"Se si affronta l’Iran e la sua aspirazione all’atomica, non si può continuare nell’attuale finzione, e nascondere a se stessi come fa Obama che all’origine di tanti terremoti medio orientali c’è un non detto, che nessuno osa scoperchiare: l’esistenza in quella parte del mondo di una potenza atomica lo Stato d’Israele che non si dichiara tale e però incita un’intera regione al risentimento costante e al riarmo." Lo scrive Barbara Spinelli sulla STAMPA di oggi, 11/12/2009, a pag. 1-35, verso la fine di un lungo articolo nel quale, anche lei, cerca di lanciare una scialuppa di salvataggio al presidente americano. Ma è quella frase che abbiamo riportato, che ci fa pensare fino a quale punto l'odio per Israele possa accecare la mente umana. Chiediamo ai nostri lettori di scrivere al direttore della Stampa Mario Calabresi per chiedergli se condivide l'opinione della Spinelli, e se non valuti l'opportunità di dare spazio a chi la pensa diversamente. La sua e-mail è al fondo dell'articolo.
Ecco l'articolo:
Barbara Spinelli
Barack Obama non ha nascosto il padre spirituale di cui si sente figlio e erede, ieri a Oslo ricevendo il premio Nobel della pace: se non ci fosse stato prima di lui Martin Luther King, a battersi per i diritti dei neri e a ricevere nel 1964 lo stesso premio, lui non sarebbe alla testa degli Usa.
Se sono qui è in conseguenza diretta del lavoro che King svolse un’intera vita. Sono la viva testimonianza della forza morale della non violenza». Il Presidente ha parlato anche della purezza dell’indignazione che le guerre, sempre, suscitano nell’animo umano: «Non c’è nulla di debole, nulla di passivo, nulla d’ingenuo, nel credo e nell’esistenza di uomini come Gandhi e King».
Ma pace e guerra sono immerse nella storia, e di quest’ultima lo statista deve tener conto. Deve esser cosciente che la storia non è lineare e progressista, non conferma la perfezione umana, non produce pace universale con mezzi sempre pacifici, non è gravida di guerre che mettono fine a tutte le guerre. Non è neppure una storia di rivoluzioni che cambiano la stoffa di cui è fatto l’essere umano, rendendolo infine buono, mite, ed estromettendo con un gesto volitivo il male dalla terra. Sogni simili furono alla base delle guerre sante quelle cristiane di ieri, quelle di chi pretende oggi di combattere in nome dell’Islam e sempre precipitarono in disastri, tanto più devastanti quanto più predicavano l’amore: «Le crociate ci ricordano che nessuna Guerra santa può mai essere guerra giusta».
Dopo anni di visioni apocalittiche del mondo l’umanità va piegata sotto il giogo di un’unica verità straboccante, va condotta anche contro voglia verso nuove rive dell’essere l’America di Obama ripensa il passato, riscopre il concetto di guerra giusta che il cristianesimo teorizzò nel IV secolo, fa propria infine la visione, kantiana, di un mondo non perfetto ma fallibile e perfettibile, che ha diritto a non esser piegato ma illuminato.
È di Kant l’idea che nessuno sulla terra ha in mano la perfezione: «Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto». Obama sembra pensare al legno storto di cui sono fatti uomini e nazioni, quando invita a non illudersi («Il male esiste nel mondo»), e giunge alla conclusione che neppure chi dirige gli uomini, quale che sia il regime in cui si trova, possiede le chiavi appropriate del presente e futuro. Perché il perfezionamento funzioni occorre che le istituzioni prendano il posto degli uomini e dei politici, perché solo le istituzioni hanno continuità nel tempo, edificano nel lungo periodo, non dipendono né dai sondaggi né dal voto. Creare istituzioni internazionali che tengano a freno le guerre, che le prevengano, che ne disciplinino le regole evitando straripamenti destinati a mietere più vittime tra i civili che tra i guerrieri, fu la grande lezione appresa nelle due ultime guerre mondiali.
Anche le guerre giuste infatti degenerano, non rappresentano la soluzione del dramma. La guerra fra nazioni, condotta nella persuasione che la forza fondi il diritto, fu teorizzata da Thomas Hobbes nel XVII secolo ma era già invisa a Tucidide nella Guerra del Peloponneso. Anche qui è Kant che prende il sopravvento, con la sua Repubblica cosmopolita resa forte dal diritto, contro la seduzione che Hobbes ha esercitato sulle menti americane per decenni.
Obama è immerso ancor oggi in due guerre una che ha deciso di finire in Iraq, l’altra che intende inasprire in Afghanistan ma finendola nel 2011 e può apparire singolare che riceva fin d’ora il premio della pace. Tuttavia i cambiamenti ci sono, visibili. La sua non sembra essere la guerra della superpotenza che non tollera concorrenti e agisce senza curarsi del parere altrui, come nelle metafore marziane dei neo-conservatori statunitensi. Non è neppure la «guerra infinita» contro il terrorismo annunciata da Bush figlio, e del tutto svanita è l’idea che solo in tal modo con una sorta di palingenetica Guerra Santa il male sarà estirpato (un libro pubblicato nel 2004 da Richard Perle e David Frum aveva precisamente questo titolo: La fine del male, in italiano Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore). Evocando indirettamente quel che dissero Agostino e Tommaso d’Aquino sulla guerra giusta, Obama fissa le regole: l’offensiva deve essere l’ultima risorsa, deve esser proporzionata all’aggressione, non deve far vittime civili esorbitanti. E promette fedeltà alle istituzioni, alle convenzioni internazionali, alle norme etiche che Bush jr aveva ignorato nel corso delle sue guerre.
Tuttavia Obama non si accontenta di questi limiti, che sono stati fissati alle condotte belliche. Forse è l’umiltà che lo anima, forse il cammino ancora aleatorio che sta percorrendo: fatto sta che non è una certezza univoca che lo guida, ma la consapevolezza del dilemma tra pace e guerra.
Obama non sceglie la guerra giusta contro il sogno che mette fine alle guerre e le rifiuta. Vive dentro la contraddizione, considera egualmente valide ambedue le verità, accetta l’esistenza di un conflitto fra verità che non è sanabile. È vero, le guerre a volte sono non solo necessarie ma moralmente giustificate: non si poteva abbattere Hitler o il Giappone imperiale senza le armi. Non si può abbattere Al Qaeda senza le armi, probabilmente. Ma non meno vero è quello che dicevano King e Gandhi. «La guerra in sé non è mai gloriosa conclude Obama e mai dobbiamo strombazzarla come tale. (...) Per quanto giustificata, la guerra è garanzia sicura di umana tragedia».
La via di uscita dal dilemma è il paradosso: bisogna sapersi riconciliare col nemico, lasciargli fino all’ultimo una porta aperta, anche se può venire il momento in cui occorre la resa dei conti militare. Non bisogna respingere guerre che si ritengono giuste, anche se esse spargono comunque sofferenza. Pensare per paradossi la guerra e la pace comporta, secondo il Presidente, una «continua espansione della nostra immaginazione morale».
Non mancano le trappole, per chi vive sì vasti dilemmi nelle vesti di Presidente e comandante in capo della potenza americana. Se si affronta l’Iran e la sua aspirazione all’atomica, non si può continuare nell’attuale finzione, e nascondere a se stessi come fa Obama che all’origine di tanti terremoti medio orientali c’è un non detto, che nessuno osa scoperchiare: l’esistenza in quella parte del mondo di una potenza atomica lo Stato d’Israele che non si dichiara tale e però incita un’intera regione al risentimento costante e al riarmo. L’altra trappola è racchiusa nella stessa umanizzazione delle guerre. La storia degli ultimi decenni ha visto molti conflitti seminare devastazioni del tutto sproporzionate fra i civili, proprio perché a puntellarli c’era una vasta rete di soccorso umanitario. Una guerra che avviene in simultanea con l’attivarsi degli organismi umanitari è la tesi del filosofo Slavoj Zizek, o dell’architetto israeliano Eyal Weizman rischia di separare ogni distinzione fra guerriero e soccorritore-infermiere: prolungando indefinitamente le attività belliche, rendendole più efficienti.
Sono trappole che possono divenire perverse, e rendere ingiusto quel che inizialmente era o appariva giusto. Se non sono riconosciute come insidie reali rischiano di dar ragione alle parole, citate ieri da Obama, di Luther King: «La violenza non genera una pace permanente. Non risolve nessun problema sociale: ne crea solo di nuovi e più complicati».
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