.
Il ruralismo (i contadini sembrano nobilitati chiamandoli "rurali") apre le porte all'autarchia e alla battaglia per l'incremento della natalità degli italiani, il cui numero e non la forza economica del paese per il fascismo sarebbe vera rappresentazione di "potenza".
La virilità, o meglio il maschilismo del regime si esprime in tre sottocategorie: il "machismo" postribolare, l'incremento della figlio-lanza e l'incoraggiamento delle attività sportive come affermazione di un fascismo grintoso e lottatore. Fatale corollario, l'antifemminismo. Anche il “lei” è poco virile, il “voi” diventa obbligatorio.
Il duce non proclamava soltanto che "il numero è potenza", ma ag-giungeva: "Il coefficiente di natalità non è soltanto l'indice della progrediente potenza della Patria, è anche quello che distinguerà dagli altri popoli europei il popolo fascista, in quanto indicherà la sua vitalità e la sua volontà di tramandare questa vitalità nei se¬coli".
La politica sportiva del fascismo è invece, come quella hitleriana e quella sovietica, una cosa seria. Prima dell'avvento del fasci¬smo, lo sport era un affare individuale e amatoriale.
Gli anni Trenta vedono un'esplosione italiana in molte competizioni sportive. La nazionale di calcio vince due titoli mondiali e un titolo olimpionico. Alfredo Binda e Learco Guerra guadagnano quattro ti¬toli mondiali nel ciclismo. Un piccolo podista lombardo, Luigi Beccali, sconfigge i mezzofondisti americani nei 1500 piani alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932. La scherma e l'equitazione, legate peraltro ad una antica tradizione, dominano in Europa. Molti pugili si fanno onore facendo incetta di titoli europei e nel 1933 un friulano gigan¬tesco, Primo Carnera, vincerà il campionato mondiale dei pesi mas¬simi.
La Gioventù Italiana del Littorio, nuovo nome dell'Opera Nazionale Balilla, organizza i Littoriali dello Sport. Il mitico calciatore dell'Inter Peppino Meazza firma autografi come fanno oggi altri miti, altri divi. Michele Palermo, un pugile detto "o malomm", milite e fascista, stende su un ring di Filadelfia non l'avversario ma un arbitro che gli si è rivolto con l'espressione "You stupid Italian".
In una società molto maschilista, qual è il ruolo delle donne? Quello di angeli del focolare e di procreatrici di nuovi figli della lupa. Le mode straniere vengono respinte decisamente perché la donna ita¬liana è seria e virginale, non porta i pantaloni, anche perché le sono proibiti, se va al mare si copre con lunghi costumi e "si serba intatta" per l'uomo che la sposerà, evitando di fornire anticipi con la "prova d'amore".
Anche nella ginnastica femminile gli esercizi sono limitati a prove col cerchio o a brevi evoluzioni a corpo libero. Ai fascisti non piac¬ciono le donne lavoratrici e tanto meno quelle che studiano e pre¬tendono di esercitare una professione. Possono invece utilmente fare le commesse e le maestre elementari. E Margherita Sarfatti, amante ebrea in carica di Mussolini per almeno vent'anni, dal 1911 al 1931, deve limitarsi ad essere la Ninfa Egeria del duce, la sua con¬sigliera e la sua copywriter, anche per gli articoli richiesti dalla stampa ameri¬cana. La Sarfatti si muove nell'ombra, ma la sua influenza su Mussolini è grande, almeno fino ai primi anni Trenta. Non può uscire allo scoperto e in prima persona, ep¬pure ha intelli¬genza, carisma, cultura e sensibilità artistica, tanto da decretare lei, e lei sola, il successo per artisti, segnatamente pittori, che di fascista hanno solo una vaga dichiarazione d'intenti. Ma la Sarfatti è donna. La strada maestra della politica le è preclusa, an¬che ai piedi del dittatore-amante.
Già nel 1924 sul "Popolo d'Italia" ci si rallegrava, a firma di Giuseppe Pochettino, con il ministro Giovanni Gentile per avere dato vita ad una "scuola d'un sano femminismo (.) che veramente pre¬para la donna quale la natura e la ragione la vogliono, la donna cioè che, entrando domani nella società, vi prenderà il suo posto d'onore senza urti, senza rancori perché prenderà il posto di regina della casa, quello che veramente le compete...". E ad avviare la donna al suo posto di regina, magari solo della cucina, è il Liceo femminile istituito il 6 maggio del 1923 con la "Riforma Gentile" della scuola, liceo che "ha per fine di impartire un complemento di cultura gene¬rale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale". Come dire alle ragazze ricche e un po' cretine quale deve essere la "vera" donna italiana, futura regina della casa.
E mentre l'aborto è proibito con pene severe e viene vietata la di-vulgazione dei mezzi antifecondativi e protettivi come i preserva¬tivi, il 9 novembre del 1926 le donne vengono escluse dall'insegnamento di Italiano, Lettere classiche, Storia e Filosofia nei licei classico e scientifico e nelle classi superiori degli Istituti tecnici.
Poi vengono dimezzati per decreto i salari femminili. Gentile infine esclude del tutto le donne dall'accesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, prima con un apposito decreto, poi inserendo la clausola di-scriminatoria nel nuovo statuto della Scuola. Il motivo è, come verrà detto all'apertura dell'anno scolastico 1932-33, che "nell'Italia fasci¬sta (.) che vuole più saldi caratteri, volontà più virili e spiriti più pensosi dell'interesse pubblico che privato (.) occorrono educatori in cui la forza prevalga sulla dolcezza e risoluti a presentare così la scienza come la vita governata da una legge che non si piega ai mezzi termini cari alla pietà dei cuori teneri....".
E per chiarire il concetto, "Critica fascista" scriverà che "resta pro¬vato essere il femminismo nient'altro che del chiaro e preciso anti¬fascismo". La donna, dirà nel 1934 Gentile che molto apertamente fa sua l'identificazione del femminismo con l'antifascismo, "è del ma¬rito ed è quel che è in quanto è di lui".
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L'Italia degli anni Trenta è un paese povero, la cucina fascista è fru¬gale. Il pane, la pasta e il riso sono la base dell'alimentazione. Non sono anni in cui si parla di diete dimagranti. Le statistiche dell'epoca affermano che di carne se ne consumano all'anno nove chilogrammi, contro i quasi ottanta di oggi. Si mangiano pane e po¬modoro, pane e verdura, pane e mortadella. E ceci, e fagioli. Insomma, le "proteine dei poveri". I dolci si fanno e si mettono in tavola nei giorni di festa, ossia Natale, Pasqua, il giorno del Patrono del paese. Ovviamente in campagna polli e conigli non mancano, ma in città il pollo si mangia solo la domenica, e nemmeno tutte le do¬meniche.
Le ristrettezze economiche di una popolazione che conosce un alto tasso di disoccupazione non toccano i ceti privilegiati. Ma alle massaie - un appellativo che non nasconde un certo disprezzo anche nell'elogio che se ne fa per dovere di regime - che costitui¬scono il grosso della popolazione femminile italiana, viene dato qualche suggerimento che non ne incrina la virtù ma aggiunge un tocco di femminilità perché, scrive un giornale femminile, "un marito vede a teatro, alle serate, per via, le belle signore eleganti e profumate, e pensa alla sua massaia impolverata e arcigna", quindi "bando il mattino alla malinconica negletta uniforme: una cuffietta di mussola lavabile, semplice ma non priva di grazia, vi ripari i ca¬pelli dalla polvere; un grembiulone chiaro, spessissimo di bucato, vi avvolga tutte; un paio di pantofole, non di ciabatte, vi calzi decen¬temente". Non sembra altrettanto erotizzante il consiglio di am¬mannire ai mariti "gambi di ciliegia che come i semi di zucca sono diuretici".
Non si può dire che gli italiani in questi anni siano dediti all'orgia continua, però ballano. La radio afferma un genere nuovo di canto, quello leggero. E' osteggiata dal regime la produzione jazzistica e si pro-muovono invece le canzoni cosiddette all'italiana, appese fra la tra-dizione popolare e il melodramma lirico.
Nell'ombra, i pochi antifascisti cercano nella stampa estera, nella letteratura americana e francese, nell'esperienza relativamente li¬bera del cinema e del rotocalco giornalistico, le basi di un’alterna¬tiva di cultura e di costume.
Già nei primissimi anni Trenta la propaganda littoria e la cultura di strapaese danno vita a qualche episodio di esterofobia, specie nei campi dell'arte e dello spettacolo. "Fanny" di Marcel Pagnol, messo in scena al teatro Argentina di Roma dalla compagnia Lepri - Borboni, è sommerso di fischi e urlacci: "Vogliamo lavori italiani!". All'Adriano, sempre di Roma, Maurice Chevalier passa i guai suoi e deve sloggiare dopo pochissimi giorni.
Stranamente è il cinema italiano degli anni Trenta a costituire dav¬vero una sorta di oasi relativamente libera, anche se a garante di questa relativa libertà è il figlio stesso di Mussolini, Vittorio, che raccoglie intorno a sé una piccola ambigua corte di "oppositori di Sua Maestà", dove per "Maestà" s'intende Benito Mussolini.
Non ha grandi cose da offrire il cinema italiano detto dei "telefoni bianchi" per le sue insulse commediole che malamente imitano quelle americane.
Quando René Clair dà l'ultimo giro di manovella al suo "A nous la li-berté" e Fritz Lang a "M", da noi Gioacchino Forzano tenta un timido risibile film propagandistico, "Camicia nera". Anni dopo allo straor-dinario "La grande illusione" di Renoir risponderemo con il grottesco "Scipione l'Africano". Ma un critico cinematografico del tempo scri¬verà del capolavoro di Renoir che si tratta di un "figlio di quel pacifismo comunistoide e patriottardo che caratterizza un certo intellettuali¬smo francese falso e retorico perché mancante di ogni sincerità".
Non stupisce questa prosa di un giornalista, visto che un altro gior-nalista di spicco dell'epoca, Amicucci, dopo l'insediamento della "Commissione superiore per la stampa" insediata nel 1929 dal mi¬nistro della Giustizia Rocco, scriverà che " sotto la guida del Duce abbiamo compiuto anche noi giornalisti una rivoluzione. Abbiamo abbattuto i falsi idoli della libertà di stampa".
Va meglio con le lettere.
Negli anni Trenta abbiamo straordinari poeti, tra i maggiori che l'Italia abbia mai avuto: Ungaretti, Quasimodo, Montale, Saba. E' vero che Ungaretti rende formalmente omaggio al fascismo, mentre Montale è in odore di opposizione, ma sarebbe difficile per tutti loro parlare di poesia "politica", fascista o meno.
Nelle lettere abbiamo romanzieri di tutto rispetto, da Bacchelli a Bontempelli, da Palazzeschi a Gadda, da Alvaro a Silone a Comisso. E un grande drammaturgo, Pirandello. Anche lui non resiste al ri¬chiamo della sirena fascista, ma chi può dire che le sue opere siano in qualche modo fasciste?
C'è un altro fenomeno culturale che specificatamente caratterizza l'Italia fascista a partire dagli anni Trenta. Anzi, per la precisione dal 1934 quando hanno luogo i primi Littoriali.
I Littoriali sono specie di Olimpiadi nazionali della cultura, riservati agli universitari, ovviamente del GUF (Gioventù Universitaria Fascista), che si misureranno dal 1934 fino al 1940 con studi, saggi, monografie e opere varie, in concorsi riguardanti Arte, Cinema, Teatro, Musica, Letteratura, Pittura, Poesia, Narrativa, ma anche Politica e in primo luogo "Dottrina fascista". Poi, dopo il 1938, anche "Razzismo".