E' giusto combattere al Qaeda in Yemen Ma non si devono trascurare le sue ramificazioni in Europa. Analisi di Daniele Raineri, Pio Pompa, redazione del Foglio
Testata: Il Foglio Data: 05 gennaio 2010 Pagina: 1 Autore: Daniele Raineri - Pio Pompa - La redazione del Foglio Titolo: «Nello Yemen il Palazzo sta più con al Qaida che con Washington - Lo Yemen d’Europa - L'Arabia infelice»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/01/2010, a pag. 1-4 l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Nello Yemen il Palazzo sta più con al Qaida che con Washington ", a pag. 4 l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Lo Yemen d’Europa", a pag. 1 l'articolo dal titolo " L'Arabia infelice ". Ecco i pezzi:
Daniele Raineri : " Nello Yemen il Palazzo sta più con al Qaida che con Washington "
Daniele Raineri
Roma. Dopo Stati Uniti, Spagna e Gran Bretagna, che a Sana’a capitale dello Yemen hanno ambasciate simili a fortezze, ieri anche Francia, Germania e Giappone hanno chiuso le sedi diplomatiche, o almeno le sezioni aperte al pubblico più esposte agli attacchi. Il problema immediato è che i servizi di sicurezza yemeniti – è saltato fuori – il giorno prima avevano candidamente ammesso: “Abbiamo perso le tracce di sei veicoli carichi di armi e di esplosivi che sono entrati nella capitale”. Ci si aspettano attentati contro obbiettivi occidentali. Questa svista ad alto rischio degli yemeniti è il sintomo di una questione più vasta. Il governo di Sana’a non sta al cento per cento con l’occidente. Anzi, a Palazzo ci sono simpatizzanti altolocati di al Qaida. Paragonato allo Yemen persino il Pakistan, ambiguo alleato di Washington, è un campione specchiato di risolutezza antiterrorismo anche se con una mano incassa gli aiuti americani e con l’altra non trattiene i settori dell’intelligence militare che appoggiano i talebani e gli estremisti di al Qaida. La storia del rapporti tra il governo e al Qaida è lunga. Il presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, ha un fratellastro con il grado di generale, Ali Mohsen al Ahmar, che già negli anni Ottanta reclutava volontari per conto di Osama bin Laden, da mandare a combattere in Afghanistan, e prima li addestrava in campi di stato. Dopo la guerra afghana, lo Yemen ha ricevuto migliaia di reduci yemeniti e non. Il presidente Saleh ha cominciato a usare questi veterani nella guerra civile del 1994, contro i separatisti del sud. Molti di loro furono arruolati formalmente e oggi hanno posizioni di comando nell’esercito e negli apparati di sicurezza, in alcuni casi sono diventati governatori e ambasciatori. Negli anni Novanta Osama e il suo vice Ayman al Zawahiri visitarono in numerose occasioni il paese, e predicarono in pubblico nelle moschee; Bin Laden e il generale al Ahmar si incontrarono per sei ore all’aeroporto di Sana’a nel 1996. Dal 2004, di nuovo, il governo ha incorporato altri estremisti sunniti appartenenti ad al Qaida nei ranghi delle proprie forze di sicurezza, questa volta per combattere i ribelli sciiti nel nord. In entrambi i casi, i media hanno ricevuto l’ordine di definire i ribelli socialisti e quelli sciiti con l’aggettivo “satanici”, tanto per rinfocolare la combattività dei militanti. In cambio, al Qaida riceve protezione, addestramento, passaporti, automobili, case sicure e una procedura facilitata per uscire di prigione. Come hanno imparato a proprie spese gli americani, affidare alle prigioni dello Yemen i sospetti terroristi è come liberarli. Alcuni sono processati per finta, con la cura però di vestirli da carcerati nei giorni in cui si devono presentare alle udienze davanti a giudici compiacenti. Per altri sono organizzate evasioni di massa, come nel 2006, quando 26 condannati per terrorismo scapparono per poi ricomparire nei video di al Qaida. Dal 2005 il presidente Saleh, che è ora anche il referente dell’Amministrazione Obama sul problema terrorismo, tratta apertamente con gli jihadisti, e nel 2008 avrebbe anche stretto un “patto di non aggressione” con al Zawahiri.
Pio Pompa : " Lo Yemen d’Europa "
Pio Pompa
L’opzione di un intervento americano nello Yemen rischia di assumere i contorni di una mera iniziativa di dissuasione, già sperimentata nel dicembre scorso, giacché il vero problema del terrorismo jihadista, in franchising o dei solisti della morte, alberga altrove e soprattutto in Europa. La Gran Bretagna da tempo si è trasformata in uno dei principali snodi logistici e organizzativi del terrorismo islamico con cellule a tale punto dissimulate nel tessuto economico e sociale di quel paese da imporre una strategia di contrasto altrettanto capillare coinvolgendo direttamente, attraverso Comitati per lo scambio di informazioni, sia gli apparati di sicurezza sia le varie articolazioni del mondo produttivo, della scuola e persino delle rappesentanze di quartiere. Eppure le maglie della prevenziome stentano a conseguire risultati soddisfacenti risentendo pesantemente, ancora oggi, dei gravi errori di sottovalutazione del pericolo integralista culminato, poi, nell’attentato del 7 luglio 2005. In Norvegia risiede un gruppo di intellettuali, organici alla causa islamista, che vantano soggiorni in Pakistan, in Afghanistan e, da ultimo, nello Yemen in veste di insegnanti universitari. Stesso scenario si ripete, mutatis mutandis, per il resto del Vecchio continente. D’altro canto, per quanto un paese possa compiere ogni sforzo contro la minaccia qaidista, l’efficacia della lotta al terrorismo continuerà a risentire drammaticamente delle scelte politiche di appeasement come quelle che hanno consentito: a) il naufragio della rivoluzione dei cedri, consegnando il Libano nelle mani di Hezbollah e dei mandanti dell’assassinio di Rafik Hariri, dopo il pratico affossamento dell’inchiesta Onu sulla sua uccisione che ne aveva inizialmente individuato i responsabili, e l’isolamento del figlio di Hariri costretto a riaprire il dialogo con il presidente siriano Bashar Assad; b) all’Iran di aumentare in modo esponenziale l’influenza in medio oriente e di persistere nell’arricchimento dell’uranio, nonostante la grave minaccia che rappresenta per lo stato di Israele, fino al punto di potersi dotare tra non molto di ordigni nucleari. Tutto ciò nulla toglie alla necessità strategica di colpire, ovunque si trovino, le basi di al Qaida, purché si abbia piena consapevolezza di essere sul versante più militarizzato dei jihadisti e non su quello dei solisti della morte che richiede un paziente e duro lavoro di intelligence dentro e fuori della propria nazione.
" L'Arabia infelice "
Ali Abdullah Saleh, presidente dello Yemen
Roma. Un tempo era l’Arabia Felix: mitico regno della Regina di Saba, benedetto da un clima e da una posizione strategica al centro della rotta delle spezie. Il petrolio degli antichi. Del petrolio dei moderni, invece, è il pezzo di Arabia dove ce n’è di meno. Ma non solo per questo si è trasformato in Infelix: coacervo di tensioni per venire a capo delle quali l’inveterato equilibrista presidente Ali Abdullah Saleh ha finito per fare con al Qaida il gioco sporco, che gli è poi scappato di mano. Gli zaiditi, un ramo dello sciismo, nell’898 stabilirono nello Yemen una monarchia teocratica con alla testa l’Imam: re e al contempo erede del Profeta. Durò fino al golpe con cui nel 1962 un gruppo di militari nasseriani proclamò la repubblica, profittando della morte del sovrano Ahmad bin Yahya. Ma i seguaci dell’erede al trono Muhammad al Badr scatenarono una guerriglia legittimista che durò otto anni, malgrado i bombardamenti di gas degli aerei egiziani mandati da Nasser al fianco dei repubblicani. Nel frattempo un’altra guerriglia, comunista, si accendeva al sud contro gli inglesi, che si erano insediati a Aden dal 1839. Nel 1970 le due guerre si conclusero: a nord col compromesso che integrò le tribù zaidite nella nomenklatura repubblicana; a sud con la proclamazione dello stato comunista dello Yemen del sud. A lungo rivali, i due stati si fusero assieme nel 1990, dopo la dissoluzione del blocco sovietico. Ma già nel 1994 i “sudisti” si erano pentiti al punto da insorgere in una sanguinosa e fallita guerra di secessione in cui furono sotto banco appoggiati da Stati Uniti e Arabia Saudita: in rappresaglia per il modo in cui Saleh, al potere dal 1978, si era esposto in favore di Saddam Hussein. In seguito, il presidente ha fatto mostra di riavvicinarsi all’occidente. Gli zaiditi, però, si sono di nuovo sollevati dal 2004, e i sudisti hanno ripreso le armi a loro volta dall’inizio del 2009.
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