La politica estera di Obama non è per il cambiamento, ma per la stabilità Analisi di Christian Rocca, redazione del Foglio, Edward Luttwak
Testata: Il Foglio Data: 09 dicembre 2009 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca - La redazione del Foglio Titolo: «Il realismo di Obama - Se vuoi il Nobel per la Pace,fai la guerra - Teodosio a Kabul»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/12/2009, a pag. 1-4, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Il realismo di Obama ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Se vuoi il Nobel per la Pace,fai la guerra ", a pag. III, l'articolo di Edward Luttwak dal titolo " Teodosio a Kabul ". Ecco gli articoli:
Christian Rocca : " Il realismo di Obama "
Christian Rocca
L’America sta scoprendo che la politica estera di Barack Obama non è per il cambiamento ma per la stabilità, non ha tra le sue priorità l’espansione della democrazia, la diffusione della libertà e la difesa dei diritti umani come da manuale del perfetto presidente di centrosinistra, ma solo il più stretto interesse nazionale. La copertina di Newsweek è dedicata al ridimensionamento della politica estera americana, malgrado l’escalation della guerra in Afghanistan e in Pakistan. Il mensile di sinistra American Prospect sostiene che “per Obama, la democrazia è una brutta parola”. Tutto ciò non può essere considerato una sorpresa, non è una promessa non mantenuta. In campagna elettorale, Obama ha detto più volte che il suo approccio alla politica estera sarebbe stato simile a quello del primo presidente Bush, il padre di George W. e il campione più recente della Realpolitik americana. Analisi confermata ieri dal Wall Street Journal. Bush senior è stata l’eccezione realista degli ultimi trent’anni alla Casa Bianca. Prima di lui ci sono stati Jimmy Carter, la cui politica estera era centrata sulla difesa dei diritti umani, e Ronald Reagan la cui dottrina si basava sulla “moral clarity”, la chiarezza morale delle intenzioni e delle azioni americane. Poi un altalenante Bill Clinton, ma pur sempre liberatore dei Balcani, e il democratizzatore del medio oriente Bush. Dopo la sbornia bushiana post 11 settembre, a lungo sostenuta da intellettuali, politici e commentatori di sinistra, il mondo liberal si è ripiegato su se stesso, ha iniziato a giudicare con sospetto l’idea di promuovere la democrazia ed è tentato dal rifugiarsi nell’isolazionismo, una delle dottrine tradizionali della politica estera americana, ma solitamente abbracciata dalla destra. Ovviamente non è tutto bianco o nero. I presidenti americani non sono ideologi, ma politici impegnati a difendere gli interessi del loro paese e a essere rieletti. Sono allo stesso tempo idealisti e pragmatici, visionari e attenti agli equilibri di potere. L’approccio di Obama è ancora più pragmatico e meno ideologico del passato. Quando annuncia azioni di sicurezza nazionale, come sull’Afghanistan, sembra un docente universitario abile a ponderare ogni aspetto strategico della crisi più che un leader capace di comunicare al pubblico necessità e urgenza del sacrificio chiesto ai connazionali. A differenza dei suoi ispirati discorsi sul fronte interno, quando parla di politica estera risulta freddo, distaccato, non convincente. La destra lo accusa di non volersi impegnare a fondo per sconfiggere i nemici, la sinistra si infuria per l’escalation militare e con Michael Moore e Oliver Stone riesuma gli slogan sulla Casa Bianca guerrafondaia usati contro Bush. C’è anche gente più saggia, capace di valutare in modo sereno l’approccio obamiano. I neoconservatori del Weekly Standard hanno molto da dire sulla mancanza di passione del presidente, ma lo sostengono per la coraggiosa scelta di non cedere ai talebani. Newsweek analizza con Fareed Zakaria il paradosso obamiano, un presidente alla ricerca di una politica estera post imperiale costretto però ad ampliare lo sforzo bellico: “Gran parte dei presidenti non riesce a resistere alla tentazione di diventare Winston Churchill e a lanciarsi in una grande retorica sulla libertà e la tirannia. Non Obama, però”. A sinistra, anche quella meno rumorosa, questo approccio non piace. Il Nobel per la pace non può sviare su libertà, diritti e democrazia. C’è chi contesta a Obama il disinteresse sul Darfur, chi di non aver sostenuto i democratici di Teheran e chi di non occuparsi delle donne afghane. James Rubin, al governo ai tempi di Clinton, lo invita a centrare la sua politica estera sui diritti umani. L’American Prospect racconta che i militanti pro democracy si sono certamente opposti ai tentativi di Bush di imporre la libertà sulla punta delle baionette, ma ora sono preoccupati che l’approccio di Obama non sia tanto meglio. “La politica estera degli Stati Uniti – ha detto qualche tempo fa Hillary Clinton spiegando la strategia obamiana – si basa su tre ‘D’: difesa, diplomazia, development (sviluppo)”. La quarta ‘D’, democrazia, non c’è.
" Se vuoi il Nobel per la Pace, fai la guerra "
Non sono affatto paradossali i dati dei due sondaggi Quinnipac diffusi ieri mattina negli Stati Uniti. Il primo rivela che soltanto il 26 per cento degli americani crede che Barack Obama meriti il Nobel per la Pace, il premio che andrà a ritirare domani a Oslo forse con una punta di imbarazzo per aver appena autorizzato un’escalation militare in Afghanistan e in Pakistan e che certamente onorerà con un altro gran discorso. Rileggete la cifra: solo il 26 per cento. E’ una percentuale inferiore a quella degli americani che credono negli angeli (55 per cento), negli Ufo (34) e nei fantasmi (34). L’altro sondaggio, invece, racconta che il 57 per cento degli americani crede che sia giusto combattere la guerra in Afghanistan, una percentuale più alta di nove punti rispetto alla rilevazione fatta prima del discorso di Obama della settimana scorsa. Gli americani, insomma, sanno che in certi momenti decisivi la pace si fa con la guerra, sconfiggendo quei guerrasantieri di Allah che ancora ieri a Baghdad si sono fatti saltare in aria uccidendo innocenti, donne e bambini, non seguendo i suggerimenti da Alice nel paese delle meraviglie del glorioso e un po’ fesso popolo della pace. Questi sondaggi confermano che la pace si ottiene difendendo con la forza militare l’iniziativa dei governi certamente imperfetti e traballanti, ma pur sempre costituzionali, dell’Iraq e dell’Afghanistan, non lasciandoli alla mercé degli stupratori e dei tagliatori di teste in nome di Allah. “Il discorso di Obama sull’aumento delle truppe in Afghanistan è stato trasmesso in diretta tv e ha funzionato – ha detto il direttore dell’istituto demoscopico – Per il presidente probabilmente è un bene che la cerimonia di premiazione del Nobel potrebbe avere una copertura minore negli Stati Uniti a causa della differenza di fuso orario con la Norvegia e del fatto che la gran parte degli americani a quell’ora sarà ancora a letto”. Il capo del Pentagono Bob Gates, ieri in visita a Kabul, ha detto che “siamo in ‘questa cosa’ con l’obiettivo di vincere”. Il capo di stato maggiore Mike Mullen ha assicurato ai marines in partenza per l’Afghanistan che in programma “non ci sono scadenze, non ci sono date di rientro, non c’è exit strategy”. In programma c’è solo l’annientamento dei jihadisti. A quel punto, il Nobel per la Pace sarà più che meritato.
Edward Luttwak : " Teodosio a Kabul "
Edward Luttwak
Che cosa avrebbero fatto i bizantini, padroni dell’impero durato più a lungo in tutta la storia, se si fossero trovati ad affrontare il problema dell’Afghanistan, troppo costoso per rimanervi e troppo rischioso per essere abbandonato? A differenza dall’approccio stile impero romano adottato dal presidente americano Barack Obama, consistente nell’inviare più truppe e spendere più denaro, i bizantini avrebbero mandato al massimo un piccolo contingente del proprio esercito (già allora alquanto ridotto e poco costoso) e avrebbero invece armato i tagiki, gli hazara e gli uzbeki (tutti i quali appartengono al ceppo pashtun, pur essendo ben differenziati tra loro) per farli combattere contro i talebani. Questa era la loro strategia normale nei confronti di paesi turbolenti e privi di valore, che non potevano essere nemmeno sottoposti a tassazione, ma che non si poteva neppure lasciare in mano al nemico. Anche per la nostra presente situazione non si tratterebbe di un semplice caso di divide et impera, innanzitutto perché non c’è una nazione afghana unita che si possa dividere, ma ancor più perché lo scopo non sarebbe affatto quello di governare, ma soltanto di impedire che a comandare siano i talebani. Non ci sarebbe bisogno di una grande forza di persuasione. Gli hazara sciiti si oppongono ai talebani, dai quali sono considerati degli eretici, mentre tagiki e uzbeki rifiutano di accettare qualsiasi forma di loro dominio. Comunque, non c’è alcun bisogno di invocare la saggezza bizantina per smentire la falsa obiezione che al Qaida e altre organizzazioni terroristiche acquisirebbero nuove basi operative nel territorio controllato dai talebani. I terroristi non hanno bisogno di alcuna base: non ne hanno avuto bisogno per gli attentati del 2001 a New York, del 2004 a Madrid o del 2005 a Londra. I bizantini avrebbero inoltre messo in campo tutte le loro articolate strategie diplomatiche per ottenere la collaborazione dei vari paesi vicini all’Afghanistan. Così, ad esempio, i bizantini riuscirono a convincere il loro grande rivale, l’imperatore sassanide, a dividersi i costi del pattugliamento dei passi caucasici per impedire qualsiasi possibilità di invasione. Quanto al nostro caso specifico, anche l’Uzbekistan, situato immediatamente a nord dell’Afghanistan e con la Russia, suo protettore, alle spalle, vuole impedire che i talebani assumano il comando del paese. Di conseguenza, i bizantini richiederebbero come minimo un contributo per armare gli hazara, i tagiki e gli uzbeki: armi e munizioni alla Russia, mezzi e vie di trasporto all’Uzbekistan. Questo servirebbe a far risparmiare parecchio denaro, e né l’Uzbekistan né la Russia rifiuterebbero probabilmente il loro appoggio: infatti, a differenza degli Stati Uniti, non possono ritirarsi sul proprio territorio a migliaia di chilometri di distanza. Dal Pakistan invece non ci si può aspettare un’analoga collaborazione. I talebani sono stati originariamente pagati e armati, se non direttamente creati, dai servizi segreti pachistani, il nucleo islamista delle Forze armate, che governano il paese in modo dittatoriale. L’obiettivo di trasformare l’Afghanistan in una colonia pachistana attraverso la conquista talebana dell’intero paese era stato quasi raggiunto prima dell’11 settembre 2001, quando la presenza sul territorio di al - Qaida, che non rispondeva ad alcuno scopo strategico per il Pakistan ma serviva semplicemente a dare soddisfazione alle aspirazioni islamiste, fece scattare l’invasione americana che ha portato alla distruzione dei talebani e fatto fallire il disegno dei servizi segreti pachistani. Mentre a New York le macerie delle Torri gemelle erano ancora fumanti, l’infuriata Amministrazione Bush richiese prima la collaborazione dei pachistani per attaccare i talebani e trovare le basi operative di al Qaida e poi anche la rimozione degli elementi più fanatici all’interno dei servizi segreti, con risultati finora non molto soddisfacenti. A giudicare dal risultato delle ultime elezioni, la maggior parte dei pachistani sembra averne piene le scatole degli islamisti, delle loro violenze e delle loro infinite farneticazioni (un altro segno dei tempi: il più popolare programma televisivo del paese è presentato da un travestito senz’altro post islamico). Ma quando si tratta di interferenze in Afghanistan, di operazioni terroristiche contro obiettivi indiani, e delle enormi spese militari del paese, la casta degli ufficiali di professione, con i servizi segreti alle proprie spalle, appare saldamente al comando, infischiandosene apertamente delle opinioni dei presidenti, dei primi ministri e dei parlamentari eletti dal popolo, e ancor più dell’opinione pubblica. Così, indipendentemente da ciò che la popolazione pachistana nella sua maggioranza potrebbe desiderare, il Pakistan continuerà a fare tutto il possibile per sabotare la soluzione bizantina e rafforzare i talebani. Per il momento, gli ampi rifornimenti di armi e munizioni di cui godono i talebani arrivano necessariamente dal territorio pachistano – l’Iran sciita rifornisce i talebani soltanto saltuariamente, quando il bisogno di danneggiare gli americani prevale sul ben più prioritario obiettivo di impedire agli ultra sunniti talebani di impadronirsi dell’Afghanistan. I bizantini impiegherebbero un metodo molto semplice per neutralizzare l’inevitabile contromossa pachistana. Ai loro tempi, il profilarsi sulle loro frontiere di un nuovo nemico (i nomadi unni, avari, bulgari e magiari, che giunsero alle rive del Danubio, o i persiani, gli arabi e i selgiuchidi che, uno dopo l’altro, attaccarono la frontiera orientale) determinava immediatamente l’invio di missioni diplomatiche per trovare altre potenze che potessero essere persuase ad attaccare alle spalle i nuovi pericolosi invasori. In un caso rimasto famoso, un inviato bizantino attraversò, in mezzo a mille pericoli, l’Asia centrale, per recarsi dal sultano del primo grande impero turco e persuaderlo ad attaccare da ovest il rivale impero persiano. Non ci sarebbe bisogno di affrontare un viaggio così lungo per trovare un sicuro alleato in India, che sta già fornendo aiuti economici, sostegno politico e impegno dei propri servizi segreti nella lotta contro i talebani. Naturalmente, il governo indiano si opporrebbe categoricamente alla soluzione bizantina – per quanto riguarda gli interessi indiani, è un’ottima cosa che gli Stati Uniti impieghino numerose truppe e spendano miliardi di dollari per combattere i talebani/Pakistan. Ma se gli americani adottano la soluzione bizantina e ritirano le proprie forze, l’India non avrebbe altra scelta se non aumentare il proprio impegno. Prima dell’11 settembre, era con i soldi e le armi dell’India, e dell’Iran, che la “alleanza settentrionale” di tagiki e uzbeki riusciva a rimanere aggrappata a un piccola fetta dell’Afghanistan settentrionale, difendendola dagli attacchi dei talebani, armati e addestrati dal Pakistan. Ora, inoltre, l’India non sarebbe mai disposta a lasciare che il Pakistan trasformi l’Afghanistan in una propria colonia, e ciò che una saggia America bizantina non facesse più dovrebbe essere necessariamente fatto dall’India, inviando consiglieri militari e squadre di addestratori, se non addirittura vere e proprie unità di combattimento. Un Afghanistan abbandonato a se stesso, anche se si riuscisse a garantire un equilibrio delle forze, non rappresenterebbe certo un bello spettacolo, ma la diplomazia, bizantina o di qualsiasi altro genere, non è un campo aperto ai sentimentalismi. Nemmeno la peculiare egemonia americana è in grado di sopravvivere a questa completa mancanza di strategia che, pur di vincere guerre in posti come l’Iraq e l’Afghanistan, trascura completamente l’ascesa, del tutto pacifica ma altrettanto inesorabile, dell’America latina, dell’Europa, della Russia, del Giappone e della Cina.
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