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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.12.2009 Fareed Zakaria nega l'evidenza sull'invio di altre truppe in Afghanistan
Troppo occupato a elogiare Obama per ammettere che la sua decisione ricorda Bush

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 dicembre 2009
Pagina: 10
Autore: Fareed Zakaria
Titolo: «Meno politica estera, più economia: è una presidenza post-imperiale»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/12/2009, a pag. 10, l'articolo di Fareed Zakaria dal titolo " Meno politica estera, più economia: è una presidenza post-imperiale ".

L'articolo è un elogio della politica estera di Obama.
Zakaria scrive : "
Vuole una politica estera più chiara e avveduta, che ridimensioni i grandi impegni e gli interventi illimitati dell’era Bush e che possa essere anche più controllata dell’approccio di Bill Clinton alle questioni mondiali. Obama sta cercando una politica post-imperiale nel mezzo di una crisi imperiale. Un surge mirato — inviare truppe per riguadagnare terreno, ma poi ritirarle — è la sua risposta a questo dilemma.". La politica delle mani tese di Obama verso il regime iraniano, verso la Siria, verso la Turchia, verso la Russia, verso la Cina, verso l'America Latina, verso l'islam in generale, non ha portato risultati positivi. La scelta di inviare più truppe in Afghanistan è in perfetta continuità con la linea di Bush, ma Zakaria è troppo occupato a elogiare Obama per ammetterlo e tenta una diversa interpretazione.
La politica estera di Obama finora è stata un flop. Speriamo che questa decisione segni l'inizio di una svolta. Ecco l'articolo di Zakaria:

 Fareed Zakaria

Il discorso di Barack Obama sull’Afghanistan della scorsa settimana — ad eccezione di una sola frase — era tutto rivolto a definire e limitare la portata della missione americana in quel Paese. Il suo scopo, ha detto, era «rigorosamente circoscritto». Gli obiettivi di cui ha parlato erano esclusivamente militari: impedire che Al Qaeda avesse un rifugio sicuro, fare arretrare l’offensiva dei talebani e rafforzare le forze di sicurezza del governo di Kabul. Non ha menzionato quasi affatto obiettivi di più ampia portata, come diffondere la democrazia, proteggere i diritti umani o sostenere l’istruzione femminile. La nazione che aveva interesse a costruire, ha spiegato, era l’America.

Poi c’è stata quella frase: «Ho deciso che è nel vitale interesse della nostra nazione inviare 30 mila soldati statunitensi in Afghanistan». Questo è il punto più delicato della politica di Barack Obama.

Vuole una politica estera più chiara e avveduta, che ridimensioni i grandi impegni e gli interventi illimitati dell’era Bush e che possa essere anche più controllata dell’approccio di Bill Clinton alle questioni mondiali. Obama sta cercando una politica post-imperiale nel mezzo di una crisi imperiale. Un surge mirato — inviare truppe per riguadagnare terreno, ma poi ritirarle — è la sua risposta a questo dilemma.

Questo primo anno di presidenza è stato una finestra aperta sulla visione del mondo di Barack Obama. La maggior parte dei presidenti, una volta arrivati al potere, non riescono a resistere alla tentazione di diventare dei Winston Churchill. Vengono attratti dalla retorica altisonante su libertà e tirannia e si sentono investiti degli attributi morali legati al loro ruolo di leader del mondo libero. Anche il vecchio Bush, un pragmatista senza rivali, nel discorso alle Nazioni Unite cedette alla retorica e parlò di «un nuovo ordine mondiale». Non così Obama, che è stato freddo e calcolatore nel confrontarsi con la Russia e con l’Iran, con l’Iraq e con l’Afghanistan. È un grande oratore, ma sa tenere a bada la sua eloquenza. Obama è un realista per temperamento, educazione e istinto. Più di qualsiasi altro presidente dai tempi di Nixon si è impegnato a verificare attentamente gli interessi americani, a trovare le risorse per raggiungerli e tenere d’occhio il risultato.

Nel 1943 il giornalista Walter Lippmann definì la politica estera «un equilibrio tra gli impegni della nazione e la sua forza, con un buon margine di forza di riserva».

Solo così gli Stati Uniti avrebbero potuto ottenere stabilità strategica all’estero e sostegno in patria. Consapevolmente o no, Obama ha evocato Lippmann quando ha detto: «Come presidente rifiuto di fissare degli obiettivi che vadano oltre la nostra responsabilità, i nostri mezzi o i nostri interessi».

«In ultima istanza — ha detto il presidente — la nostra sicurezza e la nostra leadership non derivano solamente dalla forza delle nostre armi».

Ha spiegato che è la vitalità economica e tecnologica dell’America a sostenere il suo ruolo nel mondo. La scorsa settimana, a un pranzo con un gruppo di giornalisti (tra cui c’ero anch’io), Obama ha detto chiaramente di non voler gestire due guerre. Sembrava sottintendere che quelle guerre — in Iraq e in Afghanistan — non erano il passaggio cruciale per garantire la sicurezza a lungo termine dell’America. Ha spiegato che erano le sfide interne — la crescita economica, l’innovazione tecnologica, la riforma dell’istruzione — a essere fondamentali per mantenere all’America la posizione di superpotenza.

È sempre più evidente che Obama sta facendo un tentativo molto ambizioso: riorientare la politica estera americana verso tendenze meno dispendiose e conflittuali. E comincia ridimensionando la guerra al terrore; limitando il conflitto con il mondo islamico a quei gruppi e Paesi che pongono minacce serie e
dirette all’America, e riavvicinandosi agli altri. Obama ha anche cercato di creare migliori relazioni tra l’America e altre grandi potenze come la Russia e la Cina, mettendo da parte le questioni minori nella speranza di trovare cooperazione in quelle di maggior portata. Obama sta cercando di spezzare la logica secondo la quale, quando un presidente americano va a negoziare con i cinesi o i russi, deve ritornare con dei risultati o delle concessioni a suo favore, altrimenti è accusato di essere troppo accomodante.(..) L’America non ha abbandonato l’Iraq e non abbandonerà l’Afghanistan. Ma si spera che Obama tenga bene a mente una lezione del Vietnam: il ritiro da una situazione complicata e confusa non ha danneggiato in modo permanente la sicurezza nazionale dell’America. Nel 1975 gli Stati Uniti uscirono dal Vietnam del Sud nella maniera più umiliante possibile, e a questo fecero seguito rovesci in Africa, America centrale e Iran.

Dieci anni dopo l’America aveva però
riconquistato la posizione di leader mondiale, e quindici anni dopo il suo avversario principale, l’Unione Sovietica, era crollato. La ragione principale di questa ripresa non era legata alla politica estera, bensì alla sua capacità di ridare forza all’economica interna, motore del suo status di superpotenza.

La storia delle grandi potenze insegna che per mantenere il proprio status esse devono aver cura soprattutto delle fonti del loro potere: la crescita economica e l’innovazione tecnologica. Devono anche rivolgere la loro attenzione ai centri del potere globale, non alla periferia. Nel corso della storia le grandi nazioni hanno perso la leadership mondiale quando si sono impegolate in lontane missioni imperiali che ne hanno incrinato volontà, forza e determinazione. (Anche quando hanno vinto: la Gran Bretagna prevalse nella guerra boera, ma l’impero ne uscì fortemente indebolito). È importante ricordare che in questo secolo sarà la posizione dominante dell’America in Asia - il suo ruolo di regolatore degli equilibri
nel Pacifico - a determinarne la condizione di superpotenza globale, non quel che avverrà nelle montagne dell’Afghanistan.

Obama dovrà mantenere il traguardo del luglio 2011. Permettetemi di azzardare una previsione. Per quella data l’Afghanistan non sarà trasformato. Non sarà come la Francia, non avrà un governo centrale forte ed efficiente. Le conquiste fatte saranno fragili. La situazione rimarrà alquanto instabile. Ma quello dovrà comunque essere il momento di iniziare la transizione verso un governo afghano. Alla fine del 2011 gli Stati Uniti avranno cercato per dieci anni di creare dei governi stabili e democratici in Iraq e in Afghanistan, due dei Paesi più difficili e divisi del mondo, e nel farlo avranno perso migliaia di soldati e speso 2.000 miliardi di dollari. Sarà ora di voltare pagina.

Il realismo di Obama sarà sicuramente interpretato come segno di debolezza e di indifferenza verso i diritti umani, la democrazia e altri valori. In realtà Obama probabilmente capisce l’immenso valore morale di una superpotenza impegnata e pronta ad agire. Come ha detto nel suo discorso, «Più di ogni altra nazione, gli Stati Uniti d’America si sono assunti la responsabilità della sicurezza mondiale per oltre sessant’anni — periodo in cui, nonostante tanti problemi, si sono visti muri cadere, mercati aprirsi, miliardi di persone affrancarsi dalla povertà, la scienza fare progressi senza precedenti e le frontiere della libertà umana avanzare». Negli ultimi sessant’anni stabilità, pace, prosperità e libertà hanno fatto grandi passi avanti, e non per caso.

Come ha detto Obama, «Abbiamo versato il sangue degli americani in molti Paesi di diversi continenti. Abbiamo speso il denaro dei nostri contribuenti per aiutare gli altri a ricostruire da zero e a far crescere la loro economia. Ci siamo uniti ad altri per creare una rete di istituzioni — dalle Nazioni Unite alla Nato alla Banca Mondiale — che si dedicano alla sicurezza e alla prosperità comune degli esseri umani». Si dice che Obama sia un ammiratore del grande teologo Reinhold Niebuhr. La politica di Obama — portare nel mondo una visione positiva, ma facendo attenzione a non andar troppo oltre — è la messa in pratica del pensiero di Niebuhr. Questa è stata da sempre la miglior impostazione morale del realismo americano in politica estera, come interpretata da Franklin Roosevelt o da Dean Acheson. Privilegiando i grandi obiettivi della pace e della stabilità, mantenendo la nostra idea di un mondo libero e aperto, contribuiamo a promuovere nel mondo tendenze positive e di vasta portata, profonde e durature. In altre parole, il ruolo di superpotenza forte e vincente è quello di rendere possibili buone iniziative. Non solo per le scolare afghane, ma per milioni di persone nel mondo.

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