Ballata per la figlia del macellaio Peter Manseau
Traduzione di G. Bottali e S. Levantini
Fazi Euro 19,50
Figlio di una monaca e di un prete che hanno abbandonato i voti, Peter Manseau vanta una biografia indubbiamente eccentrica. Ma anche come scrittore non scherza, giacchè è riuscito – lui non ebreo – nella rimarchevole impresa di vincere con “Ballata per la figlia del macellaio” il prestigioso National Jewish Book Award.
Il vecchio porta occhiali “spessi come la tavoletta del gabinetto”. Dopo una lunga pausa di silenzio, si alza e ciabatta fino all’armadio, da cui estrae “una pila di grossi quaderni da contabile, con la copertina cartonata…ventidue libri mastri, ognuno contrassegnato da una consonante ebraica”. Quella che balza fuori dai volumi non è però contabilità, bensì l’enciclopedia di una vita, la puntigliosa autobiografia “del più grande poeta yiddish d’America”. Un mitomane, un illuso o un perdigiorno ? Itsik Malpesh è sicuramente tutto questo, ma quando gli si chiede come faccia a sapere di essere il più grande, la sua risposta è inconfutabile: “per essere il più grande è sufficiente essere l’ultimo”.
Non una storia ma due, incastrate una nell’altra. Il lettore viene coinvolto nel gioco, e spesso nel bisticcio, tra due generazioni, due mondi mentali, due lingue e un numero spropositato di lettere dell’alfabeto. Al poeta ebreo, che non la smette di raccontarsi, si contrappone un ragazzetto inesperto del mondo, ma abbastanza saputo per trovar sempre il modo di dire la sua. Ha studiato ebraico un po’ per caso, poi, soprattutto per far la corte a una ragazza, s’è ingolfato nello yiddish e così è finito al cuore della vicenda in veste di traduttore. E’ lui a sobbarcarsi il compito, quasi impossibile, di traghettare il manoscritto del poeta dall’aldilà dei ricordi verso la sponda del presente. E mentre volge dallo yiddish le peripezie di Malpesh, dalla Russia zarista dei pogrom alla Baltimora di un sogno americano finito in frantumi, il ragazzo maldestro si trasforma a poco a poco in archeologo dell’anima.
Manseau ha una sensibilità quasi morbosa per gli ibridi lessicali, per la zona indistinta in cui un idioma trascolora nell’altro, le parole capriolano da lingua a lingua, e le idee galleggiano su zattere di suoni in cerca di una cultura cui appigliarsi. D’altronde, è proprio il vecchio poeta yiddish a indicargli la via, visto che si è salvato dalle persecuzioni antiebraiche dell’Europa dell’est, e da mille disavventure nell’underworld americano, grazie alla sua fede incrollabile nel potere taumaturgico della parola. “Non solo sulla carta – racconta Itsik Malpesh – allora scrivevo sui vecchi sacchi di farina vuoti…sui pezzetti di legno delle cassette della frutta….nessun luogo era inadatto alla poesia, le matite funzionavano su tutte le superfici, ma andava bene anche il carbone raccolto tra le ceneri”.
Una simile pulsione a scrivere, anzi a graffiare di segni il mondo, porta ovviamente con sé una dismisura narrativa. La trama è fin troppo ricca, così che traspare un certo sforzo, negli episodi che combaciano esattamente e nelle entrate regolatissime dei personaggi. Si percepisce insomma, a tratti, il conflitto intimo dello scrittore, diviso tra la tentazione di abbandonarsi al gusto del paradosso e la necessità di non perdere il controllo della situazione.
Ma forse anche questo fa parte dell’apprendistato ebraico del non ebreo Manseau, ovvero l’imparare a proprie spese come, dietro all’incomprensibile labirinto della storia, si nasconda un Gan Eden fatto di parole, in cui tutti i destini si riannodano e riappacificano.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore