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Il Foglio Rassegna Stampa
09.01.2010 Robert Kagan sul disastro obamiano, Franco Zerlenga sull'islamofascismo
Due intervsite di Christian Rocca

Testata: Il Foglio
Data: 09 gennaio 2010
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca
Titolo: «L'ammnistratore del declino-Zerlenga spiega a Sartori il concetto di umma islamica e di soft jihad»

Due Christian Rocca sul FOGLIO di oggi, 09/01/2010, a pag.1 e 2. Il primo articolo è un'intervista con Robert Kagan, che dà la sua interpretazione al disastro della politica obamiana nel primo anno della presidenza. Il secondo, l'abituale intervista con Franco Zerlenga, già professore di storia islamica alla New York University, che commenta gli interventi di Sartori sul Corriere, spiegando, con la chiarezza che gli è abituale, il programma a tappe dell'islamofascismo.
Eccoli:

"L'ammnistratore del declino", intervista di Christian Rocca con Robert Kagan


a sin. Christian Rocca, Robert Kagan

New York. Il saggio più interessante sulla politica estera di Barack Obama è stato appena pubblicato dalla nuova e bella rivista bipartisan World Affairs. Lo ha scritto Robert Kagan, storico e intellettuale neoconservatore di seconda generazione, già consigliere di John McCain alle scorse elezioni, ma soprattutto autore di uno dei libri più dibattuti dell’era post 11 settembre. Nel 2002 Kagan ha scritto “Paradiso e Potere”, pubblicato in anteprima europea su queste colonne, il saggio sui rapporti transatlantici che ha diviso le cancellerie europee e segnato le differenze tra l’America e il tradizionale asse franco-tedesco. Il nuovo scritto di Kagan è un’analisi negativa, ma seria, originale e ben argomentata dell’ideologia alla base della politica estera della Casa Bianca. Il 20 gennaio la presidenza Obama compie il primo anno di vita. I giornali e le televisioni hanno già analizzato il suo approccio alla politica internazionale, segnalando le similitudini e le differenze rispetto al suo predecessore George W. Bush Il fallito attentato di Natale organizzato sul volo Amsterdam-Detroit ha mostrato la vulnerabilità fisiologica del sistema di difesa nazionale americano, ma nonostante le critiche dell’ex presidente Dick Cheney ha anche confermato la solidità di Obama nell’affrontare e voler vincere la guerra contro il terrorismo islamico. Il ragionamento di Kagan va oltre questo dibattito politico e giornalistico. L’analista della Carnegie Endowment for International Peace riconosce che la presidenza Obama sarà valutata bene o male dall’esito della sua strategia sull’Afghanistan e sull’Iran, ma invita a riflettere su un altro punto: con Obama è in atto un più ampio cambiamento della politica estera americana che potrebbe avere un impatto ancora più duraturo delle crisi mediorientali: “La presidenza Obama potrebbe passare alla storia come il momento in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato la grande strategia adottata dopo la Seconda guerra mondiale e assunto una relazione diversa con il resto del mondo”. La tesi di Robert Kagan è questa: Obama è convinto che sia finita l’Era americana e assieme ai suoi uomini ha assunto il ruolo di amministratore del declino, di architetto del nuovo ordine post americano. E’ la fine della Grande strategia elaborata dopo la Seconda guerra mondiale e continuata anche nell’epoca postsovietica con i due Bush e Bill Clinton. Secondo Kagan, si basava su tre pilastri: una supremazia militare ed economica; una rete globale di alleanze formali politiche e militari, in particolare con i regimi democratici; un sistema di libero commercio e di mercato aperto. L’idea, scrive Kagan, era di creare “un bilanciamento del potere fortemente a favore dei paesi liberi”. Le nazioni non libere erano da tenere sotto controllo e da trasformare col tempoNon era una posizione di destra o di sinistra, né materia di disputa tra falchi e colombe. Era la posizione americana, elaborata nel famoso “Long Telegram” di George Kennan del 1946 e confermata nel documento strategico NSC-68 scritto da Paul Nitze quattro anni dopo. L’obiettivo, sintetizzava il presidente democratico Harry Truman, era innanzitutto rafforzare “le nazioni che amano la libertà” e poi “creare le condizioni per portare finalmente libertà personale e felicità a tutta l’umanità”. Secondo Kagan, Obama e il suo team hanno divelto due dei tre pilastri della strategia degli ultimi sessant’anni. Invece che provare a perpetuare la supremazia americana, cercano di amministrare quello che considerano un inevitabile declino rispetto alla crescita delle nuovi grandi potenze Sulla Cina, la Casa Bianca pensa di non avere speranze, non si impegna per scongiurare il sorpasso, ma prova a riadattare la politica americana: “La nuova strategia – scrive Kagan – richiede di essere accomodanti con le potenze nascenti del mondo, piuttosto che provare a contenere le loro ambizioni. Essere accomodanti consiste nel riconoscere a Cina e Russia quello che le potenze nascenti hanno sempre voluto: maggiore rispetto per i loro sistemi politici in patria e maggiore egemonia all’interno delle rispettive aree regionali”. Obama sta ridiscutendo anche la rete di alleanze internazionali, nonostante il gran parlare di multilateralismo: aumentare la cooperazione con Russia e Cina, secondo Kagan, risulta incompatibile con le vecchie alleanze. La Nato e gli accordi bilaterali asiatici sono stati siglati proprio per contenere Russia e Cina. L’Amministrazione considera quei trattati come reperti della Guerra fredda e punta a una nuova architettura internazionale, fondata su un nuovo consorzio di poteri: “Il mondo del G20”. Sbaglia, sostiene Kagan, chi definisce realista questo approccio di Obama. C’è anche un aspetto idealista e ingenuo nella sua strategia. Obama crede che tutte le grandi potenze abbiano gli stessi interessi e che l’America debba mostrare al mondo buone intenzioni e presentarsi come un disinteressato promotore del bene comune, senza prendere posizione. Secondo Kagan, Obama vuole usare il potere americano per essere amico di tutti. Il rischio è la neutralità e, in fondo, il declino dell’America.

" Zerlenga spiega a Sartori il concetto di umma islamica e di soft jihad "
dialogo fra Christian Rocca e Franco Zerlenga


Franco Zerlenga

New York. Le pain quotidien, panetteria belga e mediterranea su Amsterdam Avenue, all’altezza dell’ottantaquattresima strada. Il pensatore newyorkese Franco Zerlenga, già professore di Storia dell’islam alla New York University, ordina una scodella grande di minestrone e un’insalata di frutta extra large. S’era preparato a discutere di tutt’altro, ma a tormentarlo c’è il dibattito aperto da Giovanni Sartori sul Corriere a proposito della difficile integrazione delle comunità musulmane nella società occidentale. “Ma quale integrazione? – chiede Zerlenga – I musulmani non emigrano, la loro emigrazione è come quella di Maometto, quando ha lasciato la Mecca ed è andato a conquistare Medina. E’ scritto nel Corano. L’immigrazione è la prima fase di un jihad di conquista, un soft jihad, che porta alla sottomissione”. In teoria Zerlenga dovrebbe difendere Sartori, perlomeno dagli attacchi dei suoi critici, ma sarebbe troppo banale, per un pensatore brillante e un profondo conoscitore dell’islam come il protagonista di “That’s it”. Al contrario, Zerlenga sbriciola le tesi del professorone del Corriere, pur avendo apprezzato il tentativo di fare un passo avanti. Dei critici di Sartori non si cura nemmeno, perché troppo ignoranti. “La mia tendenza – dice Zerlenga – è di consigliare Sartori di lasciar perdere, di non scrivere più sull’islam e dintorni, perché mi ricorda quei miei compagni di liceo impreparati che venivano interrogati e più rispondevano più dimostravano una profonda ignoranza”. Poi però parte con l’elenco. La prima cosa a infastidirlo è il concetto di “civiltà musulmana”, al centro del dibattito. “Mi volete dire – dice Zerlenga – in che cosa consiste la civiltà musulmana? In 14 secoli ha prodotto solo conquiste militari fatte seguire dall’imposizione ai popoli sottomessi della scelta tra conversione, morte e trasformazione dei popoli non musulmani in dhimmi, in esseri inferiori. Lo ha ricordato l’altro giorno anche il capo della chiesa greca-ortodossa Bartolomeo I, a ‘60 Minutes’: in Turchia siamo cittadini di seconda categoria, ha detto”. L’altro aspetto del ragionamento di Sartori che a Zerlenga non va giù è quello su quale sia il vero islam. “E’ una domanda che i musulmani non si pongono, perché l’islam non è un concetto astratto o filosofico. Tutti i musulmani credono ai cinque o sei pilastri fondamentali dell’islam. Non esiste un islam fondamentalista, ci sono solo diverse sette con diversi nomi”. Il terzo punto è quello della “fede islamica”, come se l’esperienza del fedele musulmano fosse simile a quella di chi ha il dono della fede cattolica o buddista. Zerlengal’islam è un modo di essere, non una fede che si può avere e poi anche perdere. Chi perde la fede, chi lascia l’islam, merita la pena capitale secondo il Corano”. Il pensatore newyorchese, concittadino di Sartori, sostiene che al professore del Corriere sfugga completamente il concetto di umma, la comunità musulmana, che è alla base dell’islam: “La cittadinanza è un concetto occidentale, così come l’idea degli stati nazione. A seconda dei casi sia l’uno sia l’altro sono irrilevanti per i musulmani”. Zerlenga critica anche tutto “l’arzigogolare di Sartori su pluralismo, multiculturalismo, diversità”, perché secondo lui sono vecchie categorie della Guerra fredda: “Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione sovietica, che per 70 anni ha fatto da muro divisiorio tra il mondo musulmano e il mondo democratico, è ritornato lo scontro tra civiltà democratica e islam”. spiega che “non esiste una fede islamica,

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