Ballata per la figlia del macellaio Peter Manseau
Traduzione di G. Bottali e S. Levantini
Fazi Euro 19,50
E’ così vero quel che dice il vecchio adagio: per essere una yidishe mame non c’è bisogno né di essere yidishe (cioè ebrei) né mame (cioè mamme). Volendo ci riesce benissimo anche un barbiere di Canicattì, a sfoderare tutti i vizi (molti) e le virtù (?) della più indiscreta, ossessiva, soffocante e amorevole mamma del mondo (o quasi). Questa ironica ma anche un poco rassegnata constatazione, vale per il mondo degli affetti ma anche in letteratura, come dimostra la “Ballata per la figlia del macellaio”. Il suo autore, Peter Manseau, è figlio di una monaca e un prete che hanno abbandonato i voti. Lui ha lavorato a lungo sui libri del National Yiddish Book Center. Dopo aver letto, catalogato e restaurato, ha anche scritto un romanzo che difficilmente potrebbe essere più “ebraico”, con cui l’anno scorso ha vinto il prestigioso National Jewish Book Award. Già. La Letteratura ebraica. Che cos’è in fondo? Peter Manseau ci dimostra che è un’astrazione non meno che un’esperienza. A forza di frequentare e – è più che lecito pensare – anche amare questi libri, Manseau ne ha fatto propri i canoni, il modello espressivo e soprattutto una grande carica sentimentale. E così, la “Ballata per la figlia del macellaio” non è soltanto la storia di Itsik Malpesh, un poeta yiddish della sgangherata parabola esistenziale, con una biografia carica di momenti spassosi e terribili, di malinconia e di quella tanto veritiera dose di improbabilità che la letteratura yiddish porta sempre con sé. Il romanzo è infatti anche la dimostrazione che questa letteratura – estintasi nei forni crematori insieme alla sua lingua – può diventare un modello, un patrimonio intellettuale e sentimentale da trasmettere, divertendo e commovendo il proprio lettore. In fondo, questo è l’unico omaggio che possiamo tributarle, adesso che non c’è più perché è stata trucidata. Peter Manseau riesce benissimo nell’intento, raccontandoci la storia di un bambino che viene al mondo durante il terribile pogrom di Kishinev, trascorre l’infanzia un po’ a scuola ma soprattutto a spazzare piume e sterco d’oche, scappa a Odessa e poi approda in America, dove farà un po’ il sarto, un po’ il tipografo, un po’ il pettegolo. Ma al di là delle sue tante vicissitudini, Itsik rincorre un sogno che si chiama Sasha. Scrive per lei. “Tutte queste parole per qualcuno che non hai mai incontrato? Quante parole i rabbi hanno scritto su Dio? Domandai a mia volta. Per quanto tempo gli ebrei si sono afflitti per Gerusalemme sebbene non avessero alcuna speranza di ritornare a Sion?”. La storia è tutta in un vertiginoso flashback che getta luce su mirabolanti coincidenze e funambolici meccanismi narrativi dove tutti prima o poi si incontrano di nuovo, anzi scoprono di essere sempre stati tutti sulla stessa barca. Il trait d’union fra passato e presente è un giovane cristiano che, guarda caso, si trova anch’egli immerso fra libri yiddish e tutta la carica di vita ch’essi portano con sé. Guarda ancora caso, il suo ruolo è quello di traduttore, in senso stretto dell’autobiografia di Itsik. E in senso più ampio, di “traghettatore” della esperienza umana dello yiddish, dopo la sua terribile morte. Il romanzo, ricco di scene e colpi di scena, ruota intorno al trasporto del poeta per Sasha, la figlia del macellaio che ha assistito alla sua nascita – bambina di quattro anni – e che il protagonista rincorre con i propri versi e con un desiderio tanto inspiegabile quanto tenace. Basti dire che la troverà. Grazie a lei, lui diventerà “il più grande poeta yiddish d’America” (questo lo dice lui). Mentre Manseau ci regala un libro autentico nel senso più pieno dell’aggettivo. Anche se scrive così dall’esterno di questo mondo: ogni tanto si avverte, il suo occhio che prende le distanze, ma solo per scorgere meglio, per capire e per sentire più sotto, anzi dentro la pelle. La “Ballata per la figlia del macellaio” insomma, è tutt’altro che un plagio, una pigra emulazione. E’ un romanzo che accarezza con affettuosa sapienza quel passato che non c’è più. E convince perché facendo propria questa grande tradizione letteraria estinta ad Auschwitz, ci dice ad ogni riga che essa manca tanto, a lui e a tutti noi.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa