Il CORRIERE della SERA di oggi, 13/12/2009, a pag.1-17, con il titolo " La guerra è giusta se si può vincere ", pubblica l'analisi di Avishai Margalit, pacifista ad oltranza, firma illustre della New York Review of Books, gran sostenitore di Barack Obama, costretto anche lui, come gli altri, a trovare nel discorso di Oslo elementi che gli permettano di continuare ad avere fede nelle teorie da sempre sostenute. E Margalit, pressato dall'obbligo di essere almeno originale rispetto ai colleghi disorientati, grida Eureka, e scopre che " Obama non ha mai menzionato la vittoria come condizione dominante", come dire, si faccia pure 'sta guerra, dato che adesso dobbiamo convincerci che è giusta, ma, perbacco !, col cavolo che dobbiamo dire dire di volerla vincere. E' anche grazie ad intelligenze come quella di Margalit che l'occidente è in braghe di tela. E' professore all'Università di Princeton, ne uscisse più spesso e cercasse di conoscere meglio l'avversario (per riguardo nei suoi confronti non lo chiamiamo nemico) non sarebbe male.
Ecco l'articolo:

Avishai Margalit
A leggere i resoconti del discorso di Barack Obama, alla consegna del Premio Nobel, si ha l’impressione che il presidente abbia voluto infondere una buona Una teoria che ci spiega a quali condizioni una guerra può dirsi moralmente giustificata. È necessario tuttavia capire il realismo di Obama riguardo la guerra in Afghanistan perché il realismo, nei confronti dei conflitti armati, fa parte integrante della dottrina della guerra giusta.
La distinzione principale in tale dottrina è tra la giustificazione della guerra e la giustificazione del comportamento da tenere in guerra. Pertanto se la giusta causa è condizione fondamentale per l’avvio di una guerra, la distinzione tra combattenti e civili è ciò che detta il comportamento corretto da tenersi durante il conflitto. Obama ha fatto riferimento a entrambe queste condizioni, e ad altre ancora. Il presidente, tuttavia, ha omesso una condizione importante per giustificare l’avvio o il perdurare di una guerra.
Si tratta della ragionevole previsione di successo.
Non è solo stupido, ma anche immorale andare in guerra, o proseguire una guerra, senza alcuna prospettiva di vittoria.
Non basta avere la giusta causa dalla propria parte, altrettanto importanti sono le concrete possibilità di vittoria.
Come ammiratore di Barack Obama, ho ascoltato attentamente i suoi discorsi sull’Afghanistan e devo ammettere che a nessun punto il presidente ha menzionato la possibilità di vittoria come condizione determinante. Ovviamente ci chiede un atto di fede, ma la fede va sempre sottoposta al pensiero critico. Se il principale obiettivo della guerra è quello di sconfiggere Al Qaeda, allora bisogna riconoscere che anziché mettere in campo un battaglione di marines sarebbe meglio schierare una divisione di contabili e banchieri occhialuti, di genietti dell’informatica e di persone che conoscano bene le lingue della regione.
La guerra in Afghanistan al giorno d’oggi ha ben poco a che vedere con la sconfitta di Al Qaeda. Il vice presidente Biden ha visto giusto, quando ha affermato che combattere Al Qaeda non equivale a combattere in Afghanistan; e impedire che l’arsenale nucleare del Pakistan finisca nelle mani degli islamisti non ha alcun nesso con il conflitto in Afghanistan, dove l’esercito pachistano rappresenta un problema altrettanto spinoso della presenza dei talebani.
La teoria della guerra giusta esige un giusto scopo per scendere in guerra e continuare la guerra. E non vale come giusto scopo il voler continuare la guerra per la paura politica di essere accusati dai generali di averli pugnalati alle spalle, non consentendo loro di finire il lavoro.
George C. Marshall si rifiutò, alla fine della Seconda guerra mondiale, di gareggiare con l’Unione Sovietica per raggiungere per primo Berlino — malgrado gli evidenti vantaggi politici — dicendo: «Non mi perdonerei mai di aver rischiato la vita dei miei soldati per motivi puramente politici». Marshall, vorrei ricordarlo, è stato uno dei pochi candidati — su una lista tanto lunga quanto imbarazzante — che avrebbe davvero meritato il Nobel per la pace.
Non è stata solo la dottrina della guerra giusta invocata da Obama a infondere una carica di realismo, ma anche quello che il presidente americano considera realismo nel proporre accordi e compromessi internazionali. Nelle sue parole: «Alla luce degli orrori della Rivoluzione culturale, l’incontro tra Nixon e Mao appariva imperdonabile, eppure spianò la strada a un nuovo corso per la Cina, grazie al quale milioni dei suoi cittadini sono stati riscattati dalla povertà e hanno ritrovato il contatto con le società aperte».
Nel mio ultimo libro On compromise and rotten compromises ( «Sul compromesso e sui compromessi sbagliati»), definisco compromesso sbagliato un accordo per stabilire o mantenere in piedi un regime che pratica la crudeltà e l’umiliazione sistematica, in breve, un regime disumano. Il compromesso sbagliato è quel compromesso che non deve essere mai siglato, costi quel che costi. Ora, la Rivoluzione culturale di Mao è stata un paradigma di efferatezza e di repressione. Quel che si può dire di positivo riguardo l’accordo di Nixon con Mao è che, alla prova dei fatti, non contribuì a prolungare il regime disumano di Mao. Nixon non ha per nulla spianato la strada alla Cina per lasciarsi alle spalle la Rivoluzione culturale, non più di quanto gli scudi stellari di Reagan abbiano contribuito a far crollare il comunismo nell’Unione Sovietica. Se il giorno segue la notte, ciò non significa che la notte produce il giorno. In Russia e in Cina si è assistito a tutta una serie di implosioni interne, e sono state queste a produrre i cambiamenti menzionati, piuttosto che l’intervento mirato delle politiche americane.
Trasformare le conseguenze casuali che seguono un accordo nella giustificazione dei compromessi sbagliati è una pessima mossa. Dalla bocca di Obama, la cosa è doppiamente riprovevole, perché malgrado tutto il suo realismo traballante, il suo idealismo resta uno dei pochi fari di speranza di cui dispone oggi il pianeta. Nel mio libro constato l’esistenza di forti tensioni tra pace e giustizia. Pace e giustizia non sono sempre complementari come pane e salame, ma piuttosto in antitesi, come tè e caffè. Per amore della pace, una pace durevole, bisognerà rinunciare a un po’ di giustizia in nome del realismo.
Insistere sulla pace giusta è un invito aperto all’irredentismo e a conflitti protratti e irrisolti. Non è questa la visione di Obama: «Solo una pace giusta, fondata sui diritti innati e la dignità di ciascun individuo, può essere davvero duratura».
In un certo senso, è impossibile controbattere alle parole di Obama, sarebbe come voler negare l’affetto materno e l’amicizia. Ma è proprio qui che occorre far leva sul nostro senso di realismo. Nel nome del realismo, dobbiamo ricercare solo la pace, anziché una pace giusta.
dose di realismo a un’adunata di volenterosi sempliciotti che abitano nel paese dei fiordi.
Ha ricordato loro che un mondo imperfetto deve sopravvivere non solo grazie all’ideale pacifista della non violenza, ma anche attraverso l’adozione della teoria della guerra giusta.
Una teoria che ci spiega a quali condizioni una guerra può dirsi moralmente giustificata. È necessario tuttavia capire il realismo di Obama riguardo la guerra in Afghanistan perché il realismo, nei confronti dei conflitti armati, fa parte integrante della dottrina della guerra giusta.
La distinzione principale in tale dottrina è tra la giustificazione della guerra e la giustificazione del comportamento da tenere in guerra. Pertanto se la giusta causa è condizione fondamentale per l’avvio di una guerra, la distinzione tra combattenti e civili è ciò che detta il comportamento corretto da tenersi durante il conflitto. Obama ha fatto riferimento a entrambe queste condizioni, e ad altre ancora. Il presidente, tuttavia, ha omesso una condizione importante per giustificare l’avvio o il perdurare di una guerra.
Si tratta della ragionevole previsione di successo.
Non è solo stupido, ma anche immorale andare in guerra, o proseguire una guerra, senza alcuna prospettiva di vittoria.
Non basta avere la giusta causa dalla propria parte, altrettanto importanti sono le concrete possibilità di vittoria.
Come ammiratore di Barack Obama, ho ascoltato attentamente i suoi discorsi sull’Afghanistan e devo ammettere che a nessun punto il presidente ha menzionato la possibilità di vittoria come condizione determinante. Ovviamente ci chiede un atto di fede, ma la fede va sempre sottoposta al pensiero critico. Se il principale obiettivo della guerra è quello di sconfiggere Al Qaeda, allora bisogna riconoscere che anziché mettere in campo un battaglione di marines sarebbe meglio schierare una divisione di contabili e banchieri occhialuti, di genietti dell’informatica e di persone che conoscano bene le lingue della regione.
La guerra in Afghanistan al giorno d’oggi ha ben poco a che vedere con la sconfitta di Al Qaeda. Il vice presidente Biden ha visto giusto, quando ha affermato che combattere Al Qaeda non equivale a combattere in Afghanistan; e impedire che l’arsenale nucleare del Pakistan finisca nelle mani degli islamisti non ha alcun nesso con il conflitto in Afghanistan, dove l’esercito pachistano rappresenta un problema altrettanto spinoso della presenza dei talebani.
La teoria della guerra giusta esige un giusto scopo per scendere in guerra e continuare la guerra. E non vale come giusto scopo il voler continuare la guerra per la paura politica di essere accusati dai generali di averli pugnalati alle spalle, non consentendo loro di finire il lavoro.
George C. Marshall si rifiutò, alla fine della Seconda guerra mondiale, di gareggiare con l’Unione Sovietica per raggiungere per primo Berlino — malgrado gli evidenti vantaggi politici — dicendo: «Non mi perdonerei mai di aver rischiato la vita dei miei soldati per motivi puramente politici». Marshall, vorrei ricordarlo, è stato uno dei pochi candidati — su una lista tanto lunga quanto imbarazzante — che avrebbe davvero meritato il Nobel per la pace.
Non è stata solo la dottrina della guerra giusta invocata da Obama a infondere una carica di realismo, ma anche quello che il presidente americano considera realismo nel proporre accordi e compromessi internazionali. Nelle sue parole: «Alla luce degli orrori della Rivoluzione culturale, l’incontro tra Nixon e Mao appariva imperdonabile, eppure spianò la strada a un nuovo corso per la Cina, grazie al quale milioni dei suoi cittadini sono stati riscattati dalla povertà e hanno ritrovato il contatto con le società aperte».
Nel mio ultimo libro On compromise and rotten compromises ( «Sul compromesso e sui compromessi sbagliati»), definisco compromesso sbagliato un accordo per stabilire o mantenere in piedi un regime che pratica la crudeltà e l’umiliazione sistematica, in breve, un regime disumano. Il compromesso sbagliato è quel compromesso che non deve essere mai siglato, costi quel che costi. Ora, la Rivoluzione culturale di Mao è stata un paradigma di efferatezza e di repressione. Quel che si può dire di positivo riguardo l’accordo di Nixon con Mao è che, alla prova dei fatti, non contribuì a prolungare il regime disumano di Mao. Nixon non ha per nulla spianato la strada alla Cina per lasciarsi alle spalle la Rivoluzione culturale, non più di quanto gli scudi stellari di Reagan abbiano contribuito a far crollare il comunismo nell’Unione Sovietica. Se il giorno segue la notte, ciò non significa che la notte produce il giorno. In Russia e in Cina si è assistito a tutta una serie di implosioni interne, e sono state queste a produrre i cambiamenti menzionati, piuttosto che l’intervento mirato delle politiche americane.
Trasformare le conseguenze casuali che seguono un accordo nella giustificazione dei compromessi sbagliati è una pessima mossa. Dalla bocca di Obama, la cosa è doppiamente riprovevole, perché malgrado tutto il suo realismo traballante, il suo idealismo resta uno dei pochi fari di speranza di cui dispone oggi il pianeta. Nel mio libro constato l’esistenza di forti tensioni tra pace e giustizia. Pace e giustizia non sono sempre complementari come pane e salame, ma piuttosto in antitesi, come tè e caffè. Per amore della pace, una pace durevole, bisognerà rinunciare a un po’ di giustizia in nome del realismo.
Insistere sulla pace giusta è un invito aperto all’irredentismo e a conflitti protratti e irrisolti. Non è questa la visione di Obama: «Solo una pace giusta, fondata sui diritti innati e la dignità di ciascun individuo, può essere davvero duratura».
In un certo senso, è impossibile controbattere alle parole di Obama, sarebbe come voler negare l’affetto materno e l’amicizia. Ma è proprio qui che occorre far leva sul nostro senso di realismo. Nel nome del realismo, dobbiamo ricercare solo la pace, anziché una pace giusta.
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