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La Stampa Rassegna Stampa
06.12.2009 Afghanistan: la linea Bush conquista Obama
Panico fra chi voleva la resa

Testata: La Stampa
Data: 06 dicembre 2009
Pagina: 17
Autore: Tom Engelhardt
Titolo: «Obama si è arreso ai generali»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/12/2009, a pag. 17, l'articolo di Tom Engelhardt dal titolo " Obama si è arreso ai generali ".

Tom Engelhardt, fondatore del National Institute, dopo la decisione di Barack Obama di accettare la richiesta dell'invio di soldati in Afghanistan da parte del  generale Mc Chrystal, sostiene che il presidente americano "si è arreso".
Semmai il contrario. Finalmente Barack Obama sta iniziando ad analizzare la situazione con lucidità. Seguire i suoi generali, dimostrare all'esercito che non sta combattendo una guerra inutile, rassicurare la popolazione afghana che non verrà abbandonata ai talebani, non è sinonimo di arrendevolezza, ma di decisione. La guerra in Afghanistan è stata iniziata da Bush in risposta agli attentati dell'11 settembre. Occidente contro terrorismo islamico. Il fatto che Obama abbia deciso di inviare altri soldati è un messaggio chiaro ai talebani.
Ecco l'articolo:

Lasciamo che altri si occupino dei dettagli del discorso afghano del presidente Obama: dove verranno dispiegati i 30 mila soldati, i criteri per valutare il cosiddetto «buon governo» in Afghanistan, la corruzione del regime Karzai, l’applicabilità delle tecniche militari della controrivoluzione, l’affidabilità degli alleati Nato e così via. Saltiamo al punto essenziale che, in sintesi, è: Vittoria, finalmente!
C’è voluto molto tempo ma alla fine i comandanti sono riusciti a schierare in modo efficace le loro forze, manovrando abilmente ai fianchi e aggirando il nemico. Hanno «shocked-and-awed» («sconvolto e terrorizzato», secondo la dottrina Rumsfeld) gli avversari, hanno guadagnato a sè «i cuori e le menti» e così adesso sono all’apice del successo, finalmente trionfanti. No, non sto parlando dell’Iraq e nemmeno dell’Afghanistan. Parlo di ciò che sta accadendo a Washington.
Potete anche non pensarla come me, ma giovedì all’Accademia militare di West Point, nel suo primo discorso presidenziale all’ora di massimo ascolto, Barack Obama si è arreso. Può anche darsi che non vi sembri così: non era sul ponte della Missouri alla capitolazione formale dei giapponesi, non ha mai chinato il capo, non ci sono stati documenti di resa. Eppure d’ora in avanti dovrete pensare a lui non come al comandante-in-capo, ma come al comandato-in-capo. E prestar fede ai vincitori.
La loro campagna è stata geniale. Da veri banditi della politica, hanno teso un’imboscata al presidente, l’hanno tenuto in pugno con le minacce, hanno tirato dalla loro i media-chiave e i grandi capi repubblicani e alla fine sono fuggiti con il bottino. La campagna è cominciata alla fine di settembre, con una strategica fuga di notizie da parte del comandante della guerra afghana, il generale Stanley McChrystal: una precisa analisi della situazione nel Paese, corredata della richiesta di un considerevole aumento di truppe e di un impegno all’anti-guerriglia. Poi ci sono state le voci di possibili dimissioni in segno di protesta, qualora il presidente non avesse concesso nuove truppe, e i rilievi politici chiaramente insubordinati di McChrystal, per non parlare di una imponente mobilitazione di cittadini un tempo neocon, pensatoi guerrafondai e media partigiani. In questo modo i militari americani sono riusciti a mettere all’angolo un presidente che già si era intrappolato da sè in un conflitto che definiva ora «guerra giusta» ora «guerra necessaria». Dopo più di due mesi di riflessioni penosamente riferite passo dopo passo, il presidente Obama è sostanzialmente finito là dove il generale McChrystal aveva cominciato.
La dottrina della controinsurrezione (Coin, CounterInsurgency) è stata rispolverata dagli archivi del Vietnam e presentata come nuova dal generale Petraeus nel 2006, applicata in Iraq (e a Washington) nel 2007, proposta per l’Afghanistan alla fine del 2008. Ampiamente appoggiata, ha prodotto una escalation della guerra, e adesso sta per essere avviato un nuovo tipo di «costruzione della nazione» (o, come amano dire, «buon governo») guidato dall’esercito. La dottrina viene reclamizzata come approccio «popolo-centrico», e non «nemico-centrico». E i soldati americani dovranno essere «sia costruttori sia guerrieri».
Quanto ai 30 mila soldati che arriveranno nelle zone afghane di combattimento entro i prossimi sei mesi, questa cifra è ancor più impressionante se si pensa che, ancora nell’estate 2008, gli Stati Uniti avevano in Afghanistan solo 28 mila uomini. In meno di due anni la forza militare Usa sarà più che triplicata, raggiungendo le 100 mila unità. Stiamo parlando di livelli di escalation molto prossimi a quelli della guerra in Vietnam. Se poi aggiungiamo i 38 mila uomini Nato (con un possibile rinforzo di altri 5 mila), la forza totale degli alleati sarà significativamente superiore a quella dispiegata dai sovietici nella devastante guerra afghana degli Anni 80, nella quale combatterono alcuni dei ribelli ora schierati contro di noi.
Purtroppo il problema più grave non è in Afghanistan. E’ a Washington. Obama ha fatto la sua campagna elettorale con lo slogan: «Il cambiamento in cui si può credere». Poi però si è scelto una squadra incapace di cambiamenti significativi. Il risultato è che la guerra in Iraq deve ancora trovare una via di uscita, quella in Afghanistan ha subito un’enorme escalation, il Medio Oriente è in subbuglio, Guantanamo resta aperta, la rete di prigioni segrete è sempre attiva, il bilancio del Pentagono continua a crescere e presto verrà fatta al Congresso una richiesta di nuovo denaro per pagare le guerre di George Bush, nonostante le promesse contrarie.
Una squadra stantia che respira aria stantia ha garantito che l’Afghanistan, la prima delle disastrose guerre di Bush, sia ora davvero la guerra di Obama. E la notizia è arrivata direttamente da West Point, dove il presidente si è arreso al suo destino militarizzato.

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