A Sergio Romano, se fosse in buona fede, servirebbe una buona cura di fosforo (non ci fraintenda, intendiamo proprio quelle pillole che si acquistano in farmacia quando la memoria vien meno), ma purtroppo non è il caso suo. Dimenticare che in Italia ci sono state le leggi razziali, non è una dimenticanza dovuta alla mancanza di memoria, ma una linea che il nostro persegue con tenacia. La risposta al lettore di oggi sul CORRIERE della SERA , a pag, 27, è soltanto l'ultima delle serie. Da notare il titolo: " Il razzismo degli italiani solo una malattia infantile ". Ecco la lettera del lettore e la sua risposta:
Leggi razziali, malattia infantile ?
Qualche giorno fa sono stato scippato in autobus da un gruppo di zingare con bambini in braccio. Nel mio quartiere sono stato adottato da un paio di giovani nigeriani che mi seguono per decine di metri al fine di vendermi calzini di un tipo che non ho mai usato in vita mia. Le vicende dei cinesi sono note: dopo Prato ora è la volta di Como. Eppure, dato che ho molto viaggiato, tutte queste restano per me persone e riesco a vivere le loro situazioni anche sullo sfondo dei loro Paesi d’origine. Ma un italiano qualsiasi? Quelli elencati e molti altri costituiscono certo dei problemi per la gente comune che è disorientata da tanta varietà di comportamenti e di culture.
Si può parlare di razzismo?
Filippo Cortesi
filippo.cortesi@tiscali.it
Caro Cortesi,
Qualche giorno fa a Venezia la giuria di un premio organizzato dai proprietari del ristorante Antico Pignolo ha premiato un brillante saggio di Guido Barbujani e Pietro Cheli ironicamente intitolato «Sono razzista, ma sto cercando di smettere » (edizioni Laterza). I due autori (professore di genetica all’Università di Ferrara il primo, giornalista il secondo) ricordano che la scienza, fra cui gli straordinari studi di Luca Cavalli Sforza, ha dimostrato da qualche decennio che le razze non esistono. Esistono grandi comunità in cui è possibile trovare, entro certi limiti, cromosomi comuni, ma lo stesso cromosoma appare in gruppi diversi. Il legame che unisce quelle comunità è quindi storico, religioso e culturale, non razziale. Ma questo non impedisce che il concetto di razza sia profondamente radicato nelle nostre menti ed emerga quasi inconsapevolmente nel nostro linguaggio quotidiano. Tanto per fare un esempio non avremmo attribuito tanta importanza alla vittoria di Barack Obama nelle ultime elezioni presidenziali americane se non avessimo pensato che il nuovo presidente fosse «diverso». E non saremmo così fisicamente infastiditi dal petulante accattonaggio degli zingari, se non li considerassimo «diversi».
Nel corso della discussione veneziana Riccardo Calimani, presidente della giuria dell’Antico Pignolo, ha ricordato che George Steiner, un acuto critico letterario di origine ebraica, ha avuto una reazione «razziale» quando le sue notti erano continuamente turbate dai tamburi di un gruppo caraibico che suonava accanto alla sua casa londinese. Una signora ha preso la parola per lamentare il teppismo e l’inciviltà degli extracomunitari che schiamazzano intorno alla sua casa romana e un’altra signora ha parlato degli zingari usando due espressioni implicitamente razziali: loro e noi. Sono tutti fenomeni di razzismo?
Quando è venuto il mio turno, caro Cortesi, ho ricordato il caso di Henry James, scrittore americano, autore di raffinati romanzi e grande amante dell’Italia in cui fece lunghi viaggi e soggiorni. Ma quando ritornò a New York dopo un lungo soggiorno in Europa (era il 1905) scoprì una città dove era arrivato nel frattempo un gran numero di italiani che gli sembrarono completamente diversi da quelli visti e conosciuti nella penisola. Secondo le descrizioni dei rapporti di polizia e delle autorità d’immigrazione, questi italiani erano sporchi, analfabeti, superstiziosi e violenti. Erano certamente giudizi razziali. Ma fra il razzismo e le reazioni emotive di questo genere vi è un’importante differenza. Il primo è un odio viscerale, tenace, nutrito da leggende e dottrine pseudo scientifiche. Le seconde sono sentimenti passeggeri dettati da paura, insicurezza, obiettive difficoltà d’integrazione e accoglienza, ma destinate a evaporare nelle generazioni successive. Il primo è un male cronico, le seconde sono soltanto le malattie infantili della società multietnica.
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