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La Stampa Rassegna Stampa
10.01.2010 Amos Gitai, chissà se, come il vino, invecchiando migliora
Lo intervista Alain Elkann

Testata: La Stampa
Data: 10 gennaio 2010
Pagina: 20
Autore: Alain Elkann
Titolo: «A teatro porto la mia diaspora»

Amos Gitai, regista di noiosissimi film, sembra risvegliarsi rivelando nuovi interessi nell'intervista con Alain Elkann sulla STAMPA di oggi, 10/01/2010, a pag. 20, dal titolo " A teatro porto la mia diaspora".


Amos Gitai

Al Teatro Odeon a Parigi va in scena «La Guerre des fils de lumière contre les fils des ténèbres», tratto dalla «Guerra giudaica» di Giuseppe Flavio. La protagonista femminile è Jeanne Moreau, che recita la parte maschile di Giuseppe, sotto la direzione di Amos Gitai: perché lei ha deciso di dedicarsi al teatro?
«Perché adoro quel testo: è un testo antico che non è però mitologico. Si vede il desiderio di Flavio di fare, per la prima volta, un lavoro da giornalista, da testimone. Ha voglia di lasciare una traccia su un grande conflitto nel quale Roma, che allora era una grande potenza, scende in guerra contro la piccola Giudea».
E che cosa succede?
«Due imperatori - Vespasiano e Tito - ritengono importante scendere in guerra di persona per schiacciare Gerusalemme. E’ strano che un grande impero se la prenda tanto con un piccolo Paese senza una vera importanza strategica. Pierpaolo Pasolini, quando preparava il suo film “Il Vangelo secondo Matteo”, lesse questo testo e pensò che si volessero schiacciare gli ebrei perché custodivano idee diverse. E’ da lì che comincia la diaspora degli ebrei che durerà oltre 2 mila anni».
Perché quel momento fu tanto tragico?
«Quel momento fu durissimo per gli ebrei perché persero la loro sovranità, non solo per via dei romani ma anche a causa della guerra civile: verranno deportati in massa».
Perché il testo che rievoca questa vicenda è ancora così attuale?
«E’ un testo che, secondo me, ha ancora una grande risonanza, perché ci ricorda i pericoli di oggi. Israele si trova in un’area geografica di grandi conflitti e non può permettersi di dimenticare la necessità di trovare un equilibrio».
Qual è il pericolo maggiore secondo lei?
«La questione maggiore, che non è solo di Israele, è la qualità dei dirigenti politici. E inoltre non si deve dimenticare la ragione storica per cui fu creata questa nazione. Sono solo un regista cinematografico e teatrale, ma è sbagliato che noi artisti cerchiamo di rimpiazzare i politici. Penso che un’artista, quando fa un film, debba esprimere al meglio la sua visione del mondo. Quanto ai politici, invece, la situazione è diversa: devono saper negoziare. Non possono permettersi di essere rigidi e intransigenti. Bisogna saper guardare oltre e costruire il futuro».
Il presidente di Israele Shimon Peres è un uomo di questo genere?
«Sì. Conosce la dimensione storica e sa come è nata la nazione di Israele. In passato i nostri leader erano nati fuori dal Paese, nei luoghi della diaspora. Poi ci sono stati personaggi come Rabin e Sharon che sono nati sì in Israele, ma prima della fondazione dello Stato: hanno quindi visto cambiare i confini e hanno vissuto in una realtà in cui la maggioranza della popolazione era araba. Ora, invece, ci sono politici come Olmert, Netanyahu o Barak nati dopo la creazione di Israele: loro credono nella guerra come uno strumento per costringere a nuovi negoziati e questo è un grave problema. Israele esiste perché nel novembre 1947 più dei due terzi dei Paesi membri dell’Onu hanno votato in favore della sua esistenza e noi non dobbiamo voltare la schiena al mondo e ignorare questi fatti. E’ pericoloso».
Adesso quali sono i suoi impegni?
«Vado a New York, al Museo d’Arte Moderna, dove è in programma la proiezione del mio ultimo film “Carmel”: è tratto dalle lettere di mia madre che verranno pubblicate da Gallimard a Parigi e da Bompiani in Italia».
Di recente lei si è riavvicinato all’ebraismo della diaspora: qual è il motivo?
«Perché da israeliano ho una relazione ambivalente verso la diaspora. Quando vedo ebrei etiopi giungere in aereo dall’Etiopia a Tel Aviv, penso che, da un lato, questo sia un gesto di grande solidarietà, ma dall’altro mi addolora che venga cancellata una piccola comunità, che ha saputo resistere per tantissimi anni a ogni sorta di difficoltà».
Lo vede come un pericolo?
«Tante di queste comunità saranno presto estinte: sta accadendo in India, in Cina, in Russia».
E quindi che rapporto ha con il suo Paese?
«Mi sento un po’ come Hitchock: sono, a volte, un testimone del mio Paese e voglio preservare il passato. Di recente ho girato un film sulla vita di Jérome Clément: aveva scoperto che la madre era ebrea solo dopo la sua morte, perché aveva trovato una lettera del padre scritta a un prefetto in cui spiegava che lui era ariano e la moglie ebrea. Quel pezzo di storia io lo conoscevo solo a grandi linee, ma poi è diventato un piccolo caso personale e così ho sentito che ero pronto per fare un film. Questo film è stato importante per me: è stato il mio primo incontro con gli ebrei della diaspora».

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