Pubblichiamo la prima parte degli auguri di Gioachino Belli & Luciano Tas.
Contiene la parte in romanesco. Domani pubblichiamo la seconda parte, con i testi in italiano.
Gioachino Belli, Luciano Tas
Giuseppe Gioachino Belli è un personaggio straordinariamente moderno e attuale che ha nell’humour particolare e raffinato dei suoi versi, pure apparentemente sguaiato e sboccato (mai però volgare), una cifra personale, inconfondibile e “universale”. Un tale personaggio non poteva ignorare la presenza ebraica a Roma e non rendersi conto delle penose condizioni, anche se colorite e vitali, degli ebrei nel Ghetto. A volte Gioachino si riferisce agli “abbrei” interpretando gli umori popolari, così come li interpreta quando parla dei “giacubbini”. Umori che Belli rappresenta nella loro realtà e non in certe rappresentazioni oleografiche che vorrebbero quegli umori già quasi risorgimentali e magari rivoluzionari. Macchè. La plebe romana del suo tempo era conservatrice e reazionaria, ostile sì ai potenti, nella fattispecie pontifici, ma sotto sotto desiderosa di mantenerli al loro posto per non perdere quel pochissimo di cui godevano. Belli non manca di intingere la sua penna ironica e caustica nelle magistrali ricostruzioni della vita del tempo a Roma, ma sempre con una sorta di ruvida simpatia per i popolani, per i Rugantini senza riscatto finale, unita a una strizzata d’occhio. Di questa trentina di sonetti “ebraici”, la maggior parte costituisce “la Bibbia vista da G.G. Belli”. Una seconda parte si può invece chiamare “il Ghetto visto da G.G. Belli” e infine un sonetto che non è propriamente “ebraico”, ma la cui universalità non può non toccare le corde ebraiche. E’ un sonetto straordinario, e per il suo “tema” (nientemeno che “Er giorno der Giudizzio”) pareva giusto metterlo alla fine della breve cavalcata in terra belliana, anche perché il primo sonetto qui proposto proprio al Giudizio Universale si riferisce.
Nei primi tre sonetti presentati – stato d’innocenza uno, due e tre – si apre la storia del mondo con la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Una storia vista con gli occhi dello sprovveduto e semplice (ma nemmeno tanto) cittadino di Roma papale. Il personaggio è un popolano ignorante e furbo. Rimpiange che se non fosse stato per quel “pomo” non ci sarebbero stati “né morte né peccato” e quindi tutti a letto, e non per dormire. Non ci sarebbe alcun giudizio universale, e Dio avrebbe avuto solo da allargare un po’ il mondo per farci entrare tutti, e saremmo davvero tanti. Poi Belli, passando dal pomo al fico come simbolo del peccato originale, si chiede che cosa succederebbe senza l’esistenza del peccato. Non si morirebbe dunque mai? E il pane e il vino a che servirebbero, dato che non ci sarebbe più bisogno di mangiare? Ci si potrebbe prendere tranquillamente “a cazzotti o a corbellate”? Non peccherebbe nessuno? E che ne sarebbe del libero arbitrio? E che ne sarebbe di quelli che cadono da un precipizio?
Lo stato d’innocenza (937)
Senz’Eva e Adamo, e senza er pomo entrato
in quelle inique du’ golacce jotte,
pe noi poveri fiji de mignotte
nun ce sarìa né morte né peccato.
L’omo averebbe seguitato
a fotte qualunque donna ch’avessi incontrato,
e er monno sarìa tutto popolato
da mezzogiorno inzino a mezzanotte.
E come all’omo, la medema sorte
sarìa puro toccata a ogn’animale,
pe nun mette l’esempio de la morte.
E invece der giudizio universale,
sarìa venuto Iddio parecchie vorte
a dà una slargatine ar materiale.
Lo stato d’innocenza (II) (938)
Dico, faccia de grazzia, sor Abbate:
si era padr’Adamo nun magnava er fico,
e nun ce fussi mo’ st’usaccio antico
de fa terra pe ceci e pe patate;
ciovè, quanno la gente che so nate
nun morissimo mai; de grazzia, dico,
cosa succederìa si quarch’amico
se pipassi a cazzotti o a corbellate?
Come?! Gnisuno peccherebbe?!
eh giusto! Che ber libber’arbitrio de granelli
si Adamo solo se cacciassi un gusto!
Be’, lassamo er menà, levamo er vizzio:
me spieghi dunque che sarìa de quelli
che cascassimo giù da un pricipizzio.
Lo stato d’innocenza (III) (939)
Si pe’ qualunque buggera gnisuno
nun potessi in ner monno morì mai,
me levi un antro dubbio, de che guai
sarìa pell’omo a stà sempre a diggiuno.
Lei, sor Abbate, ha da capì che ognuno
potrebbe magnà poco, o gnente, o assai,
strozzà puro le pietre, e casomai
beve er veleno senza danno arcuno.
E come crescerebbe uno a crocetta?
E a che jie servirebbe er pane e ‘r vino,
e tutta st’antra grascia benedetta?
Ma quer che preme è de sapè er distino
che Iddio ciavessi dato a sta bucetta
dereto, co licenza, ar perzichino.
Dopo Adamo ed Eva non poteva che esserci Caino e Abele, anzi, più Caino che Abele. E’ sempre il popolano di Roma che si costruisce la scena, con Dio che dialoga a tu per tu con Caino e finisce per condannarlo – vai, gli dice, “cristianaccio” – per le strade del mondo e a piangere sulla luna. Poi il popolano s’interroga. Come faceva Caino a sapere che a picchiare qualcuno si può ucciderlo, visto che la morte non c’era ancora? E conclude che dal peccato di mangiare un fico (ancora il fico!) per ghiottoneria discende che la voglia di ammazzare c’è già dalla nascita. E quindi… Poi, anticipando il movimento “Non toccate Caino”, se ne assume la difesa e premette di non volerlo difendere, ma via, dice, a vedere che Dio rifiutava sempre le sue offerte e accettava invece quelle di Abele, si può capire che, con l’aiuto del vino, questa ingiustizia gli inacidiva il fiele “e allora, amico mio, taja ch’è rosso”, come usavano dire i venditori di cocomeri.
Er Zignore e Caino (1146)
"Caino! indov'è Abbele?" E quello muto.
"Caino! indov'è Abbele?" Allora quello:
"Sete curioso voi! chi l'ha veduto?
Che! so er pedante io de mi' fratello?"
"Te lo dirò dunqu'io, baron futtuto:
sta a fà terra pe ceci: ecco indov'ello.
L'hai cucinato tu cor tu cortello
quann'io nun c'ero che je dassi ajuto.
Lévemete davanti ar mi cospetto:
curre p'er grobbo quant'è largo e tonno,
pozz'esse mille vorte maledetto!
E doppo avé girato a una a una
tutte le strade e le città der monno,
va', cristianaccio, a piagne in de la luna".
Er ziconno peccato (1147)
Ch’er zor Caino doppo er fatto d’Eva
ammazzassi quer povero innocente,
fin qui nun c’è da repricacce gnente:
questo è un quattr’ e quattr’otto, e se sapeva.
La gran difficoltà ch’io tiengo in mente
e che gnisuno ancora me la leva,
è come mai Caino conosceva
che le bòtte ammazzassimo la gente.
Prima de quella su’ bricconeria
gnissun omo era mai morto ammazzato,
e manco morto mai d’ammalatia.
Volemo dunque dì che dar peccato
de magnà un fico pe jottoneria
er genio d’ammazzà naschi imparato?
Caino (180)
Nun difenno Caino io, sor dottore,
ché lo so più de voi chi fu Caino:
dico pper dì che quarche vorta er vino
pò accecà l’omo e sbarattaje er core.
Capisch’io puro che agguantà un tortore
e accoppacce un fratello piccinino,
pare una bonagrazzia da burrino,
un carcio-farzo de cattiv’odore.
Ma quer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
e a le su’ rape je sputava addosso,
e nò ar latte e a le pecore d’Abbele,
a un omo come noi de carne e d’osso
aveva assai da inacidije er fele:
e allora, amico mio, taja ch’è rosso.
Sempre proseguendo nella lettura belliana della Bibbia, eccoci ad Abramo e a quel sacrificio d’Isacco che tanto ha sempre fatto discutere. Abramo vuole fare un sacrificio rituale a Dio (ojocaustico). Prende un asino marchigiano e dice al figlio di prendere un’ascia e di prepararsi a un sacrificio di cui ancora non deve sapere nulla. Arrivati al luogo indicato, Abramo annuncia a Isacco che l’oggetto del sacrificio è proprio lui. Ma ecco che sul più bello appare un angelo che gli ferma la mano, dicendogli che Dio ha voluto metterlo alla prova. Così il sacrificio si compie su una pecora e “la pecora morì, fu sarvo Isacco”. E la pietra su cui doveva compiersi il fattaccio è a Roma, a Borgo Nuovo, naturalmente in una chiesa.
Er zagrifizzio d'Abbramo (757/8/9) I
La Bibbia, ch'è una spece d'un'istoria,
dice che tra la prima e siconn'arca
Abbramo vorze fà da bon Patriarca
n'ojocaustico a Dio sur Montemoria.
Pijò dunque un zomaro de la Marca,
che senza comprimenti e senza boria
stava a pasce er trifojo e la cicoria
davanti a casa sua come un monarca.
Poi chiamò Isacco, e disse: "Fa' un fascetto,
pija er marraccio, carca er zomarello,
chiama er garzone, infìlete er corpetto,
saluta mamma, cercheme er cappello;
e annamo via, perché Dio benedetto
vò un zagrifizzio che nun pòi sapello".
II
Doppo fatta un boccon de colazzione
partirno tutt'e quattro a giorno chiaro,
e camminorno sempre in orazione
pe quarche mijo più der centinaro.
"Semo arrivati: alò", disse er vecchione,
"incòllete er fascetto, fijo caro":
poi, vortannose in là, fece ar garzone:
"Aspettateme qui voi cor zomaro".
Saliva Isacco, e diceva: "Papà,
ma diteme, la vittima indov'è?"
E lui j'arrisponneva: "Un po' più in là".
Ma quanno finarmente furno sù,
strillò Abbramo ar fijolo: "Isacco, a te,
faccia a terra: la vittima sei tu".
III
"Pacenza" dice Isacco ar zu' padraccio,
se butta s'una pietra inginocchione,
e quer boja de padre arza er marraccio
tra cap'e collo ar povero cojone.
"Fermete, Abbramo; nun calà quer braccio",
strilla un Angiolo allora da un cantone:
"Dio te vorze provà co sto setaccio..."
Bee, bee... Chi è quest'antro! è un pecorone.
Inzomma, amici cari, io già sò stracco
d'ariccontavve er fatto a la distesa.
La pecora morì, fu sarvo Isacco:
e quella pietra che m'avete intesa
mentovà sur più bello de l'acciacco,
sta a Roma, in Borgo-novo, in d'una chiesa.
Viene poi la storia di Giuseppe venduto in Egitto dai fratelli “per quattro stracci e un rotolo di suola”. In Egitto Giuseppe – er zor Peppetto – fa fortuna presso il Faraone, ma la sua padrona, vedendolo belo grande e grosso, lo concupisce e un giorno quando Giuseppe le porta dell’acqua calda, se la trova “sur Zofà senza camicia”. Ma Giuseppe trova il modo di filarsene via. Da Giuseppe alla schiavitù degli ebrei in Egitto il passo è breve. Un Faraone “re dei farabutti” voleva che gli ebrei fossero schiavi o morti. Ma Mosè, “che pareva Bonaparte”, li salva tutti facendogli passare il Mar Rosso “a pied’asciutti”. Tutto bene, ma è in terra che cominciano i guai, perché è comunque una gran fregatura passeggiare per quaranta anni nel deserto “a stasse a fregà l’orbo”. E dopo? Dopo c’è Giosuè che ferma il sole, e poi ancora Gedeone che con trecento “giudii” armati solo di pentole e torce riescono a fare tanta paura ai nemici da farli venire “giù come ricotte”. Che imparino questi eserciti “cojoni” che vanno in guerra a sprecare tanti cannoni!
Giusepp’ abbreo (I) (95)
Certi mercanti, doppo ditto: aèo,
se sentinno chiamà drento d’un pozzo.
Uno ce curze all’orlo cor barbozzo,
e vedde move, e intese un piagnisteo.
“Cazzo! qui c’è un pivetto pe san Gneo,
come un merluzzo a mollo inzino ar gozzo!
Caleno un zecchio: e su, fracico e zozzo,
azzécchece chi viè? Giusepp’ abbreo.
L’asciutteno a la mejo cor un panno,
je muteno carzoni e camiciola,
e poi je danno da spanà, je danno.
E doppo, in cammio de portallo a scòla,
lo vennérno in Eggitto in contrabbanno
pe quattro stracci e un rotolo de sòla.
Giusepp’ abbreo (II) (96)
In capo a una man-d’anni er zor Peppetto
addiventato bello granne e grosso,
la su’ padrona, jotta de guazzetto,
j’incominciò a mettéje l’occhi addosso.
Ce partiva cor lanzo de l’occhietto,
sfoderava sospiri cor palosso:
inzomma, a fàlla curta, dar giacchetto
lei voleva la carne senza l’osso.
Eccheta ‘na matina che a sta cicia
lui j’ebbe da portà cert’acqua calla,
la trova sur zofà senza camicia.
Che fa era cazzaccio! Butta lì la pila;
e a lei che te l’aggranfia pe ‘na spalla
lassa in mano la scorza, e marco-sfila!
Li giudii de l'Egitto (619)
Faraone era un re de sti frabbutti
che impicceno da sé tutte le carte,
e volenno l'Abbrei schiavi o distrutti,
o l'affogava o li metteva all'arte.
Ma Mosè, che pareva Bonaparte,
a la barbaccia sua li sarvò tutti,
e fra du' muri d'acqua, uno pe parte,
se li portò pe mare a pied'asciutti. -
Nell'acqua annò benone, sor Giuvanni,
perch'er Marrosso stiede sempre uperto;
ma in terra cominciorno li malanni.
Ar meno è una gran buggera de certo
quella de spasseggià pe quarant'anni
e stasse a fregà l'orbo in un deserto.
Er calzolaro dottore (555)
Ma come s’ha da dì: gira la terra
quanno che Giosuè co du’ parole
disse: “In nome de Dio, fermate, o sole,
fermate, cazzo!, e fa’ finì la guerra”?
Pe raggionà cusì ce vò una sferra
che piji le tomarre pe le sòle.
Chi nun za che a Pariggi in Inghirterra
sanno st’istoria qui tutte le scole?
Quanno che me dirai che pe st’arresto
de sole se metterno in quarche pena
l’antri che l’aspettavano più presto,
qua la raggione è tua: perché er divario
mutò l’ore der pranzo e de la cena,
e buggiarò li conti del lunario.
La battaja de Gedeone (1375)
Li trecento giudii de Gedeone
se n’agnédeno dunque a fila a fila
armati inzin’all’occhi d’una pila,
d’una fiaccola drento, e d’un trombone.
Arrivati poi llà, come che sfila
la truppa de li balli a Tordinone.
gironno tante vorte in pricissione,
che de trecento parzeno tremila.
Quanno tutù, tutù, le pile rotte,
torce all’aria, trecento ritornelli,
e li nimmichi giù come ricotte.
E mo’ tutti st’eserciti cojoni
invece d’annà in guerra come quelli,
se metteno a spregà tanti cannoni!
Gioachino non dimentica Davide che “il braccio di Dio” manda, gracilino com’è, a sfidare quel “buggiarone” di Golia. Ma Davide vince perché Dio benedetto vuole mostrare a tutta la Giudea che “chi è divoto de Gesù e Maria”, come appunto Davide, può battersi da pari a pari con un gigante. Tanto è vero che “grazie alle anime sante e alla Madonna” Davide “lo fece cascà giù come un pupazzo”. E quanto al famoso “giudizio di Salomone”, a chi gli chiede se il grande re non avrebbe fatto prima a guardare nei registri del curato il giorno e l’anno della nascita del bambino conteso, il popolano risponde:
Er duello de Davide (720)
Cos'è er braccio de Dio! mannà un fischietto
contr'a quer buggiarone de Golia,
che si n'avessi avuto fantasia,
lo poteva ammazzà cor un fichetto!
Eppuro, accussì è. Dio benedetto
vorze mostrà pe tutta la Giudia
che chi è divoto de Gesù e Maria
pò stà cor un gigante appett'appetto.
Ar vede un pastorello co la fionna,
strillò Golia sartanno in piede: "Oh cazzo!
Sta vorta, fijo mio, l'hai fatta tonna".
Ma er fatto annò ch'er povero regazzo,
grazzie all'anime sante e a la Madonna,
lo fece cascà giù come un pupazzo.
Er zanto re Dàvide (725)
Chi vò sapé er re Dàvide chi fu,
fu er Casamia der tempo de Novè,
che parlava co’ Dio a tu per tu
e beveva più vino che caffè.
Chi poi quarch'artra cosa vò sapé,
vadi a sentì la predica ar Gesù,
e imparerà che prima d'èsse re
era un carciofolà der re Esaù.
E a chi nun basta de sapé sin qui,
e quarch'antra cosetta vò imparà,
legghi la Bibbia, si la pò capì;
e imparerà ch'er re carciofolà
dar zàbbito inzinint'ar venardì
je piaceva un tantino de fregà.
Er gran giudizzio de Salamone (188)
Tu inzomma te lo spenni pe sbrillacco
er giudizzio che fece Salamone?
Io ce vorìa vedé l’Abbate Sacco,
o er Presidente nostro de l’urione!
Tramezzo a du’ donnacce cannarone,
zuppo, arrochito, scelonito, stracco,
pe tirà for a er torto e la raggione
com’aveva da fà? Venne a lo spacco.
Perché, tu dichi, nun guardò ar casato
e ar nummero dell’anno e der millesimo
in tutt’e a dua le fede del curato?
Ecco mò indove io te darebbe er pisto!
Dunque t’arriva novo, eh? che er battesimo
fu, doppo, un’invenzione de Gesù Cristo?
Sempre attento lettore della Bibbia, Belli racconta all’amico Paolo (“Pavoluccio mio”) la storia di Giuditta che prima cena con Oloferne, poi lo fa bere, mangiare e “schiumare la marmitta”, poi con un colpo degno di Mastro Titta, il famoso boia pontificio, gli stacca la testa e la va a mostrare al suo popolo “giudio” che da Oloferne era minacciato. Ed ecco come, caro Paolo, si può scannare la gente per la fede e “fà la vacca pe dà grolia a Dio”.
La bella Giuditta (213)
Dice l’Abbibbia Sagra che Giuditta
dopo d’avè cenato con Lionferne,
smorzate tutte quante le Lucerne
ciannò a mette er zordato a la galitta:
che appena j’ebbe chiuse le lenterne
tra er beve e lo schiumà de la marmitta,
cor un corpo da fìa de mastro Titta
lo mannò a fotte in ne le fiche eterne:
e che, agguattata la capoccia, agnede
pe fà mostra ar popolo giudio
sino a Bettuja co la serva a piede.
Ecchete come, pavoluccio mio,
se pò scannà la gente pe la fede,
e fà la vacca pe dà grolia a Dio.
Finite le letture della Bibbia, il salto è di parecchi secoli fino ad arrivare ai tempi di Giuseppe Gioachino Belli, che comincia con il rievocare un fatto vero, cioè quello del prestito del grande banchiere ebreo Rothschild al Papa. Il popolano lamenta: . E continua:
. Naturalmente Belli sapeva benissimo che gli ebrei non venivano proprio dalla Mecca, ma il suo popolano non lo sapeva davvero. Ma tanto, conclude, a San Pietro tutto questo scandalo serve per fregare la gente gentilmente.
Er prestito de l’abbreo Roncilli (319)
Ma eh? Gessummarìa! che monno tristo!
Fin che se vedi fà a li giacubbini
va be’, ma un Papa ha da pijà quadrini
da un omo ch’a ammazzato Gesucristo!
Uh riarzassi la testa papa Sisto
ch’empì zeppo Castello de zecchini
strillerebbe: “Ah pretacci malandrini,
s’era bisogno de sto bell’acquisto?
Nun ciavete perdio tanto de zecca
pe cugnà mille piastre ogni minuto,
senza falle venì sin da la Mecca?
E co tutto sto scànnelo futtuto
maneggiate a San Pietro la battecca
pe buggiarà la gente senza sputo.
E’ poi la volta delle famigerate corse del passato, quelle in cui a Carnevale si costringevano gli ebrei a umilianti gare nel quartiere di Testaccio e nei pressi del Colosseo (senza contare Piazza Navona), con la gente che si divertiva a prendere a bacchettate gli ebrei per farli correre più velocemente. E stupendamente conclude Belli che in tal modo la corsa diventava più divertente, e ricorda come la corsa l’avesse inventata un Papa “in memoria e in onore della flagellazione di Gesù Cristo”. Belli ricorda anche l’altrettanto umiliante usanza del primo giorno di Carnevale di convocare una delegazione di ebrei in Campidoglio per far giurare obbedienza alle leggi “e manate” dal Senato e dal Popolo Romano e poi congedarli con un calcio.
Le curze d'una vorta (722)
Antro che robbi-vecchi! antro ch'aéo!
Don Diego ch'ha studiato l'animali
der Muratore, e ha letto co l'occhiali
quanti libbri stracciati abbi er museo
dice ch'er Ghetto adeso dà li palj
pe via ch'anticamente era l'ebbreo
er barbero de quelli carnovali
a Testaccio e ar piazzon der Culiseo.
Pe falli curre, er popolo rmano
je sporverava intanto er giustacore
tutti co un nerbo o una battecca in mano.
E sta curza, abbellita a sto pisto,
l'inventò un Papa in memoria e in onore
della fraggellazzion de Gesucristo.
L'omaccio de l'Ebbrei (944)
Ve vojo dì una buggera, ve vojo.
Er giorno a Roma ch'entra carnovale,
li Giudii vanno in d'una delle sale
de li Conzervatori a Campidojo;
e presentato er palio prencipale
pe riscattasse da un antico imbrojo,
er Cacamme j'ordisce un bell'orzojo
de chiacchiere tramate de morale.
Sta moral'è ch'er Ghetto sano sano
giura ubbidienza a le Legge e manate
der Zenato e der Popolo Romano.
De quelle tre perucche incipriate,
er peruccone, allora, ch'è più anziano
arza una cianca e j'arisponne: "Andate".
Ma come andò quando Tito, dopo avere mosso guerra “al popolo giudio” e castigarlo per avere ammazzato il Signore, rapinò tutta la “robba de valore” e fece costruire a Roma un arco trionfale? Sotto l’arco dovettero sfilare gli ebrei fatti prigonieri che ora però, dice Belli, gli ebrei si farebbero ammazzare prima di passarci sotto. E di fatto gli ebrei non sono passati più sotto l’Arco di Tito fino al 15 maggio del 1948 quando vi festeggiarono la rinascita dello Stato ebraico.
Campo Vaccino (III) (40)
A quer tempo che Tito imperatore,
co premissione che je diede Iddio,
move la Guerra ar popolo giudìo
pe gastigallo che ammazzò er Zignore;
lui ridunò la robba de valore,
dicenno: “Cazzo, quer ch’è d’oro è mio:
e li scribba che faveno pio pio,
te li fece snerbà dar correttore.
E poi scrivette a Roma a un omo dotto,
cusì e cusì che frabbicassi un arco
co li cudrini der gioco dell’otto.
Si ce passònno li Giudii! Sammarco!
Ma adesso, prima de passacce sotto,
se farìano ferrà dar maniscarco.
Campo Vaccino (IV) (41)
Sto cornacopio su le spalle a quello
che viè appresso a quell’antro che va avanti,
ch’ha sei bracci più longhi, e tutti quanti
tiengheno immezzo un braccio mmezzanello;
quello è er gran Cannelabbro de Sdraello,
che Mosè frabbicò co tanti e tanti
idoli d’oro che su du’ liofanti
se portò via da Eggitto cor fratello.
Mò nun c’è più sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, c’è; ma nu lo gode un cane,
perché sta giù ner fiume a fonno a fonno.
Lo vòi sapé lo vòi dov’arimane?
Vicino a Ponte-rotto; e si lo vonno,
se tira su per un tozzo de pane.
Il popolano romano poteva essere antisemita come tutti, ma in fondo forse non lo era, tanto che “Zì Checca” per dare buoni consigli al nipote che frequenta cattive compagnie, gli suggerisce di prendere esempio dagli ebrei, che sono “più cristiani” e di frequentarli perché il detto dice ”Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Ma, attenzione, Gioachino fa la morale a un giovanotto un po’ scapestrato e peggio, e lo sconsiglia di andare a cercarsi le puttane del ghetto, sia perché ce ne sono tante cristiane, sia perché a Roma su una dozzina di donne ce ne sono otto o dieci pronte a “guarnirgli il letto”. Una notevole percentuale. E poi: “vuoi scopare? Scopati le tue cristiane, così eviti di offendere Dio, spendendo anche poco”. E rafforza l’ammonimento ricordandogli che toccare le donne degli ebrei è peccato, e se lo fa morirà scomunicato. Il popolano del Belli, nel rivolgersi a un immaginario interlocutore, premette ne “Le scuse de Ghetto” che “io odio li Giudii peggio de te”, naturalmente per avere crocifisso Gesù, ma… ma… qualcosa l’ebreo dice a sua discolpa (e Gioachino sembra riflettere su queste “scuse”) che se Gesù era sceso sulla Terra proprio per morire (Gesù “non poteva non saperlo” data la sua posizione), allora per forza doveva esserci anche qualcuno ad ammazzarlo. E dunque… Poi Belli immagina anche un incontro tra un ebreo e un cristiano, il quale contesta al primo: “Se tu dici che i Comandamenti sono uguali in tutti e due i Testamenti, perché non ti fai cristiano?”. Ma Mosè gli risponde che quelli del suo interlocutore “nun zo boni funnamenti”, non sono osservazioni convincenti. Noi, dice l’ebreo, adoriamo Dio-padre e il padre comanda su tutti i parenti fino a quando muore. E anche se ha fatto testamento, il figlio gli deve sempre obbedienza e se questo gli dà fastidio, ha torto. Quindi, conclude, il vostro Gesù ha un padre, e dunque mi stupirei che tale padre – che noi adoriamo - volesse mandarci tutti all’inferno.
Zì Checca ar nipote ammojato (72)
Dico ‘na cosa che nun è bucia…
tu vedi che tu fijo è grann’ e grosso,
e nun je metti gnisun’ arte addosso?
Ma si tu mori che ha da fà? La spia?
Nun c’è antro che gioco, arme, ostaria,
donne, sicario… e nun z’abbusca un grosso!
Ah! un giorno o l’antro ha da cascà in d’un fosso
da fàtte piagne; e te lo dice zia.
Sempre compagni! e che schiume, fratello!
Puh, libberàmus domminè! L’Abbrei
sò più cristiani e ciànno più ciarvello.
Pe ‘gni cantone ne tiè cinqu’o sei:
vedi che scola! come dice quello?
Di’ con chi vai, e ti dirò chi sei.
Nono, nun desiderà la donna d’antri (848)
Forze a Roma ciamàncheno puttane
che vai cercanno le zagnotte in ghetto?
Vòi fotte? eh fotte co le tu’ cristiane
senza offenne accusì Dio benedetto.
Qua per ogni duzzina de romane
un otto o un dieci te guarnisce er letto:
e che pòi spenne? Un pavolo, un papetto,
e d’un testone poi te ciarimane.
Eppuro tu sei battezzato, sei:
e nun zai che quann’uno è battezzato
nun po’ toccà le donne de l’ebbrei?
E una vorta ch’hai fatto sto peccato,
hai tempo d’aspettà li giubbilei:
se’ more, fijo mio, scummunicato.
Le scuse de Ghetto (1508)
In questo io penzo come penzi tu:
io l’odio li Giudii peggio de te;
perché nun zo cattolichi,e perché
messeno in croce er Redentor Gesù.
Chi ripescassi poi dar tett’in giù
drento a la legge vecchia de Mosè,
dice l’Ebbreo che qualche cosa c’è
pe scusà le su’ dodici tribù.
Defatti, diice lui, Cristo partì
da casa sua, e se ne venne qua
co l’idea de quer zanto venardì.
Dunque, seguita a dì Baruccabbà,
subbito che lui venne pe morì,
quarchiduno l’aveva da ammazzà.
Li du’ testamenti (1543)
“Ecco”, io disse ar giudio: “si piano piano
vienghi a dì che li tu’ commannamenti
so uguali in tutt’a dua li testamenti,
pe che motivo nun te fai cristiano?”.
“Badanài, nun zo boni funnamenti”,
m’arispose Mosè: “noi, sor Bastiano,
adoramo Iddio-padre, e ‘r padre ha in mano
li raggioni de tutti li parenti.
Sino ar giorno ch’un padre nun è morto,
be’ ch’abbi fatto testamento, er fijo
dipenne sempre, e si ce ruga, ha torto.
Er vostro Jesucristo ha er padre eterno:
io dunque, mordivoi, me maravijo
che ce possi mannà tutti a l’inferno”.
La simpatia che Belli ha per gli ebrei è palese nel suo “La morte del Rabbino”, che in vita era stato tanto amico del Papa. Tanto che il Papa aveva “pianto a gocce” alla notizia della morte dell’amico Rabbino. E tanto erano amici che se fosse vissuto ancora un po’ forse avremmo visto il Rabbino diventare cristiano, o il Papa farsi ebreo.
La morte der Rabbino (1544)
E’ ito in paradiso oggi er Rabbino,
che sarìa com’er Vescovo der Ghetto;
e stasera a li Scòli j’hanno detto
l’uffizio de li morti e ‘r matutino.
Era amico del Papa: anzi perzino
er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto
pijò lla penna e je stampò un sonetto
scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.
Dunque a la morte sua Nostro Signore
cià pianto a gocce, be’ che sia sovrano,
e ce s’è inteso portà via er core.
Si campava un po’ più, te lo dich’io,
o noi vedemmo er Rabbino cristiano,
o er Papa annava a terminà giudio.
Il “Passo della Giustizia” è di feroce ironia. Di due malfattori condannati a morte, uno è graziato perché “è un abbreo fatto cristiano”. E quello giustiziato che ha fatto? Ha ammazzato un contadino, caro “Mastro Giujano”. E l’altro, quello graziato? Quello ha scannato la moglie con il rasoio. Sarà stata una “scalandrona” (vecchia grassona)? Macché, era giovane, carina, buona… E allora perché l’ha ammazzata? Perché non voleva mantenerlo facendo la puttana. Ma essersi convertito ha cancellato ogni colpa. Tanta è la potenza della conversione.
Er passo de la giustizia (2097)
- E che nova? uno solo è er malfattore!
Ma non erano dua, mastro Giujano?
- L’antro, pperch’è un abbreo fatto cristiano,
l’ha vorzuto aggrazzià Nostro Signore.
- E ch’ha fatto, se sa, questo che more?
- Gnente de meno che sgrassò un villano.
- E er giudio liberato dar Sovrano?
- Ha scannato la moje co un rasore.
- Sarà stata ‘na brutta scalandrona…
- Oh, pe questo era poi ‘na giuvenotta
bella, grazziosa, pulituccia e bona.
- Be’, e perché la scannò? – Tanto te scotta?
Perché nun vorze mai, matta cojona,
pe dà da magnà a lui, fà la mignatta. –
Si è cominciata questa breve selezione con un riferimento al Giorno del Giudizio. E si chiude proprio con “Il Giorno del Giudizio”, uno dei sonetti più forti e straordinari di Giuseppe Gioachino Belli. Già l’attacco, “Quattro angioloni co le tromme in bocca”, ha una solenne e cupa sonorità. E la fila di scheletri che stanno per riprendere le loro figure di persone e si avviano “a pecorone” a ricevere la sentenza di Dio, ha una folgorazione di rara potenza, con quel dividersi – una parte bianca e una nera – per andare chi in cantina e chi al tetto. Mentre alla fine una schiera di angeli “smorzeranno li lumi, e bonasera”. Il silenzio e di nuovo la notte eterna. E’ il ritratto dantesco della valle di Giosafat.
Er giorno der Giudizzio (273)
Quattro angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno pe cantone
a sonà: poi co tanto de vocione
cominceranno a dì: “Fora a chi tocca”.
Allora vierà su una filastrocca
de schertri da la terra a pecorone,
pe ripijà figura de perzone,
come purcini attorno de la biocca.
E sta biocca sarà Dio benedetto,
che ne farà du’ parte, bianca, e nera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo uscirà ‘na sonajera d’angioli,
e come si s’annassi a letto,
smorzeranno li lumi, e bona sera.
Domani la 2a parte