venerdi 01 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Giornale Rassegna Stampa
13.01.2010 Perchè Mubarak alza la voce contro l'Italia
I commenti di Giorgio Israel, Marcello Foa

Testata: Il Giornale
Data: 13 gennaio 2010
Pagina: 4
Autore: Marcello Foa - Giorgio Israel
Titolo: «Mubarak urla all’Italia per farsi sentire dagli islamici di casa sua - Il problema sono gli schiavi non i negri»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, a pag. 4, i commenti di Marcello Foa e Giorgio Israel titolati " Mubarak urla all’Italia per farsi sentire dagli islamici di casa sua " e " Il problema sono gli schiavi non i negri ". Ecco i due articoli:

Marcello Foa - "Mubarak urla all’Italia per farsi sentire dagli islamici di casa sua"


Marcello Foa

L’accusa di razzismo rivolta dall’Egitto al governo italiano è talmente anomala e pretestuosa da non poter essere considerata accidentale. Perché un governo si indigna a tal punto, benché a Rosarno praticamente non ci fossero suoi concittadini? A cosa mira Mubarak?
Escludiamo subito l’ipotesi più estrema. L’Egitto continuerà ad essere un amico fidato dell’Occidente e dell’Italia in particolare. I rapporti con Berlusconi sono eccellenti, come lo erano con Prodi. Lo stesso Mubarak è venuto in visita lo scorso luglio in un clima di grande cordialità. Nel frattempo non è successo niente che potesse compromettere le relazioni.
La ragioni vanno cercate altrove, all’interno dell’Egitto, innanzitutto. Da anni Mubarak deve fronteggiare un processo di islamizzazione strisciante della società civile. Ha usato il pugno duro - e talvolta durissimo - sia per reprimere i Fratelli Musulmani sia per combattere il terrorismo fondamentalista, ma l’attentato dell’altro giorno contro i copti ha dimostrato che gli estremisti non sono ancora sotto controllo.
D’altro canto il Cairo è criticato da buona parte dell’opinione pubblica mediorientale per la linea di fermezza nei confronti dei palestinesi di Gaza, che ormai sono chiusi tra due muri, quello israeliano e, a sud, quello egiziano. E questo malumore rafforza l’opposizione interna. Mubarak aveva bisogno di un diversivo per distrarre l’opinione pubblica e modificare il proprio profilo pubblico.
La polemica con l’Italia è perfettamente strumentale a questo disegno, proprio perché puramente mediatica. Non è difficile prevedere che nel giro di qualche giorno i rapporti tra Roma e il Cairo torneranno ad essere quelli di prima. Intanto però Mubarak può presentarsi - lui, accusato di essere succube dell’Occidente - come uno dei pochi leader arabi che ha affermato a voce alta ciò che il popolo osa appena sussurrare ovvero che noi europei siamo cattivi, ingiusti e xenofobi. Un’operazione populista, ma di sicuro impatto, che permette al governo del Cairo di cautelarsi anche su un altro fronte: quello dell’emigrazione clandestina.
Sebbene molti egiziani siano ormai integrati nella nostra società, come dimostra la figura, piacevolmente simbolica e a noi familiare, del bravo pizzaiolo, la realtà è più complessa. L’elenco dei reati commessi da egiziani è lungo, mentre la risposta delle autorità diplomatiche non è sempre all’altezza. Sebbene vincolate al rispetto degli accordi internazionali, il loro comportamento appare assai disinvolto. Poco prima di Natale, il Giornale ha rivelato che il consolato di Milano assume da anni il personale locale in nero e se ne infischia di applicare le nostre leggi del lavoro. E non è che una delle anomalie di questo ufficio di rappresentanza.
Quando si tratta di collaborare per il rimpatrio dei clandestini si alza un muro di gomma. Il ministro degli Esteri del Cairo ci ha accusato, con incredibile sfrontatezza, di non rispettare le leggi, mentre è vero il contrario: qui da noi sono loro a violarle. Sistematicamente. Chiedere alle questure per conferma: i fax italiani alle autorità consolari restano senza risposta. Ma in mancanza del via libera consolare è di fatto impossibile cacciare un egiziano irregolare. È come se esistesse una strategia precisa, sebbene inconfessata, per lasciare all’estero il maggior numero di cittadini, anche quelli irregolari e i delinquenti. Ma allora, vien da chiedersi, che interesse ha l’Egitto ad avviare la polemica proprio ora e senza appigli concreti? Non è difficile intuirlo. Quando accusi un Paese di essere razzista e di agire nell’illegalità, ti procuri una formidabile argomentazione preventiva per resistere alle pressioni. E siccome il governo egiziano ha capito che dopo le violenze dei giorni scorsi, Roma avrebbe preteso una collaborazione più efficace - all’insegna della «tolleranza zero», annunciata da Sacconi - grazie ai fatti di Rosarno può continuare a ignorare i fax delle questure o perlomeno a provarci. Alla faccia dell’amicizia. Perchè i cattivi, ovviamente, siamo noi. Loro sono soltanto furbi.

Giorgio Israel - " Il problema sono gli schiavi non i negri"


Giorgio Israel

Dunque, è scoppiata la prevedibile polemica sul razzismo degli italiani ed ha investito anche il terreno linguistico con il rimprovero mosso da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri di aver usato la parola «negro». Feltri ha prodotto diversi esempi per provare l'innocenza del ricorso a questa parola. Ad essi può essere aggiunto il più importante di tutti: l'introduzione del termine «negritudine» (dal francese «négritude») da parte del presidente e poeta senegalese Léopold Sédar Senghor che, assieme a Aimé Césaire e altri, lo intese come simbolo e rivendicazione orgogliosa dei valori culturali dell'Africa nera. Un intellettuale certamente non reazionario come Sartre si schierò con il movimento della «negritudine» sostenendo che esso esprimeva la ricerca delle radici di una civiltà oppressa dal colonialismo. Certo, il concetto e il movimento della «negritudine» fu poi criticato e avversato da molti africani come espressione di una persistente subordinazione culturale e di un razzismo alla rovescia. Il che significa soltanto che tutto ciò è materia di una discussione che non può che essere pacifica, ragionata e aliena dalle condanne perentorie tipiche del politicamente corretto.
Chi scrive detesta il politicamente corretto e le sue follie fondamentaliste. Ne ho visto un simbolo all'aeroporto di Francoforte, in cui sono stati allestiti piccoli cubi di vetro per fumatori, dove il malcapitato può sfogare il proprio vizio soltanto se lo espone in vetrina al pubblico ludibrio. Tuttavia, anche nelle cose peggiori può esserci qualcosa di buono e una certa prudenza nell'uso delle parole è giusta. Ritengo che il criterio discriminante sia quello del contesto oltre che, ovviamente, dell'intenzione. Ad esempio, anni fa un noto uomo politico - evitiamo il nome e le polemiche connesse - si riferì in televisione ad alcuni suoi amici che considerava dei primitivi sul piano della cultura alimentare come a dei «zulù» (con l'accento sulla «u»). In questo caso non bisogna essere antropologi per sapere che zulu designa una lingua e una cultura e per trovare orripilante l'uso di questo termine come sinonimo di primitivo, rozzo e selvaggio. Lo stesso politico, facendo ricorso all'espressione «non ho l'anello al naso», dava ragione al politicamente corretto, perché è inaccettabile identificare questa usanza - cui ricorrevano popolazioni di elevate capacità organizzative e guerriere - come un simbolo di dabbenaggine idiota.
Conta il contesto e l'intenzione, e se il politicamente corretto insegna qualcosa è a non comportarci più come quei bianchi che, con mentalità provinciale, reagivano alla presenza di una persona di colore con la stessa ilare curiosità con cui si osserva un babbuino. In fondo, il termine «negro» si pone sullo stesso piano del termine «giudeo», su cui pesa un ripetuto uso dispregiativo. Malgrado questo uso si continua a parlare di pensiero «giudaico» o di «radici giudaico-cristiane» senza alcuna connotazione negativa, al contrario. Conta l'intenzione e il contesto. Perché, se si parla dei «giudei» per auspicare la loro morte come una liberazione per l'umanità (alla maniera di Agostino Gemelli), è un'altra faccenda, alquanto sporca. Come lo è l'uso della parola «giudeo» (ma anche «ebreo») quando non c'entra nulla: per esempio parlando di consigliere ebreo del ministro dell'Istruzione. E come lo sarebbe parlare della riforma sanitaria non del presidente Obama, ma del «nero» Obama. Potremmo continuare con le disquisizioni, ma viene spontanea una domanda: non ci stiamo impelagando in discussioni non prive di valore ma che finiscono con l'occultare i problemi più gravi? Le parole possono essere pietre, ma i comportamenti di fatto possono essere proiettili, anzi obici. Leggiamo sulla stampa che il parroco di Rosarno ha dichiarato: «Li avete cacciati. Oggi siamo più poveri. Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano», invitando i «farisei» a non entrare in chiesa. Ci si stracciano le vesti dicendo che il bubbone è cresciuto malgrado gli sforzi della Caritas, dei sindacati e le teglie di maccheroni confezionate da una signora caritatevole. In verità - lo dico senza reticenze - ho sempre nutrito la massima repulsione morale per la pratica della carità. Detesto quelle persone benvestite che calano la monetina e se ne vanno contente e appagate senza chiedersi se in tal modo non hanno perpetuato la schiavitù del bambino che l'ha raccolta e, in generale, la condizione miserabile dell'elemosinante. Sono convinte di aver fatto un passo verso il paradiso e ne hanno fatto uno verso l'inferno. Propinare un piatto di minestra e fornire cartoni nuovi che perpetuano il dormitorio per strada, invece di pretendere condizioni umane degne di questo nome, questo sì che è un comportamento indecente.
C'è qualcosa di profondamente sbagliato e fuorviante in certe polemiche attorno al razzismo connaturato negli italiani, che avrebbe le sue radici nel periodo iniziale dello stato unitario. Ormai è diventata una moda intollerabile e autodistruttiva imputare ogni male di questo paese all'unità. Basta guardarsi attorno e guardare alla storia degli altri principali paesi europei per rendersi conto di quanto la verità sia all'opposto: l'Italia è il paese che ha le più deboli tradizioni razziste in Europa. A Rosarno sono emersi i tentacoli della criminalità organizzata, che rappresenta la forma contemporanea dei mercanti di schiavi, e il terreno che ne alimenta la sopravvivenza, ovvero una cultura diffusa dell'illegalità. È emersa la complicità, quanto meno il volgere lo sguardo dall'altra parte di istituzioni, organizzazioni e molti cittadini che hanno preferito lavarsi (o, per meglio dire, sporcarsi) la coscienza con l'elemosina anziché prendere di petto il problema di opporsi con tutte le forze alla malavita organizzata e al moderno schiavismo. Questi sono i veri problemi, di questi bisogna parlare, su questi bisogna agire. Prendersela col ministro Maroni - che agisce in modo ineccepibile - scagliare fulmini contro un razzismo popolare di dimensioni irrilevanti, invocare il ritorno alla carità elemosinante anziché ai diritti e alla giustizia, impelagarsi in una storiografia senza capo né coda, non è razzismo, ma certamente rappresenta una scandalosa elusione dei problemi reali la quale, dopo uno sterile vociare, può soltanto aprire la strada a ricominciare tutto come prima e peggio di prima.

Per inviare la propria opinione al Giornale, cliccare sull'e-mail sottostante


segreteria@ilgiornale.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT