Il Messia che (forse) fece marcia indietro da Israele, l'analisi di David Braha
Testata: Informazione Corretta Data: 20 dicembre 2009 Pagina: 1 Autore: David Braha Titolo: «Il Messia che (forse) fece marcia indietro»
Per mesi in tanti hanno pensato che il Messia, l’uomo in grado di risolvere i problemi del mondo, di portare pace ed equilibrio, fosse finalmente arrivato: si pensava che fosse di colore, come Martin Luther King Jr., e che rispondesse al nome di Barack Hussein Obama. Ma i recenti sondaggi che mostrano gli indici di gradimento del Presidente degli Stati Uniti scendere in picchiata, tanto in patria quanto all’estero, dimostrano che l’Obamania è ormai arrivata al capolinea e che è giunta l’ora per la Casa Bianca di tirare le somme di un primo anno di lavori che ha portato risultati piuttosto scarsi, almeno secondo le aspettative e le promesse fatte in campagna elettorale. In particolare, se parliamo di politica estera, la situazione appare peggiore rispetto ad un anno fa, quando nell’Ufficio Ovale sedeva ancora lo ‘spauracchio’ George W. Bush: le mani tese fino ad ora ai regimi di Teheran e di Pyongyang aspettano ancora – forse invano – di essere ricambiate, mentre la corsa al nucleare da parte di questi due paesi sembra avanzare inesorabilmente. La situazione in Afghanistan continua a degenerare di giorno in giorno, tanto che è stato appena annunciato l’invio di altri 30 mila soldati; in Iraq le cose non vanno certamente meglio; dal tanto criticato carcere di Guantanamo non è stato rimosso neppure un chiodo (in campagna elettorale Obama aveva promesso di chiuderlo entro il primo anno di presidenza). Guardando poi al processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, la situazione appare quanto mai in fase di stallo. Da ché aveva promesso di voler imprimere una svolta alla questione mediorientale, Obama si trova adesso impantanato in errori diplomatici a loro volta radicati in considerazioni semplicistiche e superficiali di un conflitto molto più complesso ed intricato di ciò che evidentemente si aspettava: in primis, il fatto di aver incentrato tutta l’attenzione sulla questione degli insediamenti in Cisgiordania, come se questi fossero il vero fulcro del problema, e di considerare Israele il mero frutto di persecuzioni antisemite culminate nell’Olocausto – entrambe le argomentazioni sono presenti nel discorso del Cairo, il “Manifesto” della politica mediorientale dell’amministrazione statunitense – dimostrano quanto la visione del Presidente sia stata fino ad ora limitata soltanto a determinati aspetti del conflitto Arabo-Israeliano, e di come vengano ignorati completamente decenni di attriti risalenti a ben prima del 1967 o del 1948. Non a caso a fare le spese di questa linea politica è stato proprio uno degli obiettivi primari che la Casa Bianca si era proposta al riguardo: l’imposizione iniziale di un freezing (congelamento) delle costruzioni da parte di Israele negli insediamenti si è trasformato nella più blanda richiesta di un containement (contenimento) delle stesse, che poi il premier Netanyahu ha concretizzato ponendo un blocco parziale e temporaneo con termine di 10 mesi; non solo, ma il tentativo di indebolire politicamente lo stesso Netanyahu mettendolo con le spalle al muro ha ottenuto l’effetto contrario, dando uno slancio alla popolarità di quest’ultimo agli occhi del mondo ed indebolendo paradossalmente la posizione del Presidente dell’ANP Abu Mazen. A quasi un anno dal suo insediamento nell’Ufficio Ovale quindi, l’unico vero risultato sul fronte internazionale che Barack Obama sembra aver conseguito è un Premio Nobel per la Pace che egli stesso ammette di non aver meritato. Ma il discorso da lui pronunciato la scorsa settimana alla cerimonia di assegnazione del Premio potrebbe forse indicare una correzione di rotta: non tanto una svolta vera e propria, quanto piuttosto una presa di coscienza. Probabilmente la serie di insuccessi collezionati in giro per il mondo, e le aspre critiche ricevute per aver vinto un premio immeritatamente, potrebbero aver riportato Obama con i piedi per terra, facendogli capire che essere il Presidente degli Stati Uniti d’America è ben diverso dal condurre una campagna elettorale: lo scopo di quest’ultima è, sì, piacere a più gente possibile, ma una volta vinte le elezioni ed una volta insediatosi, essere Presidente comporta anche prendere decisioni nette che non possono sempre fare tutti felici. La prima di queste “scelte scomode” è stata proprio quella di inviare altri 30 mila soldati in Afghanistan al fine di schiacciare definitivamente i Talebani, scelta giustificata e motivata proprio nel discorso di Oslo dal concetto di just war (guerra giusta). Ma tale presa di coscienza potrà avvenire anche nei confronti della polveriera mediorientale? Di certo riconoscere che la minaccia primaria di destabilizzazione nella regione è costituita dalle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio in Iran, e non dagli insediamenti israeliani in Cisgiordania, sarebbe un notevole passo in avanti. Un altro potrebbe essere quello di imporre ai palestinesi di dover riconoscere il diritto all’esistenza dello Stato di Israele, a prescindere da quali saranno poi i confini definitivi, da quale sarà il destino degli insediamenti, quello di Gerusalemme, e quello dei profughi palestinesi, soprattutto ora che Netanyahu si è formalmente dichiarato favorevole alla nascita di uno Stato palestinese. Un’azione del genere ammorbidirebbe indubbiamente le posizioni Israeliane, e renderebbe meno utopica la possibilità di vedere le due parti nuovamente sedute ad un tavolo di pace. Ma Obama sarà all’altezza di ciò che ci si aspetta da lui? La risposta è ancora ignota, ma se il Presidente vuole poter dire di essersi meritato il Nobel ed entrare così nella storia, è arrivato il momento che la storia la inizi a scrivere di suo pugno. E al più presto.