Boicottare Israele anche a costo di coprirsi di fango La ridicola protesta delle attiviste di Code Pink. Cronaca di Luigi Santambrogio
Testata: Libero Data: 18 dicembre 2009 Pagina: 24 Autore: Luigi Santambrogio Titolo: «L'ultima del no-global: rotolarsi nel fango»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 18/12/2009, a pag. 24, l'articolo di Luigi Santambrogio dal titolo " L'ultima del no-global: rotolarsi nel fango ". La notizia del boicottaggio contro Ahava è stata trattata anche dal FOGLIO di ieri, nell'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Vedi alla voce Ahava ". Ecco l'articolo di Luigi Santambrogio:
La ragazza è in bikini ma non si prepara affatto a tuffarsi in piscina. Con lei altre giovani hanno il viso e il corpo imbrattati di fango. Sono le militanti dell’asso - ciazione pacifista Code Pink, erinni scatenate che usano fare incursione in massa nei negozi dove sono in vendita i cosmetici dell’azienda israeliana Ahava. Da mesi, la casa, che produce prodotti di bellezza con i Sali del Mar Morto, è nel mirino di organizzazioni e ong: un boicottaggio implacabile tanto che due giorni fa il negozio Ahava a Covent Garden ha dovuto serrare le saracinesche dopo l’ennesima incursione delle scalmanate desnude. E domani, sabato 19 dicembre, nello stesso punto si celebrerà l’International day of action against Ahava. Centinaia di militanti protesteranno, invitando al boicottaggio dei cosmetici che vengono dal kibbutz di Mitzpe Shalem in Cisgiordania, nei pressi del Mar Morto. Le ragazze di Code Pink (associazione, creata nel 2002 negli Usa, ha scelto di chiamarsi Codice Rosa per derisione contro i nomi delle operazioni antiterrorismo: Codice Arancio, Codice Rosso... dati dall'amministrazione Bush.) si infangano il corpo per rappresentare il senso del loro slogan: Ahava is a dirty business (Ahava è uno sporco affare). Dicono che i prodotti di bellezza dell’Ahava (in ebraico significa «amore»), provengono dalle risorse naturali rubate ai palestinesi, perciò eticamente inaccettabili perché vìolano i diritti umani e sono frutto di una rapina. Balle colossali perché Ahavanonsorge su un “territorio occupato”: l’area del Mar Morto era deserta prima che gli ebrei ci tornassero e nessun palestinese ha mai lavorato quelle risorse naturali. In Inghilterra, l’ondata antisemita ha trovato nuova energia dall’ordine di cattura (poi ritirato) per l’ex ministro degli Esteri israeliano, oggi capo del partito di opposizione Kadima, Tzipi Livni in relazione all’offensiva “Piombo Fuso”, condotta lo scorso inverno a Gaza. Il fango antisemita aveva già colpito, in agosto, l’attrice Kristin Davis, l’interprete 44enne di Charlotte York, che nei telefilm di Sex and the City si converte all’ebraismo per amore, non è ebrea ma è molto popolare in Israele. Da due anni faceva pubblicità ad Ahava mentre a Natale invitava a comprare i regali dal catalogo dell’ong Oxfam, per aiutare i poveri in Africa. Ora questa ong l’ha cacciata, accusandola di complicità coi massacratori dei palestinesi. Ma la bella Kristin è solo il paradosso mediatico di una campagna ben più solida e capillare che mira a colpire gli interessi economici israeliani in Inghilterra e in patria. I danni più seri all’azienda provengono dal gruppo Boycott, Divestment, Sanctions movement, diretto dal palestinese Omar Barghouti, ma pure il governo mette tutto il suo peso nell’operazione. Il ministero degli Esteri britannico, assieme al Defra, il ministero dell’Alimentazio - ne e degli affari rurali, ha emesso una storica direttiva a tutte le catene di supermercati nel Regno Unito: nelle merci provenienti dalla Cisgiordania dovrà essere indicato se sono prodotte negli insediamenti israeliani. I supermercati dovranno modificare le etichette che attualmente indicano “prodotto della West Bank”, rendendole più specifiche per informare i consumatori sulla provenienza dei cibi o beni acquistati, scrivendo quindi “prodotto palestinese” o “prodotto degli insediamenti israeliani”. Per far fronte alle troppe richieste di boicottaggio, grandi aziende come Tesco, la più importante catena di distribuzione, hanno dedicato un numero speciale ai prodotti israeliani: «Servizio clienti Tesco. Se state chiamando per informazioni sui prodotti da Israele, digitate 1». A questo sono arrivati. E in Italia? Beh, la cagnara è la stessa. La campagna di boicottaggio di Ahava è presente su molti siti. Primi fra tutti quelli dei movimenti no global e dell’anta - gonismo estremo. Uno di questi, Senza Soste, pubblica l’elenco completo delle aziende da evitare assolutamente, perché compromesse con Israele. Si va da Calvin Klein a Motorola, da Intel a Jaffa fino a una lista dettagliatissima di marche e generi da evitare. Inoltre, il sito consiglia di controllare sempre il codice a barre dei prodotti: «Se riporta il numero 729 non comprateli», dice, «cominciamo a togliere qualche arma a chi ne sgancia a tonnellate sulla popolazione palestinese». Ma l’idea di boicottare Ahava e altri prodotti israeliani era venuta anche a un centinaio di soci equosolidali della Coop. E come non ricordare la lista dei negozianti ebrei italiani stilata dal sindacato autonomo Flaica-Cub, un richiamo esplicito alle Leggi Razziali del 1938 e alla conseguente chiusura dei negozi non ariani. Così la sinistra più estrema e idiota si salda al nazi-fascismo in nome del comune odio antisemita. Doppia vergogna per i compagni boicottatori che dovrebbero almeno conoscere contro chi combattono. Il capitale di Ahava, ad esempio, è detenuto al 60% da alcuni kibbutz, il simbolo del collettivismo israeliano di sinistra. Forse, la sola società degli uguali mai realizzata in Terra. E nei laboratori di Ahava i dipendenti quasi tutti palestinesi. Che il loro lavoro e dunque sopravvivenza vengano boicottati da forsennati sedicenti solidali fa parte della loro squinternata ideologia comunista.
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