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Pubblichiamo la prima parte degli auguri di Gioachino Belli & Luciano Tas. Giuseppe Gioachino Belli è un personaggio straordinariamente moderno e attuale che ha nell’humour particolare e raffinato dei suoi versi, pure apparentemente sguaiato e sboccato (mai però volgare), una cifra personale, inconfondibile e “universale”. Un tale personaggio non poteva ignorare la presenza ebraica a Roma e non rendersi conto delle penose condizioni, anche se colorite e vitali, degli ebrei nel Ghetto. A volte Gioachino si riferisce agli “abbrei” interpretando gli umori popolari, così come li interpreta quando parla dei “giacubbini”. Umori che Belli rappresenta nella loro realtà e non in certe rappresentazioni oleografiche che vorrebbero quegli umori già quasi risorgimentali e magari rivoluzionari. Macchè. La plebe romana del suo tempo era conservatrice e reazionaria, ostile sì ai potenti, nella fattispecie pontifici, ma sotto sotto desiderosa di mantenerli al loro posto per non perdere quel pochissimo di cui godevano. Belli non manca di intingere la sua penna ironica e caustica nelle magistrali ricostruzioni della vita del tempo a Roma, ma sempre con una sorta di ruvida simpatia per i popolani, per i Rugantini senza riscatto finale, unita a una strizzata d’occhio. Di questa trentina di sonetti “ebraici”, la maggior parte costituisce “la Bibbia vista da G.G. Belli”. Una seconda parte si può invece chiamare “il Ghetto visto da G.G. Belli” e infine un sonetto che non è propriamente “ebraico”, ma la cui universalità non può non toccare le corde ebraiche. E’ un sonetto straordinario, e per il suo “tema” (nientemeno che “Er giorno der Giudizzio”) pareva giusto metterlo alla fine della breve cavalcata in terra belliana, anche perché il primo sonetto qui proposto proprio al Giudizio Universale si riferisce. Nei primi tre sonetti presentati – stato d’innocenza uno, due e tre – si apre la storia del mondo con la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Una storia vista con gli occhi dello sprovveduto e semplice (ma nemmeno tanto) cittadino di Roma papale. Il personaggio è un popolano ignorante e furbo. Rimpiange che se non fosse stato per quel “pomo” non ci sarebbero stati “né morte né peccato” e quindi tutti a letto, e non per dormire. Non ci sarebbe alcun giudizio universale, e Dio avrebbe avuto solo da allargare un po’ il mondo per farci entrare tutti, e saremmo davvero tanti. Poi Belli, passando dal pomo al fico come simbolo del peccato originale, si chiede che cosa succederebbe senza l’esistenza del peccato. Non si morirebbe dunque mai? E il pane e il vino a che servirebbero, dato che non ci sarebbe più bisogno di mangiare? Ci si potrebbe prendere tranquillamente “a cazzotti o a corbellate”? Non peccherebbe nessuno? E che ne sarebbe del libero arbitrio? E che ne sarebbe di quelli che cadono da un precipizio? Lo stato d’innocenza (937) Senz’Eva e Adamo, e senza er pomo entrato L’omo averebbe seguitato E come all’omo, la medema sorte E invece der giudizio universale, Lo stato d’innocenza (II) (938) Dico, faccia de grazzia, sor Abbate: ciovè, quanno la gente che so nate Come?! Gnisuno peccherebbe?! Be’, lassamo er menà, levamo er vizzio: Lo stato d’innocenza (III) (939) Si pe’ qualunque buggera gnisuno Lei, sor Abbate, ha da capì che ognuno E come crescerebbe uno a crocetta? Ma quer che preme è de sapè er distino Dopo Adamo ed Eva non poteva che esserci Caino e Abele, anzi, più Caino che Abele. E’ sempre il popolano di Roma che si costruisce la scena, con Dio che dialoga a tu per tu con Caino e finisce per condannarlo – vai, gli dice, “cristianaccio” – per le strade del mondo e a piangere sulla luna. Poi il popolano s’interroga. Come faceva Caino a sapere che a picchiare qualcuno si può ucciderlo, visto che la morte non c’era ancora? E conclude che dal peccato di mangiare un fico (ancora il fico!) per ghiottoneria discende che la voglia di ammazzare c’è già dalla nascita. E quindi… Poi, anticipando il movimento “Non toccate Caino”, se ne assume la difesa e premette di non volerlo difendere, ma via, dice, a vedere che Dio rifiutava sempre le sue offerte e accettava invece quelle di Abele, si può capire che, con l’aiuto del vino, questa ingiustizia gli inacidiva il fiele “e allora, amico mio, taja ch’è rosso”, come usavano dire i venditori di cocomeri. Er Zignore e Caino (1146) "Caino! indov'è Abbele?" E quello muto. "Te lo dirò dunqu'io, baron futtuto: Lévemete davanti ar mi cospetto: E doppo avé girato a una a una Er ziconno peccato (1147) Ch’er zor Caino doppo er fatto d’Eva La gran difficoltà ch’io tiengo in mente Prima de quella su’ bricconeria Volemo dunque dì che dar peccato Caino (180) Nun difenno Caino io, sor dottore, Capisch’io puro che agguantà un tortore Ma quer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle a un omo come noi de carne e d’osso Sempre proseguendo nella lettura belliana della Bibbia, eccoci ad Abramo e a quel sacrificio d’Isacco che tanto ha sempre fatto discutere. Abramo vuole fare un sacrificio rituale a Dio (ojocaustico). Prende un asino marchigiano e dice al figlio di prendere un’ascia e di prepararsi a un sacrificio di cui ancora non deve sapere nulla. Arrivati al luogo indicato, Abramo annuncia a Isacco che l’oggetto del sacrificio è proprio lui. Ma ecco che sul più bello appare un angelo che gli ferma la mano, dicendogli che Dio ha voluto metterlo alla prova. Così il sacrificio si compie su una pecora e “la pecora morì, fu sarvo Isacco”. E la pietra su cui doveva compiersi il fattaccio è a Roma, a Borgo Nuovo, naturalmente in una chiesa. Er zagrifizzio d'Abbramo (757/8/9) I La Bibbia, ch'è una spece d'un'istoria, Pijò dunque un zomaro de la Marca, Poi chiamò Isacco, e disse: "Fa' un fascetto, saluta mamma, cercheme er cappello; II Doppo fatta un boccon de colazzione "Semo arrivati: alò", disse er vecchione, Saliva Isacco, e diceva: "Papà, Ma quanno finarmente furno sù, III "Pacenza" dice Isacco ar zu' padraccio, "Fermete, Abbramo; nun calà quer braccio", Inzomma, amici cari, io già sò stracco e quella pietra che m'avete intesa Viene poi la storia di Giuseppe venduto in Egitto dai fratelli “per quattro stracci e un rotolo di suola”. In Egitto Giuseppe – er zor Peppetto – fa fortuna presso il Faraone, ma la sua padrona, vedendolo belo grande e grosso, lo concupisce e un giorno quando Giuseppe le porta dell’acqua calda, se la trova “sur Zofà senza camicia”. Ma Giuseppe trova il modo di filarsene via. Da Giuseppe alla schiavitù degli ebrei in Egitto il passo è breve. Un Faraone “re dei farabutti” voleva che gli ebrei fossero schiavi o morti. Ma Mosè, “che pareva Bonaparte”, li salva tutti facendogli passare il Mar Rosso “a pied’asciutti”. Tutto bene, ma è in terra che cominciano i guai, perché è comunque una gran fregatura passeggiare per quaranta anni nel deserto “a stasse a fregà l’orbo”. E dopo? Dopo c’è Giosuè che ferma il sole, e poi ancora Gedeone che con trecento “giudii” armati solo di pentole e torce riescono a fare tanta paura ai nemici da farli venire “giù come ricotte”. Che imparino questi eserciti “cojoni” che vanno in guerra a sprecare tanti cannoni! Giusepp’ abbreo (I) (95) Certi mercanti, doppo ditto: aèo, “Cazzo! qui c’è un pivetto pe san Gneo, L’asciutteno a la mejo cor un panno, E doppo, in cammio de portallo a scòla, Giusepp’ abbreo (II) (96) In capo a una man-d’anni er zor Peppetto Ce partiva cor lanzo de l’occhietto, Eccheta ‘na matina che a sta cicia Che fa era cazzaccio! Butta lì la pila; Li giudii de l'Egitto (619) Faraone era un re de sti frabbutti Ma Mosè, che pareva Bonaparte, Nell'acqua annò benone, sor Giuvanni, Ar meno è una gran buggera de certo Er calzolaro dottore (555) Ma come s’ha da dì: gira la terra Pe raggionà cusì ce vò una sferra Quanno che me dirai che pe st’arresto qua la raggione è tua: perché er divario La battaja de Gedeone (1375) Li trecento giudii de Gedeone Arrivati poi llà, come che sfila Quanno tutù, tutù, le pile rotte, E mo’ tutti st’eserciti cojoni Gioachino non dimentica Davide che “il braccio di Dio” manda, gracilino com’è, a sfidare quel “buggiarone” di Golia. Ma Davide vince perché Dio benedetto vuole mostrare a tutta la Giudea che “chi è divoto de Gesù e Maria”, come appunto Davide, può battersi da pari a pari con un gigante. Tanto è vero che “grazie alle anime sante e alla Madonna” Davide “lo fece cascà giù come un pupazzo”. E quanto al famoso “giudizio di Salomone”, a chi gli chiede se il grande re non avrebbe fatto prima a guardare nei registri del curato il giorno e l’anno della nascita del bambino conteso, il popolano risponde: Er duello de Davide (720) Cos'è er braccio de Dio! mannà un fischietto Eppuro, accussì è. Dio benedetto Ar vede un pastorello co la fionna, Ma er fatto annò ch'er povero regazzo, Er zanto re Dàvide (725) Chi vò sapé er re Dàvide chi fu, Chi poi quarch'artra cosa vò sapé, E a chi nun basta de sapé sin qui, e imparerà ch'er re carciofolà Er gran giudizzio de Salamone (188) Tu inzomma te lo spenni pe sbrillacco Tramezzo a du’ donnacce cannarone, Perché, tu dichi, nun guardò ar casato Ecco mò indove io te darebbe er pisto! Sempre attento lettore della Bibbia, Belli racconta all’amico Paolo (“Pavoluccio mio”) la storia di Giuditta che prima cena con Oloferne, poi lo fa bere, mangiare e “schiumare la marmitta”, poi con un colpo degno di Mastro Titta, il famoso boia pontificio, gli stacca la testa e la va a mostrare al suo popolo “giudio” che da Oloferne era minacciato. Ed ecco come, caro Paolo, si può scannare la gente per la fede e “fà la vacca pe dà grolia a Dio”. La bella Giuditta (213) Dice l’Abbibbia Sagra che Giuditta che appena j’ebbe chiuse le lenterne e che, agguattata la capoccia, agnede Ecchete come, pavoluccio mio, Finite le letture della Bibbia, il salto è di parecchi secoli fino ad arrivare ai tempi di Giuseppe Gioachino Belli, che comincia con il rievocare un fatto vero, cioè quello del prestito del grande banchiere ebreo Rothschild al Papa. Il popolano lamenta: Er prestito de l’abbreo Roncilli (319) Ma eh? Gessummarìa! che monno tristo! Uh riarzassi la testa papa Sisto Nun ciavete perdio tanto de zecca E co tutto sto scànnelo futtuto E’ poi la volta delle famigerate corse del passato, quelle in cui a Carnevale si costringevano gli ebrei a umilianti gare nel quartiere di Testaccio e nei pressi del Colosseo (senza contare Piazza Navona), con la gente che si divertiva a prendere a bacchettate gli ebrei per farli correre più velocemente. E stupendamente conclude Belli che in tal modo la corsa diventava più divertente, e ricorda come la corsa l’avesse inventata un Papa “in memoria e in onore della flagellazione di Gesù Cristo”. Belli ricorda anche l’altrettanto umiliante usanza del primo giorno di Carnevale di convocare una delegazione di ebrei in Campidoglio per far giurare obbedienza alle leggi “e manate” dal Senato e dal Popolo Romano e poi congedarli con un calcio. Le curze d'una vorta (722) Antro che robbi-vecchi! antro ch'aéo! dice ch'er Ghetto adeso dà li palj Pe falli curre, er popolo rmano E sta curza, abbellita a sto pisto, L'omaccio de l'Ebbrei (944) Ve vojo dì una buggera, ve vojo. e presentato er palio prencipale Sta moral'è ch'er Ghetto sano sano De quelle tre perucche incipriate, Ma come andò quando Tito, dopo avere mosso guerra “al popolo giudio” e castigarlo per avere ammazzato il Signore, rapinò tutta la “robba de valore” e fece costruire a Roma un arco trionfale? Sotto l’arco dovettero sfilare gli ebrei fatti prigonieri che ora però, dice Belli, gli ebrei si farebbero ammazzare prima di passarci sotto. E di fatto gli ebrei non sono passati più sotto l’Arco di Tito fino al 15 maggio del 1948 quando vi festeggiarono la rinascita dello Stato ebraico. Campo Vaccino (III) (40) A quer tempo che Tito imperatore, lui ridunò la robba de valore, E poi scrivette a Roma a un omo dotto, Si ce passònno li Giudii! Sammarco! Campo Vaccino (IV) (41) Sto cornacopio su le spalle a quello quello è er gran Cannelabbro de Sdraello, Mò nun c’è più sto Cannelabbro ar monno. Lo vòi sapé lo vòi dov’arimane? Il popolano romano poteva essere antisemita come tutti, ma in fondo forse non lo era, tanto che “Zì Checca” per dare buoni consigli al nipote che frequenta cattive compagnie, gli suggerisce di prendere esempio dagli ebrei, che sono “più cristiani” e di frequentarli perché il detto dice ”Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Ma, attenzione, Gioachino fa la morale a un giovanotto un po’ scapestrato e peggio, e lo sconsiglia di andare a cercarsi le puttane del ghetto, sia perché ce ne sono tante cristiane, sia perché a Roma su una dozzina di donne ce ne sono otto o dieci pronte a “guarnirgli il letto”. Una notevole percentuale. E poi: “vuoi scopare? Scopati le tue cristiane, così eviti di offendere Dio, spendendo anche poco”. E rafforza l’ammonimento ricordandogli che toccare le donne degli ebrei è peccato, e se lo fa morirà scomunicato. Il popolano del Belli, nel rivolgersi a un immaginario interlocutore, premette ne “Le scuse de Ghetto” che “io odio li Giudii peggio de te”, naturalmente per avere crocifisso Gesù, ma… ma… qualcosa l’ebreo dice a sua discolpa (e Gioachino sembra riflettere su queste “scuse”) che se Gesù era sceso sulla Terra proprio per morire (Gesù “non poteva non saperlo” data la sua posizione), allora per forza doveva esserci anche qualcuno ad ammazzarlo. E dunque… Poi Belli immagina anche un incontro tra un ebreo e un cristiano, il quale contesta al primo: “Se tu dici che i Comandamenti sono uguali in tutti e due i Testamenti, perché non ti fai cristiano?”. Ma Mosè gli risponde che quelli del suo interlocutore “nun zo boni funnamenti”, non sono osservazioni convincenti. Noi, dice l’ebreo, adoriamo Dio-padre e il padre comanda su tutti i parenti fino a quando muore. E anche se ha fatto testamento, il figlio gli deve sempre obbedienza e se questo gli dà fastidio, ha torto. Quindi, conclude, il vostro Gesù ha un padre, e dunque mi stupirei che tale padre – che noi adoriamo - volesse mandarci tutti all’inferno. Zì Checca ar nipote ammojato (72) Dico ‘na cosa che nun è bucia… Nun c’è antro che gioco, arme, ostaria, Sempre compagni! e che schiume, fratello! Pe ‘gni cantone ne tiè cinqu’o sei: Nono, nun desiderà la donna d’antri (848) Forze a Roma ciamàncheno puttane Qua per ogni duzzina de romane Eppuro tu sei battezzato, sei: E una vorta ch’hai fatto sto peccato, Le scuse de Ghetto (1508) In questo io penzo come penzi tu: Chi ripescassi poi dar tett’in giù Defatti, diice lui, Cristo partì Dunque, seguita a dì Baruccabbà, Li du’ testamenti (1543) “Ecco”, io disse ar giudio: “si piano piano “Badanài, nun zo boni funnamenti”, Sino ar giorno ch’un padre nun è morto, Er vostro Jesucristo ha er padre eterno: La simpatia che Belli ha per gli ebrei è palese nel suo “La morte del Rabbino”, che in vita era stato tanto amico del Papa. Tanto che il Papa aveva “pianto a gocce” alla notizia della morte dell’amico Rabbino. E tanto erano amici che se fosse vissuto ancora un po’ forse avremmo visto il Rabbino diventare cristiano, o il Papa farsi ebreo. La morte der Rabbino (1544) E’ ito in paradiso oggi er Rabbino, Era amico del Papa: anzi perzino Dunque a la morte sua Nostro Signore Si campava un po’ più, te lo dich’io, Il “Passo della Giustizia” è di feroce ironia. Di due malfattori condannati a morte, uno è graziato perché “è un abbreo fatto cristiano”. E quello giustiziato che ha fatto? Ha ammazzato un contadino, caro “Mastro Giujano”. E l’altro, quello graziato? Quello ha scannato la moglie con il rasoio. Sarà stata una “scalandrona” (vecchia grassona)? Macché, era giovane, carina, buona… E allora perché l’ha ammazzata? Perché non voleva mantenerlo facendo la puttana. Ma essersi convertito ha cancellato ogni colpa. Tanta è la potenza della conversione. Er passo de la giustizia (2097) - E che nova? uno solo è er malfattore! - E ch’ha fatto, se sa, questo che more? - Sarà stata ‘na brutta scalandrona… - Be’, e perché la scannò? – Tanto te scotta? Si è cominciata questa breve selezione con un riferimento al Giorno del Giudizio. E si chiude proprio con “Il Giorno del Giudizio”, uno dei sonetti più forti e straordinari di Giuseppe Gioachino Belli. Già l’attacco, “Quattro angioloni co le tromme in bocca”, ha una solenne e cupa sonorità. E la fila di scheletri che stanno per riprendere le loro figure di persone e si avviano “a pecorone” a ricevere la sentenza di Dio, ha una folgorazione di rara potenza, con quel dividersi – una parte bianca e una nera – per andare chi in cantina e chi al tetto. Mentre alla fine una schiera di angeli “smorzeranno li lumi, e bonasera”. Il silenzio e di nuovo la notte eterna. E’ il ritratto dantesco della valle di Giosafat. Er giorno der Giudizzio (273) Quattro angioloni co le tromme in bocca Allora vierà su una filastrocca E sta biocca sarà Dio benedetto, All’urtimo uscirà ‘na sonajera d’angioli, |
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