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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.01.2010 Antisemitismo in Usa negli anni '40
Un sondaggio della Columbia University fra gli operai americani dell'epoca mai reso noto

Testata: Corriere della Sera
Data: 13 gennaio 2010
Pagina: 45
Autore: Dino Messina
Titolo: «Antisemitismo made in Usa»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/01/2010, a pag. 45, l'articolo di Dino Messina dal titolo " Antisemitismo made in Usa ".

«Quel che è successo in Germania è terribile, ma a Hollywood ce n’è una dozzina che mi piacerebbe veder liquidati». «Al giorno d’oggi l’ebreo è assai più di un individuo repellente, è un mercante di guerra». «Milioni di ragazzi americani devono combattere in questa guerra degli ebrei e, mentre loro combattono emuoiono, l’ebreo evita la leva, si imbosca, gestisce il mercato nero».

Quando Max Horkheimer, il fondatore della scuola di Francoforte trasferitosi a New York nel 1934 per fuggire dal nazismo, lesse queste frasi nella ricerca sull’«antisemitismo tra i lavoratori americani» rimase sconcertato. L’indagine, commissionata nel 1944 dal Jewish Labor Movement alla Columbia University, fu condotta nell’Istituto di sociologia dell’università da alcuni dei più stretti collaboratori di Horkheimer: Frederick Pollock, che la diresse, Leo Lowenthal, Paul Massing e A.R.L. Gurland. Lo scopo era di misurare, a scopo preventivo, visto quanto stava avvenendo in Europa, i sentimenti antiebraici nella società americana. Concluso nel dicembre ’44, lo studio di 1400 pagine raccolte in quattro volumi era pronto per le stampe l’anno successivo, ma non fu mai pubblicato: gli specialisti potevano consultarlo negli archivi del Jewish Labor Committee. Perché?

Ora Catherine Collomp, dell’università Paris VII Denis Diderot, in un articolo sul numero 31 di «Memoria e Ricerca», rivista edita dalla Franco Angeli, risponde a questa domanda dopo aver analizzato nei dettagli i contenuti dell’indagine. Il gruppo di studio preparò dunque un sofisticato questionario che fu compilato, spesso con l’aiuto di quadri operai, da 566 lavoratori che dovevano rappresentare la classe lavoratrice americana nel suo complesso. Le interviste vennero condotte nelle aree della East Coast, New York e il New Jersey, Philadelphia, Pittsburgh, nel distretto dell’auto di Detroit e nella West Coast tra Los Angeles e San Francisco. Il campione comprendeva anche qualche «colletto bianco», piccoli commercianti e professionisti. Ma la grande maggioranza degli interpellati erano operai.

Ecco alcune delle domande poste al gruppo degli intervistati: «gli ebrei si comportano in modo diverso dagli altri?»; «riesci a distinguere un ebreo da un non ebreo?»; «cosa ne pensi di quel che stanno facendo i nazisti agli ebrei in Germania?»; «la gente ritiene che gli ebrei stiano facendo la loro parte nello sforzo bellico?». Come si è visto, alcune risposte furono molto violente, anche per il fatto che certi settori della classe operaia vivevano gli ebrei come un gruppo emancipato, i cui membri venivano utilizzati in guerra come interpreti o in altre mansioni poco pericolose.

Circa la metà degli intervistati, il 49,8 per cento, manifestò un atteggiamento di totale antisemitismo (decisamente ostile era il 30,7 per cento, ostile il 19,1). Il 50,2 per cento si dichiarò invece contrario all’antisemitismo, anche se il 19,3 per cento non aveva difficoltà a dichiarare la propria antipatia istintiva per gli ebrei e, infine, il 30,9 era ben disposto verso gli ebrei. Un risultato preoccupante e contraddittorio, visto l’enorme impegno degli Stati Uniti e del popolo americano nella lotta al nazifascismo: un impegno economico e industriale, ma anche un grande sacrificio di vite umane. E fu questo il motivo, nota Catherine Collomp, per cui il Jewish Labor Committee alla fine decise di non pubblicare il documento.

La ricerca dell’Istituto di sociologia aveva confermato quanto evidenziato da altre e più vaste inchieste, che cioè la guerra non aveva attenuato ma anzi accentuato nella working class i cliché antigiudaici: il pregiudizio antisemita era passato dal 43 per cento dell’aprile 1940 al 56 per cento del maggio 1944 e al 58 per cento nel giugno 1945. Un fenomeno all’apparenza inspiegabile, anche perché i lavoratori americani non se l’erano mai passata così bene da anni.

La giudeofobia, notarono i sociologi della Columbia, in questo contesto «era un modo per venire a patti con il più fondamentale problema dei rapporti tra razze». In distretti come quello di Detroit per esempio «la forza lavoro era più che raddoppiata durante la guerra, passando da 400 mila a 867 mila lavoratori». L’accesso dei lavoratori neri, che nutrivano minori sentimenti antigiudaici, a settori dove prima vigeva la segregazione, provocò diversi scioperi. Allo stesso modo tensioni erano causate dalla penuria degli alloggi. Poiché l’ostilità verso i neri «era contenuta dalla disciplina imposta dai sindacati per tutelare la produzione di guerra», l’antisemitismo fungeva da valvola di sfogo, toglieva «un peso dalle spalle dei lavoratori». Una spiegazione in linea con la «teoria critica» di Horkheimer e Adorno: un metodo che integrava sociologia, psicoanalisi, economia, storia delle idee. I due studiosi si erano resi conto che il sistema chiuso del marxismo e della teoria della lotta di classe era insufficiente per spiegare l’ascesa del nazismo. Allo stesso modo occorreva uno sguardo multidisciplinare per capire le pulsioni negative della società americana.

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