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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.12.2009 Guerra, se non crediamo più nel conflitto giusto
L'analisi di Angelo Panebiano

Testata: Corriere della Sera
Data: 27 dicembre 2009
Pagina: 32
Autore: Angelo Panebianco
Titolo: «Guerra, se non crediamo più nel conflitto giusto»

"Guerra, se non crediamo più nel conflitto giusto ", è l'analisi di Angelo Panebianco sul CORRIERE della SERA di oggi, 27/12/2009, a pag.32/33.
Un saggio, quello di Panebianco, di grande interesse, ben riassunto dll'occhiello che recita: " L'Europa ha molte ottime ragioni per appoggiare gli Stati Uniti nella lotta contro i talebani in Afghanistan, eppure quasi tutti i suoi governi (con l'eccezione dell'Italia) esitano a rafforzare il proprio impegno. Per miopia, disinteresse e timore dell'impopolarità ". Il fatto poi che non sia d'accordo con Avishai Margalit, ce lo rende ancora più interessante.
Ecco l'articolo:


Angelo Panebianco

Suscitando scandalo e costernazione fra i pacifisti, Barak Obama, nel suo discorso di accettazione del Nobel per la pace, ha rispolverato, riferendosi all’Afghanistan, l’idea della guerra giusta. In un certo senso, il più ovvio e superficiale, non poteva fare altro. Come altrimenti si possono giustificare le guerre che si stanno combattendo? In un altro senso, più profondo, l’evocazione della dottrina della guerra giusta mette in gioco molto di più. Rinvia a una serie stringente di condizioni che devono essere presenti perché l’uso della forza risulti necessario, e «giusta» possa essere definita la causa che si serve facendone uso. Come si conviene in un discorso di spessore, Obama ha fatto riferimento, sia pure rapidamente, a quelle condizioni.

La dottrina della guerra giusta venne forgiata dal pensiero cristiano medievale. Non serviva solo a prendere le distanze dal pacifismo incondizionato delle comunità cristiane delle origini. Da sant’Agostino a san Tommaso d’Aquino, fino a Francisco de Vitoria, lo scopo era soprattutto quello di limitare la guerra, di circoscriverla ai soli casi in cui non sussistessero altri strumenti per risolvere le controversie. I teologi cristiani individuarono allora una serie di condizioni la cui presenza consentiva di definire giusta una guerra. Occorreva che ci fosse una giusta causa. Essenzialmente, per il pensiero cristiano, una guerra era giusta solo se ricorrevano tre circostanze: doveva trattarsi di una guerra difensiva oppure di una guerra dichiarata allo scopo di riparare un torto e annullarne gli effetti o, infine, di una guerra punitiva, volta a sanzionare colui da cui si era ricevuto un danno. Quale che fosse il caso, inoltre, l’azione bellica doveva essere «proporzionata» (rispetto all’entità del danno o del torto). Originariamente opera di teologi, figlia del giusnaturalismo cristiano, la dottrina della guerra giusta venne ripresa da Ugo Grozio, convenzionalmente indicato, insieme a de Vitoria, come uno dei padri del moderno diritto internazionale. Grozio ne fece un elemento costitutivo di una concezione giusnaturalista dei rapporti fra gli Stati, in seguito adottata e perfezionata da numerosi epigoni. Nell’Ottocento, a causa del declino del giusnaturalismo e del trionfo del positivismo giuridico, la dottrina della guerra giusta venne abbandonata.

Dagli ultimi decenni del XX secolo ad oggi, essa conosce una nuova giovinezza. Ciò si deve alla forte ripresa delle tematiche giusnaturaliste in campo internazionale (l’odierna «dottrina dei diritti umani» ne è la più illustre espressione). Il discorso di Obama a Oslo si spiega anche alla luce di questi recenti sviluppi.

Obama non è la prima fra le «icone» della sinistra pacifista a deluderla richiamandosi agli argomenti sulla guerra giusta e, probabilmente, non sarà l’ultima. Qualcuno in Italia ricorderà lo scalpore che suscitò il filosofo Norberto Bobbio quando, all’epoca della prima guerra del Golfo (1991), con lo scopo di difendere l’intervento delle Nazioni Unite contro Saddam Hussein, fece ricorso proprio a quella dottrina. In certi suoi scritti precedenti, Bobbio ne era stato un critico severo: aveva contestato l’idea, propria dei teorici della guerra giusta, che fosse possibile trasformare la guerra in una sorta di procedimento giudiziario (volto alla punizione del reo) e, inoltre, aveva sostenuto la sua odierna improponibilità di fronte al rischio della guerra nucleare. Tuttavia, non esitò ad evocarla, ritenendo che in quel caso particolare ne esistessero le condizioni, a sostegno dello sforzo bellico contro l’Iraq.

Notiamo però l’importante differenza che corre fra la prima guerra del Golfo e l’attuale guerra di Afghanistan. È una differenza che riguarda soprattutto l’atteggiamento dell’Europa.

All’epoca della prima guerra del Golfo, come mostravano i sondaggi, erano tanti (e diventarono schiaccian-

te maggioranza a guerra conclusa) gli europei in sintonia con Bobbio, ossia disposti a condividere, pur essendo per lo più ignari delle sottigliezze della dottrina della guerra giusta, l’idea che l’intervento armato contro il dittatore che si era impadronito del Kuwait fosse doveroso e legittimo. Possiamo dire la stessa cosa per l’attuale guerra in Afghanistan? A giudicare dai sondaggi sembra proprio di no.

L’opinione pubblica europea pare oscillare sull’Afghanistan fra l’indifferenza e l’aperta avversione (che si acutizza quando cadono in combattimento o in imboscate soldati europei). L’atteggiamento delle opinioni pubbliche influenza i comportamenti della maggior parte dei governi e ne è a sua volta influenzato. La Gran Bretagna è impegnata in Afghanistan dall’inizio dei combattimenti e ha pagato un alto tributo di sangue. Oggi il suo governo deve fronteggiare una opinione pubblica interna nettamente contraria alla guerra. La Germania partecipa (con scarsissimo entusiasmo fin dall’inizio) con una missione che ha compiti solo difensivi e, dopo il disastro provocato dal suo contingente a Kunduz il 4 settembre (quando vennero bombardati dei civili), si sgancerebbe volentieri dal conflitto, se ciò non la esponesse a una grave crisi nei rapporti con l’alleato americano. Anche la Francia del decisionista Sarkozy boccheggia, esclude l’invio di altre truppe combattenti, e prende comunque tempo di fronte alla richiesta pressante di Obama di rafforzare la presenza francese. Fra i governi dei grandi Paesi europei solo quello italiano sembra ancora deciso a svolgere fino in fondo la sua parte (il nostro è anche il primo governo che abbia risposto positivamente alla richiesta Nato di inviare più truppe: altri mille soldati verranno dispiegati nel 2010). Aggiungo che in Afghanistan, nonostante le difficoltà del quadro interno, l’Italia si è comportata molto bene sia sotto il precedente governo Prodi sia sotto l’attuale governo. Ma anche in Italia si deve fare i conti con un’opinione pubblica il cui consenso alla guerra, benché più forte che in altri Paesi, era e resta precario. Plausibilmente, l’opinione degli italiani verrà alla fine influenzata dall’orientamento che prevarrà nel resto d’Europa. I rimanenti Paesi europei, infine, o hanno contingenti troppo piccoli o si tengono alla larga dai combattimenti.

Quando il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, dichiara che in Afghanistan «si perde o si vince tutti insieme», sta palesemente ricordando agli europei che la guerra in Afghanistan non riguarda solo gli americani.

Perché, contrariamente a Obama e a Rasmussen, la maggior parte degli europei non sembra considerare quella afghana una guerra che si debba combattere e vincere «tutti insieme»? Perché, nel caso dell’Afghanistan, evocare la guerra giusta non serve a motivare gli europei?

Le ragioni sembrano essenzialmente tre. La prima ha a che fare con le valutazioni diffuse sulle possibilità di successo occidentale nella guerra. Queste possibilità non appaiono molto elevate nemmeno ora, dopo la decisione di Obama di inviare altri trentamila uomini in Afghanistan. Le guerre asimmetriche, ossia le guerre nelle quali eserciti convenzionali si scontrano con movimenti di guerriglia che possono contare sul consenso di una parte della popolazione, sono difficilissime da vincere. Quando la vittoria appare tutt’altro che certa, le opinioni pubbliche democratiche si ritraggono, cercano una via di fuga.

La seconda ragione ha a che fare con il fatto che l’Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, si è abituata a «consumare sicurezza» (fornita dagli Stati Uniti). Non è ancora convinta (se mai lo sarà) che sia suo compito «co-produrre» sicurezza (al fianco degli Stati Uniti). «Giusta o sbagliata che sia quella guerra — sembrano pensare molti europei e anche molti governi — che se la sbrighino gli americani. Obama o non Obama, sono loro la superpotenza, tocca a loro occuparsi delle rogne». D’altra parte, non ci siamo inventati l’idea dell’Europa «potenza civile» (anziché militare) proprio in polemica con gli Stati Uniti e proprio per sottolineare il fatto che l’esperienza della guerra non ci appartiene più?

La terza ragione, forse la più importante, ha a che fare con l’inesistenza di una chiara percezione della posta in gioco. Essa non è compresa da tanti europei (e, a quanto dicono i sondaggi, neanche da molti americani). In Afghanistan, l’America si gioca la sua leadership mondiale. Noi europei ci giochiamo la nostra sicurezza (fisica, prima di tutto, ma anche politica). Appare infatti assai verosimile l’idea secondo cui una vittoria talebana in Afghanistan porterebbe con sé una valanga di conseguenze negative sia per il mondo musulmano che per l’Europa. Quella vittoria travolgerebbe presumibilmente anche il Pakistan e ridarebbe vigore al jihad ovunque, dal Medio Oriente all’Indonesia, dal Maghreb all’Africa subsahariana. Anche le cellule terroriste dormienti in Europa, probabilmente, si risveglierebbero, la guerra santa ci arriverebbe presto in casa. Siamo infatti noi, molto più dell’America, la prima linea del fronte, il territorio più esposto del Dar al-Harb (ossia, della «dimora della guerra», dove vivono gli infedeli da combattere e sottomettere secondo l’insegnamento del profeta). Terrorismo a parte, più in generale, l’islam fondamentalista, che è già ben radicato in Europa, conseguirebbe un importante vantaggio politico-propagandistico da sfruttare nei suoi rapporti con una società europea sempre più intimidita e frastornata. Tenuto conto, per giunta, come ha osservato Giovanni Sartori («Corriere della Sera», 20 dicembre), dei grandi ostacoli che già oggi incontrano i tentativi europei di integrare gli immigrati musulmani.

Chi pensa che questa interpretazione sia eccessivamente pessimista ricorda l’errore di valutazione commesso dagli americani all’epoca della guerra del Vietnam. Nonostante i pronostici dell’epoca, la cosiddetta «teoria del domino» si rivelò sbagliata: il ritiro americano dal Vietnam non portò con sé la caduta in mani comuniste della maggior parte dei Paesi asiatici filoccidentali. Bisogna però ricordare che, teoria del domino a parte, la sconfitta americana indebolì gravemente la posizione internazionale degli Stati Uniti e mise per diversi anni l’insieme del mondo occidentale sulla difensiva a fronte dell’aggressività sovietica. Fu solo con l’avvento della presidenza di Ronald Reagan (1980) che il mondo occidentale riacquistò fiducia in se stesso e nuova capacità di tenere testa all’Unione Sovietica, e ai movimenti ad essa legati, nei diversi scacchieri, Europa inclusa.

Ciò che non è affatto chiaro alle opinioni pubbliche europee, insomma, è che non siamo, o non dovremmo essere, in Afghanistan col solo scopo di compiacere gli americani.

Avishai Margalit («Corriere della Sera», 13 dicembre) ha sostenuto che fra le condizioni che rendono giusta una guerra c’è anche l’aspettativa di successo, di vittoria. Non sono d’accordo. Margalit commette l’errore di mettere insieme mele e pere, di mescolare un argomento «realista» (quanto è probabile la vittoria?) con una dottrina che, nella sua essenza, resta normativa o prescrittiva. Margalit, cioè, incorre in un errore logico: pretende di confutare un giudizio di valore usando un giudizio di fatto. Una guerra è giusta o ingiusta, alla luce della dottrina, a prescindere da considerazioni sulle probabilità di successo. È invece vero il fatto che, insieme a una diffusa consapevolezza della posta in gioco, l’aspettativa di vittoria serve amotivare i Paesi combattenti. Ha ragione Obama: la guerra in Afghanistan ha le caratteristiche della guerra giusta. Ma le democrazie perdono le guerre, anche quelle giuste, quando non riescono a convincere le opinioni pubbliche.

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