Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/12/2009, a pag. 16, l'articolo di Fareed Zakaria dal titolo " «L’altra guerra» da non dimenticare. Dall'Iraq arrivano segnali positivi ".
Dall'Iraq arrivano segnali positivi. Ma Fareed Zakaria non specifica mai che il merito della liberazione dell'Iraq dal regime di Saddam Hussein non è della tanto lodata amministrazione Obama, ma di quella Bush. Perchè?
Ecco l'articolo:

Fareed Zakaria
Ricordate l’Iraq? Per mesi la nostra attenzione è stata rivolta all’Afghanistan, e di sicuro nel 2010 i media seguiranno da vicino l’evoluzione del surge. Il prossimo anno potrebbe essere però ancor più importante per l’Iraq. A marzo si terranno elezioni che ne determineranno il futuro politico. A queste seguiranno probabilmente mesi di mercanteggiamenti parlamentari, che potrebbero provocare un ritorno alla violenza. Gli Stati Uniti hanno ancora in Iraq 120 mila soldati, che, secondo i piani, dovranno andarsene entro agosto, mettendo ancor più alla prova la capacità del Paese di gestire la propria sicurezza. Il ritiro dall’Iraq è altrettanto critico dell’escalation in Afghanistan: se gestito male, potrebbe essere un disastro. Se ben gestito, potrebbe invece dar luogo a un successo significativo. Facciamo qualche passo indietro. Sul piano militare il surge in Iraq è stato un successo. Ha sconfitto una pericolosa insurrezione, ha ridotto in maniera sostanziale la violenza e ha stabilizzato il Paese. L’obiettivo del surge era però, secondo l’impostazione di Bush, quello di dare ai leader iracheni la possibilità di risolvere i loro maggiori contrasti politici. Erano soprattutto queste divisioni— in particolare quelle tra sunniti e sciiti — a fomentare la guerra civile. Se non avessero trovato soluzione, la guerra avrebbe potuto benissimo ricominciare o assumere un’altra forma, condannando l’Iraq alla disintegrazione o al collasso. Le divisioni politiche dell’Iraq sono tuttora irrisolte. La situazione di maggior tensione rimane il conflitto tra gli sciiti, maggioritari, e i sunniti, una minoranza che tradizionalmente è stata l’élite del Paese. L’indicazione più evidente che i problemi tra queste due comunità sono ancora aperti è il fatto che ben pochi dei due milioni di iracheni fuggiti all’estero tra il 2003 e il 2007— in gran parte sunniti— sono tornati (è difficile stimare esattamente il numero dei rientri, ma fino a quest’estate erano poche decine di migliaia). Questo mese l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati ha confermato che l’Iraq rimane un luogo pericoloso per gli appartenenti ai gruppi di minoranza, che pertanto non devono essere costretti a tornare. In Iraq i sunniti sono ancora politicamente emarginati, e sono in aumento le tensioni con i curdi, che amministrano una sorta di Stato autonomo nel nord del Paese. I curdi controllano tre delle province irachene, ma rivendicano anche tre importanti città che hanno una popolazione mista, appena fuori dei loro confini. Stanno inoltre ignorando deliberatamente l’autorità del governo centrale nella stipula di contratti per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Hanno negoziato per proprio conto 30 accordi separati in materia e bloccato l’afflusso di petrolio al di fuori della zona curda. A questi problemi si aggiungono le dispute sulla definizione dei confini e sulle regole per le elezioni. La soluzione è facile da enunciare, ma estremamente difficile da mettere in atto. L’Iraq ha bisogno di un accordo stabile di condivisione del potere che impegni tutti e tre i gruppi nella costruzione del nuovo Paese. Perché questo avvenga, tutti dovranno accettare dei compromessi, e gli Stati Uniti possono avere un ruolo importante in proposito. Nei primi anni dell’occupazione, l’amministrazione Bush non spinse mai abbastanza per costringere il governo iracheno a trovare un accordo. Fu un errore storico, perché allora gli Stati Uniti avevano un peso enorme nella politica irachena. Anche in seguito l’amministrazione Bush evitò di fare pressioni in questo senso sull’Iraq, e si comportò nello stesso modo anche nelle relazioni con l’Afghanistan e il Pakistan. Gli Stati Uniti continuano comunque ad avere una notevole influenza in Iraq. Da quanto si sa, la diplomazia statunitense è stata fondamentale nel far accettare ai curdi le elezioni di marzo. Si dice che Obama abbia chiamato il leader curdo Massoud Barzani e l’abbia sollecitato a far cadere le sue obiezioni, rimovendo così l’ultimo ostacolo. Mentre le truppe americane si ritirano, la diplomazia americana dovrebbe continuare a spingere con determinazione i tre gruppi a risolvere i problemi legati alla condivisione del potere. I costi della guerra irachena sono stati alti e sono probabilmente indifendibili, ma l’Iraq potrebbe ancora rivelarsi un modello straordinario per il mondo arabo. Il popolo sta cercando di gestire le sue divisioni in modo prevalentemente pacifico; la politica sta diventando sempre più pluralista e democratica; la stampa è libera; le province hanno autonomia; nel Paese si è ora più interessati agli affari e alla creazione di ricchezza che alle questioni religiose e alla jihad. Nel 2010 l’amministrazione Obama avrà la possibilità di consolidare questi risultati.
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