Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/12/2009, a pag. III, l'intervista di Olivier Guez ad Alastair Crooke, dal titolo " La spia che venne dall'islam ".
Alaistair Crooke dichiara : "Con gli islamisti, non ci si siede a un tavolo per negoziare. Non si può parlare di democrazia con l’Iran dimenticando la lunghissima storia iraniana e le riflessioni dei pensatori nazionali sull’argomento (...) All’inizio di un simile processo, i due protagonisti in genere hanno visioni del tutto inconciliabili, ma procedendo ciascuno può riconoscere che la visione dell’altro è legittima. Solo giunti a quel punto di reciproco riconoscimento le parti possono cominciare le discussioni politiche. Gli islamisti sono alla ricerca di un riconoscimento, di equità; vogliono che si parli loro da pari a pari.". Sul fatto che occidente e Iran abbiano due visioni inconciliabili del concetto di democrazia e che sia impossibile negoziare con la repubblica islamica, siamo d'accordo. Ma è assurdo pensare di dover accettare i crimini commessi da Ahmadinejad e legittimare la sua visione in fatto di diritti umani. Per che cosa poi? L'Iran non rinuncerà mai al suo programma nucleare. L'occidente ha dei valori che l'islam non condivide. E' impossibile accantonarli. Inoltre negoziare significa che il compromessi devono essere fatti da entrambe le parti. Sul nucleare l'Iran non ha negoziato, ha solo avanzato pretese inaccettabili, senza concedere nulla.
Poi Crooke parla di Hamas e afferma : " Hamas ha vinto le elezioni palestinesi del 2006. Dopo la vittoria, i suoi dirigenti hanno pubblicato inserzioni sul New York Times e sul Guardian per spiegare la loro posizione. Nominando un governo, si sono assunti la propria responsabilità. Hanno dato segnali in direzione dell’occidente e mostrato che erano disponibili a discutere e l’occidente ha fatto come niente fosse. Ma nulla si farà nel conflitto israelo-palestinese senza Hamas. ". Hamas si è assunto le proprie responsabilità? Quali sarebbero? Con Hamas al potere, la Striscia si è trasformata in un lanciarazzi contro Israele. Crooke parla di segnali lanciati da Hamas all'occidente che dimostrerebbero la sua volontà di dialogare, ma non specifica quali siano stati. In ogni caso, non è con l'occidente che Hamas dovrebbe dialogare, ma con Israele. Hamas ha come obiettivo la distruzione dello Stato ebraico. Crooke si ascolti i discorsi di Haniyeh, di Meshaal.
Quando Guez fa notare che Hamas si rifiuta di riconoscere Israele, Crooke risponde : "Dopo le elezioni del 2006, Khaled Meshaal, guida di Hamas a Damasco, ha dichiarato che se gli israeliani riconoscessero i diritti dei palestinesi e ammettessero che i palestinesi sono stati vittime della storia a pari titolo degli ebrei, e se i vari elementi di eventuali negoziati fossero chiaramente definiti, allora Hamas potrebbe riconoscere la “realtà dei fatti”. ", Pretese, sono questo. I palestinesi sono vittime dei Paesi arabi che, nel 1948, hanno negato la possibilità di costruire uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. La responsabilità del conflitto non è da attribuire a Israele. Il paragone fra la situazione dei profughi e il genocidio degli ebrei, poi, non ha alcun senso. I palestinesi sono vivi e vegeti. Non sono stati sterminati.
Gli elementi dei negoziati sono chiarissimi. Israele chiede di essere riconosciuto come Stato ebraico e la fine del terrorismo palestinese. In cambio si impegna a favorire la costruzione di uno Stato palestinese e a migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti. Questo Crooke, fedele alla sua linea islamista, non lo specifica.
Nella sua difesa di Hamas, Crooke arriva a dichiarare : "Quanto ai razzi su Israele, ricordo che l’Anc di Mandela è stata a lungo un movimento armato. Se ci saranno negoziati, Hamas non disarmerà fintantoché non sarà certo dei risultati ". Non vediamo il collegamento fra Hamas, movimento terrorista che ha come unico scopo la cancellazione di Israele e della sua popolazione e Mandela, leader di un movimento che ha portato alla fine dell'apartheid in Sudafrica.
I negoziati non ci saranno perchè Hamas è in grado solo di fare pretese inaccettabili senza concedere nulla in cambio.
"Hamas lotta per la creazione di uno stato palestinese le cui frontiere siano chiaramente definite e riconosciute dalla comunità internazionale. Di riflesso, quindi, riconosce lo stato d’Israele, anche se non lo grida ai quattro venti.". Hamas sempre dichiarato di non riconoscere lo Stato ebraico. In ogni caso, non vediamo il nesso logico fra le future frontiere di uno Stato palestinese e il conseguente riconoscimento di Israele. Le due cose sono collegate logicamente solo nella mente di Crooke.
Crooke dichiara : "se mai uno stato dovesse vedere la luce, sarà demilitarizzato e la sua sicurezza sarà nelle mani degli israeliani, il che poi equivarrebbe a un’occupazione in forma diversa. ". Israele ha richiesto che lo Stato palestinese sia demilitarizzato. La motivazione è ovvia. Ma Crooke, sempre pronto a difendere Hamas, sostiene che non sia altro che una forma di occupazione. Se a Israele interessasse occupare i territori palestinesi, non si sarebbe mai ritirato da Gaza, nè Netanyahu avrebbe promesso un congelamento di 10 mesi degli insediamenti per far ripartire i negoziati.
Poi Crooke fa un collegamento incomprensibile. Secondo lui Israele non crede all'idea di pace contro la guerra e questo sarebbe evidente dal " dal ritiro unilaterale da Gaza nel 2005, e dalla guerra contro il Libano l’anno successivo.". Cooke dichiara : " Gli israeliani constatano che la frontiera nord con il Libano è calma da tre anni e che Hamas non lancia più razzi contro Sderot e dintorni dall’inverno passato ". La frontiera con il Libano non è calma. Solo poche settimane fa è stato lanciato un razzo contro Israele. In ogni caso ricordiamo a Crooke che la frontiera è sorvegliata dal contingente Unifil.
Hamas continua a lanciare razzi. Meno rispetto a un anno fa, ma il lancio non si è mai fermato del tutto. Se da Gaza non partono più razzi come prima è perchè da Israele è stata scatenata una guerra di difesa.
Ecco l'intervista:
Alastair Crooke
Signor Crooke, lei ha vissuto a lungo nell’ombra, e soltanto di recente, all’età di 60 anni, il suo nome è comparso nei media. Chi è lei?
Alastair Crooke: Tra il 1997 e il 2003 ho lavorato in medio oriente con Javier Solana, ex Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea. Vivevo a Gerusalemme e avevo l’incarico di costruire strutture di dialogo sul campo tra israeliani e palestinesi. Durante la seconda Intifada ho contribuito personalmente alla conclusione di sei cessate-il-fuoco, in particolare a Betlemme ai tempi dell’assedio alla Basilica della Natività. Facevo la spola tra la Muqata di Arafat, che vedevo regolarmente, i Tanzim, i comandanti palestinesi, e gli israeliani. Ho anche partecipato alla commissione del senatore Mitchell che ha indagato sulle cause della seconda Intifada. Il tutto si è concluso nel 2003, dopo un attentato suicida a Gerusalemme: il governo inglese chiese a Solana di congedarmi. In passato avevo ricevuto varie lettere del governo che mi invitava a tenere un maggiore riserbo nel conflitto: mi accusavano di essere troppo vicino alle posizioni arabe.
Prima di Solana, aveva lavorato per l’MI6, i servizi segreti britannici?
Ho lavorato per il governo britannico dal 1974 al 2003. La stampa sostiene che fossi nei servizi segreti. Non intendo fare commenti in proposito.
Solana è rispettato dai regimi arabi?
Per anni Solana non ha avuto sostanzialmente nessun mandato, e disponeva di pochi mezzi. Ma non appena c’era di mezzo un lavoraccio, lo davano a lui. E’ un politico abile e onesto, e nella regione è rispettato. Ma la politica dell’Ue è poco apprezzata; questa debolezza politica ha finito per ricadere su Solana.
E da parte israeliana?
Ha saputo mantere rapporti cordiali con gli israeliani, che però non si fidano davvero di nessun europeo.
Nemmeno di Sarkozy o Merkel oggi?
Nemmeno. Gli israeliani si fidano soltanto degli americani.
L’azione dell’Ue non è vista con favore da parte araba?
Quando lavoravo per l’Ue avevo l’impressione che le popolazioni la trovassero sempre più insignificante, probabilmente perché seguiva troppo la politica americana in Iraq, Afghanistan e Pakistan. L’azione dell’Ue era invisibile a molti, troppi, e la situazione dei palestinesi continuava a peggiorare. L’Ue si è spostata a destra, è troppo vicina agli americani per guadagnare credibilità presso gli arabi. L’America nel frattempo ha eletto Barack Obama. Più volte egli ha teso la mano al mondo musulmano, penso in particolare al discorso fatto al Cairo. Certo. Il mondo arabo e gli iraniani fanno una distinzione chiara tra lui e il suo predecessore. Obama usa un linguaggio diverso e un atteggiamento differente nei confronti del mondo musulmano. Ma per ora non ci sono stati cambiamenti nella politica americana. Nonostante le sue belle parole, i paesi della regione attendono ancora da lui azioni concrete.
Come interpreta la sua strategia in medio oriente?
Obama fa un po’ come un pendolo: vorrebbe rassicurare gli alleati tradizionali degli Stati Uniti, come l’Egitto e l’Arabia Saudita, e contemporaneamente aprire nuove finestre di dialogo con l’Iran e la Siria, Hezbollah e Hamas. Quando si rivolge all’Iran, non sa cosa dire all’Egitto e all’Arabia Saudita, preoccupati dalle aperture di Washington. Ha commesso un errore di valutazione nel soppesare la suscettibilità delle parti coinvolte nella vita politica della regione. Quando è andato in Turchia, l’aprile scorso, ha lodato il governo Erdogan per aver mediato con Hamas perché si giungesse a una tregua durante la guerra di Gaza contro Israele. L’Egitto ha reagito subito, temendo di perdere il suo ruolo tradizionale di mediatore. Poi Obama ha lodato la nuova posizione turca quale punto nevralgico degli approvvigionamenti energetici, e l’Arabia Saudita ha recalcitrato immediatamente. Qualche settimana più tardi, Obama era in Arabia Saudita, e poi al Cairo per il suo discorso al mondo musulmano. Non è sempre facile comprendere chi fa che cosa nella diplomazia americana in medio oriente, in una squadra di diplomatici di provata esperienza ma rivali. E’ una diplomazia che non parla con una voce unica.
Dopo la sua dipartita forzata dalla diplomazia britannica, lei ha fondato Conflicts Forum. Ci può spiegare in poche parole che obiettivi si pone?
Dopo aver lasciato l’incarico, fui invitato a vari incontri come commentatore di cose mediorientali. Ricevevo sempre le stesse domande, sugli stessi argomenti: gli islamisti “chi sono?” e “che cosa vogliono?”. Mi sono reso conto che i miei interlocutori non sapevano pressoché nulla. Io frequentavo gli islamisti dagli anni Ottanta, da quando avevo lavorato a Peshawar e a Quetta durante il conflitto in Afghanistan. Così decisi di fondare Conflicts Forum, che non è né un organo di mediazione né un think tank. L’obiettivo era di uscire dalla sfera di pensiero occidentale, di comprendere come vedono il mondo gli islamisti. L’islamismo è una realtà, l’islam guadagna terreno da vari decenni; è un movimento che viene da molto lontano, portatore di un messaggio storico forte.
Come utilizza le entrature islamiste?
Facciamo venire deputati inglesi, svedesi o tedeschi e organizziamo incontri con i rappresentanti di Hamas o di Hezbollah. Gli occidentali non possono accontentarsi delle informazioni ufficiali date loro dall’Egitto, dalla Giordania o dall’Arabia Saudita.
Siete voi a invitarli o ricevete delle richieste da parte loro?
Dipende. Ho invitato vari neoconservatori americani a Beirut. Qualcuno è venuto. Ha davvero l’impressione che in occidente non conosciamo gli islamisti?
Oggi si dice spesso che è possibile discutere con loro, ma nessuno ci riesce, in sostanza. Con gli islamisti, non ci si siede a un tavolo per negoziare. Non si può parlare di democrazia con l’Iran dimenticando la lunghissima storia iraniana e le riflessioni dei pensatori nazionali sull’argomento. In Irlanda del nord, dove ho lavorato a lungo per il Foreign Service, è stato necessario attendere anni prima di parlare di soluzioni di compromesso. All’inizio di un simile processo, i due protagonisti in genere hanno visioni del tutto inconciliabili, ma procedendo ciascuno può riconoscere che la visione dell’altro è legittima. Solo giunti a quel punto di reciproco riconoscimento le parti possono cominciare le discussioni politiche. Gli islamisti sono alla ricerca di un riconoscimento, di equità; vogliono che si parli loro da pari a pari. Ci sono islamisti sunniti, sciiti e c’è la rinascita del sufismo più radicale. L’islam sciita per secoli ha rappresentato una sfida metafisica per l’occidente: non ha nulla a che spartire con il salafismo, che non ha nulla a che vedere con i Fratelli musulmani, né con lo sciismo rivoluzionario dell’Iran contemporaneo. Hezbollah e Hamas non sono solo fornitori di servizi di stato, hanno una dimensione intellettuale e metafisica che l’occidente nega loro. Trasformano le persone. Forse non è piacevole sentirselo dire, ma questi nuovi movimenti ormai non possono essere esclusi dalla scena mediorientale. Ha ricordato il sufismo radicale. Può spiegarci meglio?
Alludevo al ritorno di un sufismo culturale forte in Turchia. Alla fine degli anni Venti, l’islam politico era pressoché in via d’estinzione e la regione era dominata da potenze coloniali. Ottant’anni più tardi la situazione è ribaltata. Non ci saranno più potenze coloniali a spadroneggiare in medio oriente. Dopo l’Inghilterra e la Francia, dopo l’Urss, anche gli Stati Uniti sono in ritirata. In futuro, tra i vari islam, la lotta si annuncia serrata e furiosa, temo. La massa sunnita affronta un blocco sciita di stati e movimenti politici. Con la scomparsa dell’Urss, la guerra in Afghanistan che ha scacciato i talebani dal potere e il rovesciamento di Saddam Hussein, l’Iran ha perso in 20 anni i suoi avversari regionali più coriacei. La Turchia si sta emancipando dagli Stati Uniti e si allontana sempre più dall’Europa, in mancanza di una prospettiva di adesione. Guidata dal 2002 da islamisti moderati, recupera il suo passato ottomano e le sue radici islamiche. Naturalmente guarda sempre insistentemente ai suoi vicini, in particolare per Nabucco: il gasdotto sarà remunerativo soltanto se collegherà Ankara ai giacimenti iraniani di South Pars, e probabilmente all’Iraq e alla Siria. Damasco si è tirata fuori dal gioco e la sua influenza cresce, come testimoniano le sollecitazioni di Francia e Stati Uniti sulla Siria. Stiamo assistendo a una piena riconfigurazione della regione, all’emergere di nuove potenze e al declino degli alleati tradizionali dell’occidente, Egitto e Arabia Saudita, in preda a difficoltà economiche e forse sull’orlo di gravi crisi di successione.
Ritiene che Hamas sia diventato un movimento di resistenza politica?
Hamas ha vinto le elezioni palestinesi del 2006. Dopo la vittoria, i suoi dirigenti hanno pubblicato inserzioni sul New York Times e sul Guardian per spiegare la loro posizione. Nominando un governo, si sono assunti la propria responsabilità. Hanno dato segnali in direzione dell’occidente e mostrato che erano disponibili a discutere e l’occidente ha fatto come niente fosse. Ma nulla si farà nel conflitto israelo-palestinese senza Hamas.
Hamas è disposto a discutere? Ma i suoi artificieri hanno continuato a bombardare Israele fino alla reazione di Tsahal, l’anno scorso, e, cosa ancora più fondamentale, il movimento islamista si rifiuta ancora di riconoscere l’esistenza di Israele.
A Conflicts Forum ci interessiamo del passaggio dalla resistenza armata alla resistenza politica. Quando e come un movimento armato può impegnarsi in un processo politico che pure ufficialmente contesta, senza perdere la sua legittimità e la base di militanti? Prima di morire Gandhi dichiarò che poteva ammettere l’esistenza del Pakistan senza però riconoscerne la legittimità. Dopo le elezioni del 2006, Khaled Meshaal, guida di Hamas a Damasco, ha dichiarato che se gli israeliani riconoscessero i diritti dei palestinesi e ammettessero che i palestinesi sono stati vittime della storia a pari titolo degli ebrei, e se i vari elementi di eventuali negoziati fossero chiaramente definiti, allora Hamas potrebbe riconoscere la “realtà dei fatti”. Quanto ai razzi su Israele, ricordo che l’Anc di Mandela è stata a lungo un movimento armato. Se ci saranno negoziati, Hamas non disarmerà fintantoché non sarà certo dei risultati. Così fu con la Francia e l’Fln alla fine della guerra in Algeria, in Irlanda del nord, tra americani e vietnamiti…
Dietro le quinte, Hamas e Israele si parlano, anche indirettamente?
No.
Lei sostiene che Hamas sarebbe pronto a riconoscere l’esistenza dello stato ebraico. Nelle frontiere del 1967?
Hamas lotta per la creazione di uno stato palestinese le cui frontiere siano chiaramente definite e riconosciute dalla comunità internazionale. Di riflesso, quindi, riconosce lo stato d’Israele, anche se non lo grida ai quattro venti. Hamas è più realista di quanto non si pensi. Sostengo addirittura che Hamas oggi è il solo movimento palestinese a credere ancora nella soluzione dei due stati.
Davvero?
Eppure l’Autorità palestinese è sempre vincolata agli accordi di Oslo, e afferma di voler negoziare con lo stato ebraico… Tenendo conto dello stallo nel processo di pace, la base di Fatah e la maggioranza dei palestinesi non credono nella nascita di uno stato palestinese secondo quanto previsto a Oslo. Anche perché, se mai uno stato dovesse vedere la luce, sarà demilitarizzato e la sua sicurezza sarà nelle mani degli israeliani, il che poi equivarrebbe a un’occupazione in forma diversa. Sono sempre di più i palestinesi che pensano a uno stato binazionale e sanno che il tempo gioca a loro favore. La demografia è la loro migliore alleata.
Al Fatah è morta politicamente?
La direzione attuale, che ruota intorno ad Abu Mazen, ha perso credito. Ha commesso due errori catastrofici. Il primo è stato quello di non capire che la politica di Bush sarebbe stata completamente diversa da quella di Clinton. Poi ha ritenuto che Netanyahu e Lieberman fossero epifenomeni; questo vuol dire che ha interpretato molto male l’evoluzione delle aspirazioni dell’opinione pubblica israeliana, che si è spinta a destra: l’influenza del milione di emigrati russi si fa ormai pienamente sentire. La maggioranza degli israeliani, in sostanza, non crede più all’idea della “pace contro la guerra”. E’ evidente dal ritiro unilaterale da Gaza nel 2005, e dalla guerra contro il Libano l’anno successivo. Gli israeliani constatano che la frontiera nord con il Libano è calma da tre anni e che Hamas non lancia più razzi contro Sderot e dintorni dall’inverno passato: possono vivere così, in fondo, anche se la situazione non è ideale in termini di relazioni pubbliche. Per ora non vedono alternative a questa politica energica. Il dramma della direzione di al Fatah è che gioca ancora le vecchie carte di Oslo, mentre l’ambiente politico è cambiato.
Anche l’occidente gioca ancora le vecchie carte di Oslo.
Sì, ed è un disastro. Si tenta sempre di distinguere tra moderati ed estremisti. Indebolendo Hamas, si pensa di colpire Hezbollah e quindi la Siria e l’Iran. Ma le cose non funzionano così. L’occidente parla solo con Abu Mazen, che in teoria dispone di un mandato ma in pratica non ha né poteri né legittimità. Per di più, ignora gli islamisti che dispongono di una vera legittimità ma non di un mandato. Questo vuoto fa il gioco degli estremisti.
In queste condizioni, quali sono le prospettive tra israeliani e palestinesi?
Gli israeliani devono continuare così. La Cisgiordania è sotto controllo, Gaza affonda nel caos, sono previsti nuovi insediamenti, l’economia ha incassato bene la crisi, i turisti tornano. Anche i palestinesi sono alla ricerca di un nuovo paradigma. Fondamentalmente, che Abu Mazen si ripresenti per la presidenza a loro importa molto poco: si è inchinato a tutto quanto esigevano israeliani e occidentali, senza ottenere nulla in cambio. Sono convinto che emergerà una nuova guida. Tutte le fazioni palestinesi dovranno parlarsi e stabilire un programma comune in cui siano definiti gli obiettivi, gli strumenti per il loro raggiungimento e le istituzioni di cui vogliono dotarsi. Questa piattaforma dovrà essere approvata dall’opinone pubblica palestinese.
Il mandato del 1993 è decaduto, così come il processo di Oslo.
Al Fatah e Hamas discutono regolarmente?
Sì. Posso anche rivelarle che la nuova guardia dei due movimenti si incontra spesso a Beirut e Damasco per stabilire una piattaforma comune.
Stanno cominciando i negoziati. Lei vive a Beirut. Che influenza vi esercita oggi l’Iran?
L’influenza diretta è debole, certamente più debole di quella dell’Arabia Saudita. Riad quest’anno ha rovesciato sul paese quasi un miliardo di dollari per le elezioni di primavera. I sauditi elargiscono numerose borse di studio, i predicatori salafiti, anche nei campi palestinesi, sono numerosissimi, come le organizzazioni umanitarie. Per non parlare poi degli investimenti nel settore immobiliare. Gli iraniani spendono meno: per il voto avrebbero versato 200-400 milioni di dollari. Hanno finanziato la ricostruzione di infrastrutture, in particolare di ponti. Sono presenti anche organizzazioni umanitarie iraniane, ma sono più discrete di quelle saudite.
Ma Riad in Libano non dispone di un movimento come Hezbollah…
Tra Hezbollah e Teheran i rapporti sono più equilibrati di quanto si pensi. Hezbollah è un partito libanese forte di una vera base popolare e si occupa esclusivamente della situazione in Libano. Non interviene negli affari di Teheran. Certamente, il movimento islamista è vicino all’Iran. Ha accesso privilegiato ai centri esecutivi e, soprattutto, conosce i misteri del potere di Teheran meglio di chiunque altro. L’Iran fornisce armi a Hezbollah. Hezbollah è un movimento armato. Si rifornisce sul mercato internazionale. Non so da dove vengano le armi, o meglio, non lo voglio sapere.
L’Iran e l’Arabia Saudita in Libano si fanno una guerra su procura?
La tensione era forte prima delle elezioni. Oggi, la congiuntura è più calma. Sauditi e iraniani concentrano ormai tutta l’attenzione su Yemen e Iraq dove le due potenze dispongono di alleati e muovono i propri pedoni. Il Libano è uscito dalla parabola della crisi. Regna una calma precaria.
Ho l’impressione che in questo momento il medio oriente stia ballando ai piedi di un vulcano. Anche lei?
Sì, il medio oriente mi fa pensare all’Europa del 1912-14. Le tensioni sono tante, tutti si aspettano una Sarajevo mediorientale.
Tutti gli sguardi sono rivolti all’Iran. Israele attaccherà la Repubblica islamica? Sa, non credo che la questione più importante sia quella nucleare, ma piuttosto la minaccia strategica su Israele, adombrata dai notevoli rinforzi all’arsenale convenzionale iraniano. Ci sono razzi a Gaza, razzi in Libano, Siria e Iran. Anche se la comunità internazionale trova un compromesso con Teheran sul nucleare, nulla ci dice che gli Stati Uniti e Israele accetteranno la presenza di una potenza convenzionale così forte. Israele ha fondato la sua dottrina difensiva sul dominio militare convenzionale assoluto rispetto agli avversari regionali. Lo stesso vale per l’Egitto e l’Arabia Saudita, sempre più preoccupati a causa delle manovre iraniane. Il medio oriente vive stravolgimenti strategici fondamentali.
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