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Il Foglio Rassegna Stampa
30.12.2009 Non bisogna essere tolleranti con i fondamentalisti islamici
Analisi di Michael Nazir-Ali, Amy Rosenthal, redazione del Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 30 dicembre 2009
Pagina: 3
Autore: Michael Nazir - Ali - Amy Rosenthal - La redazione del Foglio
Titolo: «Cristiani per la guerra giusta - Le donne musulmane hanno il dovere storico di non portare il velo - Il promemoria di Obama»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/12/2009, a pag. I, l'articolo di Michael Nazir - Ali dal titolo " Cristiani per la guerra giusta ", a pag. II, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " “Le donne musulmane hanno il dovere storico di non portare il velo” ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  Il promemoria di Obama". Ecco i pezzi:

Michael Nazir - Ali : "  Cristiani per la guerra giusta "


Michael Nazir -Ali è il capofila della corrente anglocattolica nella chiesa d’Inghilterra. Figlio di un musulmano convertito al cristianesimo, oggi Nazir- Ali si occupa di cristiani in terra islamica. Quando Tony Blair fu chiamato a scegliere il successore di Lord Carey alla guida della Church of England, Nazir-Ali era il grande favorito, ma gli fu preferito Rowan Williams. Secondo l’Independent, “Nazir-Ali è l’intellettuale più rispettato dentro la chiesa”. Questo testo lo ha scritto per la nuova rivista britannica Standpoint.

Dopo il declino del marxismo, il mondo non si era più trovato di fronte a un’ideologia politica, sociale ed economica globale determinata a conquistare, se necessario con la forza, l’egemonia su vaste parti del mondo. Mi riferisco, naturalmente, all’ascesa dell’islam radicale, nelle sue diverse declinazioni, e alla sua pretesa di essere l’unica autentica interpretazione della religione. So bene che molti musulmani rifiutano questa interpretazione della propria fede e che esistono effettivamente forze secolari all’interno del mondo musulmano pronte a opporsi a tale estremismo programmatico. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare la capacità di devastazione e distruzione dell’islamismo e il suo desiderio di ricreare il mondo a propria immagine. Di fronte a una tale ideologia, la comunità internazionale non deve lasciarsi intimidire. Qualsiasi accenno di ritiro da un impegno politico, militare e persino intellettuale sarà considerato dal mondo islamico come una capitolazione. Anziché condurre a un contenimento, servirà solo a incoraggiare tentativi ancora più marcati di espandere il potere e l’influenza dei movimenti legati a questa ideologia. Tutto ciò ha già causato e continuerà a causare immense sofferenze a coloro che non rientrano in una visione islamica del mondo, comprese le minoranze di vario genere, le donne emancipate e i musulmani le cui opinioni divergono da quelle degli estremisti. L’indipendenza delle nazioni, l’autonomia delle comunità, le pratiche devozionali tradizionali (per esempio quelle associate al sufismo) e le “deviazioni” dall’ortodossia prescritta saranno tutte minacciate, con il rischio di mettere addirittura a repentaglio la loro stessa esistenza. E’ pur vero che questa ideologia, alla stregua dei movimenti a essa associati, si nutre delle rivendicazioni, talvolta autentiche, avanzate dai musulmani, come nel caso di Israele/Palestina, del Kashmir, della Cecenia o dei Balcani. Sia chiaro, tuttavia, che l’ideologia non fonda la propria esistenza su tali rivendicazioni, ma su particolari interpretazioni dell’islam e di quanto ne consegue. E’ presente un desiderio di purificare il Dar al-islam (la “Casa dell’islam”) da qualsiasi influenza e corruzione degli infedeli. Questo significa che il ruolo delle donne deve essere ampiamente limitato, che i non musulmani devono accettare lo status inferiore di dhimmi (anziché considerarsi cittadini alla pari), quando addirittura non viene messa in discussione la loro stessa sopravvivenza, e che anche i musulmani di sesso maschile devono comportarsi secondo i dettami dei custodi di tale ideologia. Il mondo non musulmano (Dar al-harb, la “Casa della guerra”) deve essere condotto all’interno della sfera di influenza degli ideologi, non importa se mediante la persuasione, l’adattamento, da parte di terzi, del programma degli estremisti o il timore di un conflitto armato. Per queste ideologie, il jihad non può rivestire il significato di autodifesa, come sostengono tanti moderati. Non deve limitarsi a perseguire la riappropriazione dei “territori musulmani” della Palestina, dell’India, della Penisola iberica, di parti dell’estremo oriente e dell’Asia centrale, nonché, senza dubbio, di molte zone dell’Africa subsahariana, ma andare oltre, affinché, attraverso la Dawa (l’invito ad accettare questa versione dell’islam) o strumenti politici e militari, una parte sempre maggiore del Dar al-harb diventi Dar al-islam. Il fatto che numerosi musulmani non condividano queste aspirazioni, e arrivino addirittura a respingerle, non deve impedirci di vedere la realtà, ovvero che i fautori di queste ideologie islamiste coltivino tali ambizioni e sulla base di esse siano pronti a passare all’azione. Il coinvolgimento del mondo occidentale (in particolare del Regno Unito e degli Stati Uniti) in Afghanistan (e in certa misura anche in Iraq) va visto alla luce di quanto sopra. Non bisogna lasciarsi indurre a un facile ottimismo ritenendo che al Qaida sia stata resa inoffensiva e non costituisca più una minaccia credibile per l’occidente o altri paesi. E’ perfettamente possibile, in presenza delle giuste condizioni, che al Qaida torni a essere una forza vigorosa. In questa fase, qualsiasi azione volta ad abbandonare l’Afghanistan creerà precisamente il genere di caos nel quale questi movimenti prosperano. Farà spazio al verificarsi delle condizioni per cui i talebani e i loro ancora peggiori alleati non solo faranno nuovamente ripiombare il paese nel buio più profondo, ma disincentiveranno anche il Pakistan a contrastare i propri gruppi estremisti, almeno nelle aree di confine. Al Qaida e i suoi affiliati riconquisteranno la loro zona protetta, dove potranno ricompattarsi e pianificare tutte le atrocità che hanno in mente. Anche in altre zone del Pakistan, i gruppi estremisti nati a opera di membri dei servizi segreti dell’esercito pachistano per infiltrarsi nel Kashmir indiano percepiranno questa situazione come un’opportunità per consolidarsi e intraprendere attività dirette non solo contro l’India, ma con un raggio d’azione più ampio e sicuramente contro il governo democratico pachistano ancora fragile. Non soltanto al Qaida cercherà di colpire dei bersagli in occidente e altrove, ma questo contesto fornirà anche nuovo ossigeno ai gruppi preposti all’addestramento di futuri terroristi sia in Afghanistan che in Pakistan. E’ risaputo che il loro addestramento e le loro attività non sono circoscritti all’Asia meridionale e centrale, in quanto questo movimento è molto ferrato nell’esportare l’estremismo e il terrorismo, radicalizzando giovani musulmani occidentali vulnerabili e usandoli nei loro stessi Paesi. È stato dimostrato senza ombra di dubbio come il Regno Unito sia particolarmente esposto a questo riguardo. E’ di vitale importanza che la gente in occidente inizi a comprendere che, in un mondo globalizzato e caratterizzato da una grande mobilità, i suoi interessi non sono racchiusi entro i confini territoriali e “curare il proprio orticello” non è più sufficiente. Gli interessi occidentali vanno difesi a livello globale. Solitamente questo avviene per vie diplomatiche e attraverso la negoziazione, di natura politica oppure commerciale. Di quando in quando, tuttavia, la tutela degli interessi occidentali acquista una dimensione “di difesa” o “militare”. E’ vero che alleanze, accordi e trattati rendono talvolta possibile neutralizzare i nemici e proteggere gli interessi, e solo occasionalmente la difesa di tali interessi richiede un intervento armato. Quando questo accade, tuttavia, non dovrebbero esserci cedimenti nel sostenere lo sforzo mirato e nell’affrontare i costi e addirittura il sacrificio eventualmente necessario. Nelle epoche passate, la tradizione cristiana della guerra giusta forniva i criteri morali per stabilire se un conflitto convenzionale tra stati fosse giustificato o meno. Al giorno d’oggi, in cui con tutta probabilità tali conflitti saranno in gran parte non convenzionali e verranno ingaggiati per impedire dei genocidi, bloccare dei tentativi terroristici di perpetrare atti atroci o garantire la sicurezza in una regione, questa tradizione è ancora in grado di fornire i necessari criteri? Io credo di sì. Può certamente porre l’interrogativo se l’intenzione sia giusta e se l’azione armata venga presa in considerazione come ultima risorsa. Per esempio, l’intenzione è quella di eliminare un male tangibile o solo favorire l’estensione del vantaggio di uno su altri? Esiste un’autorità adeguata? Questo ruolo potrebbe essere ricoperto da un’autorità internazionale, come quella delle Nazioni Unite, o da un’alleanza regionale dotata di una base ampia, oppure potrebbe anche essere l’autorità di uno stato nazionale che agisce a propria difesa allo scopo di respingere o prevenire un attacco diretto contro di sé. E cosa dire riguardo a una corretta proporzionalità? Questo è un aspetto molto più difficile da giudicare: il male causato dall’intervento sarà superiore al male che si intende eliminare? Le valutazioni da farsi devono considerare non solo il male che viene causato nell’immediato, ma anche la misura dell’eventuale danno che potrà generarsi se non verrà posto un freno al male medesimo. Allo stesso modo, nel condurre le ostilità ci si dovrà interrogare sulla protezione dei non combattenti, sulla proporzionalità e sul trattamento dei prigionieri, anche se è appurato che talvolta i terroristi usano deliberatamente i civili come scudo per le proprie atrocità e non riconoscono la reciprocità degli obblighi. “Vincere la pace” è oggi comunemente considerato un necessario complemento per un conflitto che possa essere giustificato. La ricostruzione di un paese, il ripristino delle forniture elettriche e idriche, il mantenimento della legge e dell’ordine sono tutte responsabilità prevedibili in caso di successo in questi tipi di conflitti non convenzionali, così come accadeva in passato nei periodi successivi a guerre più convenzionali. La mancata assunzione di tali responsabilità sicuramente porterebbe a mettere in ombra la necessità morale dell’azione e inoltre rischierebbe di provocare conseguenze politiche e sociali negative. Sarebbe terribile, per esempio, se l’Afghanistan venisse lasciato nello stato di rovina in cui l’occidente l’ha trovato. Pertanto, gli sforzi per la ricostruzione fisica e sociale, per garantire istruzione, opportunità e occupazione sono fondamentali tanto quanto gli sforzi per assicurare un’effettiva sicurezza. Questi sforzi sono degni di lode se compiuti dalle Forze armate e realizzati su base bilaterale. Non si dovrebbe mai più permettere che quest’area diventi una base per la pianificazione e l’esecuzione di attentati terroristici in occidente e altrove. Dovrebbe essere impedito alle cosiddette madrasse di addestrare giovani occidentali a compiere attività terroristiche contro il proprio paese e la propria gente. Questi devono essere gli scopi fondamentali del coinvolgimento. Il raggiungimento di questi obiettivi dipende in larga misura da una politica e un’azione strettamente coordinate tra le forze in Afghanistan e l’esercito pachistano. Occorre comprendere chiaramente che i problemi in Afghanistan non verranno risolti se non si affronteranno questioni simili dall’altra parte del confine. Sono felice di vedere che questo sta iniziando ad accadere, ma la strada è ancora lunga. E’ assolutamente ragionevole chiedersi cosa stia facendo il Pakistan, non solo riguardo ai talebani pachistani e ad altri gruppi jihadisti sviluppatisi in seno al paese, ma anche nei confronti di al Qaida stessa. Un legittimo obiettivo del coinvolgimento deve essere la protezione delle popolazioni dell’Afghanistan e del Pakistan dalla barbarie degli estremisti. Ciò che i talebani hanno fatto in Afghanistan, quando erano al potere, è fin troppo noto e non ha bisogno di essere rammentato. Tuttavia, ricordiamo che durante la loro occupazione transitoria della bellissima valle di Swat, nel nord-ovest del Pakistan, una delle azioni che ha portato la loro “firma” è stata l’esplosione di una scuola per ragazze gestita da suore cristiane in gran parte a beneficio di alunne musulmane e dei loro genitori. Non avrà molto senso parlare di impegno dell’occidente a favore delle libertà fondamentali e dei diritti umani basilari se le donne, le ragazze e i non musulmani saranno consegnati a una prigionia virtuale solo perché gli elettorati occidentali sono percepiti come incapaci di sostenere un conflitto estenuante. Il risultato di questo intervento deve essere l’emancipazione di queste fasce di popolazione, che non possono più essere lasciate alla mercé degli estremisti. Uno dei motivi per cui una larga parte della popolazione non riesce a farsi una ragione delle vittime del conflitto è che non esiste più una narrativa comune all’interno della quale collocare queste tragedie, che aiuti la gente a dare un senso alla perdita. Una cultura individualista, fatta di realizzazione e gratificazione personali, non lascia spazio al servizio, all’abnegazione e al sacrificio. Sebbene gli Usa siano sottoposti a molte delle pressioni che deve affrontare il Regno Unito, è istruttivo osservare come, in molti casi, qui la tradizione giudaicocristiana sopravviva ancora, anche se non intatta, e offra un quadro all’interno del quale elaborare la perdita. L’altro motivo che viene frequentemente addotto a supporto di un ritiro dal conflitto è che si sta ignorando l’opinione dei musulmani. Abbiamo già visto come il programma degli estremisti non origini dalle varie “rivendicazioni” del mondo musulmano, ma si nutra di esse. In linea di massima, i musulmani hanno accolto favorevolmente gli interventi militari guidati dalle Nazioni Unite o dalla Nato, come in Bosnia o nel Kosovo, quando tali missioni sono state intraprese per proteggere comunità musulmane in pericolo. Non riesco tuttavia a comprendere perché gli stessi interventi siano accettabili quando sono i musulmani a essere oppressi, ma inaccettabili quando può verificarsi che siano i musulmani gli oppressori (spesso di altri musulmani). Non si possono avere due pesi e due misure, e se l’intervento armato è ammissibile, devono esistere dei criteri concordati al riguardo, indipendentemente da chi questo intervento può proteggere o contro chi può essere diretto. Un tema del dialogo interconfessionale oggi deve prendere in esame il modo in cui le diverse tradizioni religiose considerano la giustificazione (o la mancata giustificazione) di un conflitto armato. Abbiamo menzionato ciò che la teoria cristiana della guerra giusta ha da dire in proposito. E’ possibile, per esempio, rimuovere la nozione di jihad dalla retorica estremista in modo che i musulmani la possano utilizzare per raggiungere un punto di accordo con i cristiani e altri sulle condizioni alle quali un intervento armato può ritenersi giustificato? Tale accordo, o almeno una convergenza, sarebbe di grande aiuto alla comunità internazionale quando si tratta di prendere decisioni difficili su casi particolari. Per questo motivo abbiamo parlato a sostegno di una strategia globale contro la militanza e della pacificazione su entrambi i versanti della linea Durand. Il coinvolgimento della comunità internazionale in Afghanistan deve condurre a una società civile forte e a uno stato di diritto. Le donne dovrebbero essere emancipate, le ragazze dovrebbero avere l’opportunità di ricevere un’istruzione e di vedere promossa la libertà di credo e di espressione. Dovrebbe esistere un governo credibile, sia a livello centrale che nelle province, che non tolleri la corruzione. In particolare, dovrebbe essere attuata una politica efficace contro le droghe che non penalizzi i coltivatori, ma impedisca agli estremisti di autofinanziarsi mediante il traffico illecito di stupefacenti. Barack Obama ha finalmente deciso di inviare altre truppe americane per garantire la sicurezza in aree cruciali dell’Afghanistan, tra cui importanti città come Kandahar, contro gli attacchi e l’occupazione. Anche le forze britanniche e altre forze Nato verranno potenziate. Seppur tardiva, questa decisione va accolta con favore e rassicurerà le tante persone in Afghanistan e Pakistan che l’hanno attesa con ansia. Naturalmente Obama è impegnato in un’attenta azione di equilibrismo: deve tenere in considerazione da un lato interessi Usa di vitale importanza, tanto internamente quanto all’estero, dall’altro la sua lobby influente e rumorosa contraria alla guerra. Pare che l’annuncio di una strategia di uscita contemporaneo all’aumento dei contingenti faccia parte di questo tentativo di accontentare tutti. Com’è stato fatto notare, tuttavia, si tratta di un approccio molto pericoloso. Offre ai talebani una data in cui la pressione su di loro inizierà ad allentarsi e saranno pertanto in grado di pianificare un incremento delle attività. Inoltre demoralizzerà ulteriormente i gruppi afghani antitalebani e anche coloro che in Pakistan hanno continuato a sostenere una politica antiestremismo nel paese. Si farà così più forte la tentazione per il Pakistan e gli altri poteri regionali di stabilire un accordo con i talebani. Va detto chiaramente che qualsiasi aumento dell’influenza e del controllo talebani, sia in Pakistan che in Afghanistan, non si tradurrà soltanto in un ulteriore deterioramento della sicurezza nella regione, ma colpirà anche, direttamente o indirettamente, gli interessi occidentali. Ancora una volta sarà possibile offrire un rifugio a coloro che pianificano di terrorizzare l’occidente e addestrare elementi dei paesi occidentali disposti a portare avanti il loro programma estremista nel mondo occidentale. E, non da ultimo, questo significherà riportare consistenti segmenti della popolazione che abita la regione in una condizione di prigionia, crudeltà e barbarie.

Amy Rosenthal : " “Le donne musulmane hanno il dovere storico di non portare il velo” "

In gran parte del mondo, donne musulmane di ogni età indossano con sempre maggiore frequenza il velo. Si tratta di un segnale che indica un crescente sentimento di devozione religioso o magari anche di un modo per affermare il proprio orgoglio musulmano? E, cosa ancora più importante, il velo garantisce veramente alle donne una libertà concreta e protezione da varie forme di molestie sessuali, come sostengono imam e accademici? “No”, dice al Foglio l’algerina Marnia Lazreg, professoressa di sociologia alla City University di New York, autrice del saggio “Questioning the Veil: Open Letters to Muslim Women” (Princeton University Press). A suo giudizio, “pensare al velo come a una specie di fede in azione è semplicemente sbagliato”. E spiega: “In nessun passo del Corano si considera il velo come una condizione che le donne devono necessariamente rispettare per dimostrare la propria accettaziione della fede islamica. Un elemento essenziale della cultura islamica sta nel fatto che la fede è considerata una questione personale tra l’individuo e la divinità. Negli ultimi due decenni però è successo il contrario. Alle donne musulmane viene detto che devono dimostrare al mondo di essere musulmane e che il solo modo per farlo è quello di indossare l’hijab. Il velo è così diventato un simbolo obbligatorio per dimostrare la propria appartenenza alla religione dell’islam. Così si riduce un’articolata religione monoteistica a un feticismo in contrasto con i principi dell’islam”. Il velo non favorisce la causa della liberazione delle donne. “Ha una lunga storia dietro di sé – dice Lazreg – una storia di discriminazione femminile che affonda le proprie radici nella sharia. Il velo è un riconoscimento dell’idea secondo la quale la biologia equivale al destino. Alla donna viene inculcato che il suo corpo è una fonte di vergogna e che deve essere occultato. Quando una donna indossa il velo, si pone in una condizione di inferiorità rispetto all’uomo. Inoltre le donne che indossano il velo in occidente non fanno che rendere la situazione ancora più difficile per quelle che lo devono portare per legge a Riad o Teheran, convalidando le forme di repressione cui queste sono sottoposte”. Lazreg rispetta le donne musulmane convinte che la loro salvezza sia messa a rischio se non portano il velo, ma si oppone “all’utilizzo come mezzo per definire la propria identità da parte di donne musulmane nate e cresciute in occidente”. Spiega: “Queste donne usano il linguaggio dei diritti individuali per giustificare l’utilizzo del velo in occidente come criterio identificativo della fede islamica. Ma indossare il velo non significa affatto il trionfo dell’islam sui propri detrattori. Non soltanto degrada l’islam al livello di una rozza credenza, ma impoverisce anche il suo valore umano”. Lazreg ritiene che “le donne abbiano il dovere storico di non portare il velo”, “il velo viene e va, a seconda dell’ascesa e del declino delle ideologie. Nel mio paese d’origine, l’Algeria, dopo avere dato un notevole contributo all’ottenimento dell’indipendenza dalla Francia nel 1962, molte donne smisero di portare il velo. Aveva perso il valore politico come forma di protesta e ribellione. Quell’epoca è oggi dimenticata; ciò che sta avvenendo è infatti l’affermazione di una concezione revisionista della storia delle donne nel mondo musulmano, in virtù della quale femministe e antropologi occidentali concludono che ‘non c’è nulla di sbagliato nel velo; fa parte della loro cultura e noi dobbiamo averne rispetto’. Bisogna tollerare le credenze e i costumi delle altre popolazioni, ma non si può prendere un capo d’abbigliamento come il velo e usarlo come criterio identificativo dell’islamicità delle donne”. Finché continuerà “a essere politicizzato e finché ci saranno stati che, come l’Iran, lo impongono per legge, o che invece, come la Francia, ne proibiscono l’uso, le donne musulmane non potranno esprimere indipendenza e autonomia di scelta. I loro diritti continueranno a essere discriminati”. Amy

" Il promemoria di Obama"

Il discorso di Barack Obama dopo l’attentato fallito sul volo Amsterdam- Detroit aveva lo stesso tono di quello pronunciato da George W. Bush dopo la strage delle Torri gemelle. Alcune frasi, l’impegno a cercare e colpire i responsabili dovunque si trovino, erano identiche. Il profilo politico, culturale, persino esistenziale del nuovo presidente è lontanissimo da quello del predecessore, i loro stili di comunicazione e di vita appaiono agli antipodi. Ma la funzione che esercita l’uno e ha ricoperto l’altro è la stessa e lo stesso è il nemico. Contro il terrorismo internazionale non esistono opzioni politiche alternative: o si fa tutto il possibile per estirparlo o si subisce il suo ignobile ricatto. L’America – dice oggi Obama, disse ieri Bush – farà “tutto quello che è in suo potere” nella lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamica. Non sono frasi dette per rassicurare un’America impaurita. E’ il richiamo a non archiviare, a non dimenticare, a mantenere la tensione morale necessaria per condurre una lotta che sarà ancora lunga, dura e sanguinosa. Obama ha parlato di un “promemoria” costituito dall’attentato recente, proprio per contrastare la tendenza all’assuefazione e alla rilassatezza che è naturale si propaghi dopo tanti anni. Chi pensa che la nuova Amministrazione americana possa gestire la stanchezza, avviandosi a una forma di transigenza verso il nemico, si sbaglia. Per fortuna, e per merito della fibra morale dell’America e dei suoi presidenti, non è così. Non ci sarà nessuna rilassatezza, nessun cedimento del tipo di quello che si impadronì dell’Europa quando si apprestava ad accettare una sorta di finlandizzazione di fronte all’aggressività sovietica. Le differenze di stile e le pericolose ricerche di dialoghi impossibili con dittature feroci sono particolari, peraltro già in via di correzione, di un quadro generale che resta ancorato alla responsabilità nazionale e internazionale di chi ha la guida della battaglia contro il terrorismo.

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