Il ruolo dell'Egitto in Medio Oriente Analisi di Rolla Scolari
Testata: Il Foglio Data: 26 novembre 2009 Pagina: 6 Autore: Rolla Scolari Titolo: «Il telefono del faraone»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 26/11/2009, a pag. III, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Il telefono del faraone ".
Hosni Mubarak
Dalle cancellerie inaccessibili del Cairo e dal palazzo presidenziale blindato sulla strada per l’aeroporto passano molti affari della regione mediorientale. In Egitto si respira aria da fine impero, con il rais Hosni Mubarak ultraottantenne e una pletora di candidati al trono, e mai come oggi il ruolo di mediatore che la comunità internazionale ha riservato al Cairo è stato tanto delicato. Basti pensare a Gilad Shalit, alle voci sul suo rilascio, alle ipotesi di scambio con centinaia di prigionieri palestinesi, compreso Marwan Barghouti, leader della Seconda Intifada rinchiuso in un carcere israeliano con cinque ergastoli. Il caporale israeliano Shalit è stato rapito da Hamas nel 2006: la sua cattura ha determinato l’inizio della guerra estiva che coinvolse Israele sul fronte palestinese, dalla Striscia di Gaza, e su quello libanese, con gli attacchi di Hezbollah. Il conflitto finì con l’imposizione di un cessate il fuoco della comunità internazionale e con una risoluzione dell’Onu che, oltre a prevedere una forza multilaterale sul confine tra Libano e Israele – la missione Unifil, comandata dal generale Claudio Graziano –, chiedeva la liberazione di Shalit. La richiesta non ha avuto seguito, e in tre anni ci sono state notizie contrastanti sullo stato di salute del caporale ventitreenne, fino a quando un video, risalente ai primi di ottobre (ma nelle mani Shalit aveva un quotidiano del 14 settembre) ha mostrato che Shalit almeno è vivo. Da qualche giorno però il tam tam sulla liberazione di Shalit è diventato insistente: i quotidiani arabi lo danno per fatto, dal governo israeliano arrivano cautela e smentite, il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, in visita in Israele ha detto che non esiste alcun patto e che anzi tutto questo chiacchiericcio può annullare tutta la trattativa. Dopo i vertici frenetici e frettolosi fra la leadership di Hamas in esilio a Damasco e quella a Gaza, ieri la versione ufficiale del gruppo islamista ha stabilito che lo scambio tra Shalit e i prigionieri non è affatto imminente: fonti dell’Associated Press hanno detto che il governo di Israele sta obiettando su alcuni nomi presenti nella lista palestinese e ha proposto una lista alternativa. Sullo sfondo di questo ultimo atto della questione israelo-palestinese si staglia l’Egitto. Dal Cairo sono passate gran parte delle trattative per Shalit e in generale per il processo di pace. Omar Suleiman, potente capo dei servizi segreti egiziani, tesse i rapporti con il capo dell’intelligence tedesco, Ernst Uhrlau, che nella regione riveste un ruolo molto importante. Delegazioni di Hamas, di Israele, di Fatah (il partito che fa capo al rais palestinese Abu Mazen), degli americani, dei membri del Quartetto che sovraintendono alla road map hanno fatto spola tra i loro quartier generali e il Cairo. Hanno discusso, hanno portato informazioni, hanno fatto richieste, tutto sotto la sovraintendenza – spesso ambigua – dell’Egitto. Se la comunità internazionale affida a Mubarak il ruolo di mediatore e di alleato principale nella contesa nucleare con l’Iran, allora deve fare i conti con la fine del regno del rais. Dopo cinque anni di fredda cortesia diplomatica, Mubarak quest’anno è tornato alla Casa Bianca. Il vecchio rais, la faccia contratta e rugosa e gli occhi stanchi, ha incontrato tutti: il presidente Barack Obama, il suo vice Joe Biden, il segretario di stato Hillary Clinton e il consigliere per la Sicurezza nazionale James Jones. Era agosto e il leader egiziano da quasi tre decenni tornava a Washington dopo una pesante assenza. Con lui una delegazione d’alto livello, ma anche un funzionario del partito non abbastanza “anziano” per trovarsi al fianco del “faraone” durante la trasferta più importante della stagione: il figlio quarantaseienne Gamal, per ora soltanto a capo del comitato politico del Partito nazional democratico di papà. Forse era il debutto in società del delfino che in molti vedono già seduto sulla poltrona di presidente. La successione è un processo in pieno svolgimento. Il potere è già passato di mano a una cricca di non più giovani tecnocrati alla testa dei quali si trova quell’uomo magro e sorridente che assieme al padre si è seduto in estate con i grandi di Washington. Gamal tiene conferenze, discorsi importanti, visita le città e i villaggi del paese, è al centro della vita economica della nazione da anni e i suoi uomini hanno un peso politico rilevante. E’ iniziato tutto nel 2002, ben prima che si iniziasse a parlare degli acciacchi di Mubarak. Gamal, ex studente dell’Università americana del Cairo, ex banchiere della filiale egiziana di Bank of America, tornato da un’esperienza lavorativa nella City, entra nel partito, alla guida del comitato politico incaricato delle riforme interne. Nel 2004 è formato un nuovo governo, guidato dal tecnocrate Ahmed Nazif, educato all’estero. Molti ministeri sono affidati a un gruppo di “giovani” dell’età del delfino e a lui legati. Siedono nella stanza dei bottoni dell’economia nazionale. L’Egitto con loro conquista investimenti esteri, propone una nuova e aggressiva politica di privatizzazioni e di apertura al mercato libero. In due anni, tra il 2006 e il 2008, l’economia egiziana cresce del 7 per cento. I rapporti del World Economic Forum e della Banca mondiale rivelano che il Cairo sta diventando sempre più competitivo e aperto agli investimenti stranieri. Le riforme hanno reso più facile creare un’attività e gestirla, attirando giganti come Ibm, Cisco, Google, Hsbc. Se fino a dieci anni fa i giovani dell’élite egiziana puntavano ai gradi di colonnello o a un posto come ufficiale di polizia, i rampolli delle grandi famiglie nell’era di Gamal Mubarak preferiscono le università americane o britanniche, poi l’alta finanza e le multinazionali. “La successione è già in corso – spiega al Foglio Joshua Stacher, professore di politica del medio oriente alla Kent State University americana – a partire dall’estate del 2004 è cominciata la creazione di una nuova élite, che crede nel liberalismo economico e sostiene gli investimenti stranieri”. La nuova classe economica è anche casta politica, ben introdotta nel partito di maggioranza: ad aiutare il giovane Mubarak ci sono il ministro degli Investimenti Mahmoud Safwat Mohyee, quello dello Sviluppo economico Othman Mohammed Othman, quello del Commercio estero Rasheed Mohammed Rasheed. La vecchia guardia dell’Egitto dei colonnelli e dei servizi di sicurezza è stata spinta in un angolo. Certo, qualcuno ha manifestato la propria contrarietà, ma il processo è avvenuto senza traumi importanti o tensioni interne, “con il passivo assenso dei vertici del regime”, dice Stacher. Fuori dalle cancellerie egiziane, “la comunità internazionale si rende conto di tutto quello che sta accadendo: il governo egiziano si è conquistato le lodi del Fondo monetario internazionale per i suoi successi economici e la crescita attira sempre amici”. E così, “con grande probabilità Gamal sarà accettato come naturale successore”, nonostante le similitudini troppo evidenti con il passaggio di consegne monarchico avvenuto in Siria alla morte del presidente Hafez el Assad nel 2000, spesso evocato come esempio negativo nei dibattiti sul futuro dell’Egitto. Ma il presidente non ha finora indicato una direzione. Tra i potenziali successori c’è naturalmente il capo dell’intelligence Suleiman, in costante viaggio tra il Cairo, Gaza, Ramallah, Gerusalemme e Washington, però sconosciuto alla maggior parte della popolazione del paese. Amr Moussa, il popolare volto della Lega araba, relegato nella prestigiosa poltrona – avevano sussurrato ai tempi i più maliziosi – per allontanarlo dalla gara alla successione, ha da poco manifestato mire presidenziali. E anche il premio Nobel per la Pace, Mohammed ElBaradei, alla fine del suo mandato all’Agenzia atomica dell’Aiea potrebbe – hanno detto alcune fonti raccolte da Laura Rozen, imprescindibile lettura di politica internazionale passata di recente da Foreign Policy a The Politico – rilanciarsi nel cambio di regime al Cairo. Ma la variabile più importante resta quella dei Fratelli musulmani. Il movimento islamista ha da poco fatto sapere che non candiderà un suo membro alle presidenziali del 2011 (potrebbe presentarlo soltanto come indipendente, essendo il gruppo fuorilegge dal 1954), nonostante sia l’opposizione più credibile sulla scena, non esistono partiti capaci di bloccare un trasferimento di potere dal padre Hosni al figlio Gamal: il movimento pro-democratico sceso in strada tra il 2004 e il 2005 a contestare per la prima volta nella storia della nazione il potere di Mubarak è moribondo. Le divisioni all’interno della Fratellanza sono molte, e anche generazionali: i giovani hanno indetto – e poi ieri annullato – un dibattito interno per decidere come relazionarsi con il rais, dopo l’ondata di arresti messi a punto contro il movimento. I più anziani, più provati da decenni di lotta, non escludono più un’apertura verso il governo, mentre i più giovani vogliono andare allo scontro. “Ci sono frizioni tra una piccola ala che vorrebbe entrare attivamente nella vita politica del paese aprendo al compromesso, rassicurando le forze in campo e dialogando con l’opposizione – spiega al Foglio l’analista Issandr el Amrani dal Cairo – e una fazione conservatrice”. A gennaio, la guida suprema Mohammed Akef, che fino a oggi ha moderato tra le parti, si dimetterà, lasciando vacante la poltrona, in una prima assoluta per il gruppo. Tra i possibili e più credibili sostituti c’è il suo attuale vice Mohammed Habib, vicino alle posizioni più conservatrici ma capace di evitare conflitti interni. “La vera questione è se sarà in grado di perpetuare il controllo – spiega Issandr el Amrani – Akef fin dal 2004 ha dato spazio a membri che tendevano verso la formazione di un partito integrato nella vita politica del paese e questo è un tema centrale soprattutto oggi che l’Egitto entra in una fase difficile a causa della successione”. I mass media locali hanno parlato a lungo della possibilità che i Fratelli musulmani facciano un accordo con il governo, soprattutto con Gamal Mubarak: “Il ritiro del gruppo dalla vita politica, dalle piazze in protesta in cambio della fine delle repressioni e più spazio di manovra per operare come un movimento sociale – dice Amrani – oppure un tacito e non ufficiale assenso alla successione di Gamal in cambio di una certa influenza sulla politica e un possibile inizio di dialogo”. La scelta della nuova guida del paese aumenta l’incertezza e trascende i confini dell’Egitto. L’ideologia dei Fratelli musulmani, nati nel 1928, è alla base della formazione di molti gruppi islamisti ma, secondo Amrani, con o senza cambio di leadership, la loro influenza su altri gruppi è scemata: “Nel campo politico e sociale la Fratellanza è rimasta indietro rispetto a molti altri movimenti: ci vorrebbe una rivoluzione intellettuale al suo interno. I membri dovrebbero guardare altrove e, per ottenere una maggiore legittimità nella partecipazione politica, ispirarsi a partiti come l’Akp turco” di Recep Tayyip Erdogan. Nonostante ciò, i legami ideologici con gruppi territorialmente vicini, come i palestinesi di Hamas a Gaza, non rassicurano il governo del Cairo, soprattutto dopo il sostegno mostrato dalla Fratellanza al movimento armato durante i giorni dell’operazione israeliana sulla Striscia, nel gennaio scorso. Sul poroso confine con Gaza s’incontrano gli interessi di Israele ed Egitto, uniti da una “pace fredda” – sancita dal Trattato del 1979 –, dalla volontà di stabilizzare la Striscia, vedere Hamas marginalizzato e anche dalla speranza di arginare le velleità nucleari dell’Iran, tra i finanziatori del gruppo palestinese. Sono gli egiziani a mediare da anni tra le fazioni palestinesi e sono stati gli egiziani, assieme ai tedeschi, a trovare il primo accordo tra Israele e Hamas nel caso Gilad Shalit: il rilascio di venti prigioniere palestinesi in cambio del primo video del caporale rapito nel 2006. “La relazione tra Egitto e Israele è caratterizzata da due fattori – spiega al Foglio Shimon Shamir, primo ambasciatore israeliano in Giordania e poi in Egitto – interessi strategici comuni e la cosiddetta ‘pace fredda’”. Tra il pubblico egiziano, infatti, la normalizzazione non è mai arrivata, come dimostrano eventi recenti. La giornalista Hala Mostafa, direttrice di una pubblicazione legata al quotidiano al Ahram, al Demoqratiya, è stata recentemente al centro di forti polemiche (da parte anche del giornale e dell’ordine professionale) per aver ricevuto nel suo ufficio l’ambasciatore israeliano al Cairo, per questioni di lavoro. Tuttavia, la cooperazione dei due governi e delle intelligence è buona, esiste un dialogo politico e sulla sicurezza. “L’Egitto è interessato al processo di pace tra israeliani palestinesi – continua Shamir – non per via di ideali pacifisti, ma perché punta a una stabilità interna e sui confini. E per quanto riguarda Teheran, il Cairo sa bene che un Iran nuclearizzato ha un’influenza maggiore sulla regione”. Lo stallo nei colloqui tra israeliani, palestinesi e americani, le posizioni del governo di Benjamin Netanyahu sulla costruzione degli insediamenti – ampliati la settimana scorsa mentre ieri il premier ha proposto un “congelamento” per i prossimi dieci mesi –, la decisione del rais palestinese Abu Mazen di non ricandidarsi alle elezioni, lasciando Israele senza un partner credibile, hanno raffreddato il Cairo. E non soltanto. Anche l’alleato saudita è inquieto. L’Amministrazione Obama vede così indebolirsi il sostegno arabo al processo di pace. “Il ruolo dell’Egitto sta diventando meno importante, le sue carte sono limitate – ha detto al New York Times Emad Gad, esperto dell’Ahram Center for Political and Strategic Studies del Cairo – la sua carta più importante, la riconciliazione e la pace, sta sfumando”. Non è un caso che Hillary Clinton, nel suo recente tour della regione, abbia aggiunto una tappa al suo programma di viaggio. Il segretario è stato al Cairo e ha dichiarato: “L’Egitto è un partner essenziale”. Anche per questo, la comunità internazionale, con in testa Washington e un presidente americano che ha pubblicamente lodato “i decenni di esperienza” del rais Mubarak e scelto l’Egitto come tribuna del suo storico discorso al mondo musulmano in giugno, considera in questo momento il paese un alleato importante sulla questione israelo-palestinese e soprattutto sul dossier nucleare iraniano, ed evita qualsiasi commento sull’eventuale successione. Pure se, in questa prolungata fin de régime, l’avvento della generazione Gamal non ha aperto la via alle riforme democratiche auspicate dall’Amministrazione Bush, né ha migliorato i diritti umani o la libertà religiosa delle minoranze.
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