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Il Foglio Rassegna Stampa
26.11.2009 Chi è lo stratega della rottura della Turchia con l’occidente
Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri, promotore dell'islamizzazione turca

Testata: Il Foglio
Data: 26 novembre 2009
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Chi è lo stratega della rottura della Turchia con l’occidente»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 26/11/2009, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Chi è lo stratega della rottura della Turchia con l’occidente ".

 
Ahmet Davutoglu

Roma. Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha cominciato un lungo viaggio diplomatico nelle principali città d’Europa. L’impegno è delicato: deve convincere il mondo che Ankara è una capitale dell’occidente. La Turchia è stata per anni il migliore alleato dell’America nella regione, ma alcune mosse recenti rischiano di spostare l’equilibrio. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, critica i raid di Israele nella Striscia di Gaza e mostra simpatia per il regime di Teheran, che porta avanti un programma nucleare clandestino nonostante le sanzioni dell’Onu. Queste manovre sollevano sospetto a Washington e Gerusalemme. Il regista della svolta è proprio Davutoglu, un accademico dell’Università Beykent considerato a lungo l’eminenza grigia della politica estera in Turchia. E’ ministro da pochi mesi, ma è sempre stato il consigliere più influente di Erdogan. Lui e il premier hanno molto in comune. Il primo è cresciuto a Konya, nella parte meridionale della Turchia, dove i sentimenti religiosi sono più forti; l’altro viene da Kasimpasa, un sobborgo popoloso di Istanbul. Nessuno dei due appartiene all’establishment laico e kemalista che ha governato per anni le sorti del paese. Erdogan è dell’Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo, un movimento filo islamico che ha rischiato di essere sciolto per attività sovversiva; Davutoglu ha riscritto punto per punto la sua agenda internazionale. I pilastri della dottrina sono in un libro del 2001, “Stratejik Derinlik” (Profondità strategica), tenuto in grande considerazione dai diplomatici turchi. Nel gergo militare, questo termine descrive la distanza che separa il fronte della guerra dagli obiettivi che devono essere difesi – città, fabbriche, aeroporti. Il ministro dice che un governo ha profondità strategica se rispetta un paio di regole: nessun paese può fare a meno della propria cultura quando si tratta di costruire il futuro; non c’è futuro senza rapporti con i vicini. Il fatto che Davutoglu provenga da ambienti accademici non è da sottovalutare. La sua tesi è ricca di riferimenti alla storia della Turchia e al ruolo che ha esercitato per secoli nella regione. Gli scettici hanno scelto un titolo poco rassicurante per i suoi seguaci, quello di “neo ottomani”. Per gli altri, è una specie di Henry Kissinger, uno capace di disegnare in pochi anni un nuovo profilo internazionale al paese. “Le accuse di ‘neo ottomanesimo’ sono esagerate ma qualcosa di vero c’è – dice al Foglio un esperto dell’Ispi, Carlo Frappi – Davutoglu è un pragmatico tuttavia il suo approccio ha anche una dimensione ideale. Il kemalismo nega le tradizioni, mentre l’Akp ha deciso di fare i conti con il passato”. Secondo Nimet Seker, un ricercatore di Istanbul che vive da tempo in Germania, questo ministro ha spinto la Turchia verso una fase decisiva: “Oggi il paese ha una forza economica maggiore rispetto al passato e cerca di ottenere un ruolo di primo piano in medio oriente. Per fare questo, deve ricostruire le relazioni con i suoi vicini, Siria, Iran e Iraq in testa, anche a costo di allontanarsi un po’ dalle posizioni degli Stati Uniti e dell’Europa”. Davutoglu ha presentato il proprio programma a maggio, pochi giorni dopo l’arrivo al governo. La Turchia, ha detto, non deve semplicemente reagire alle crisi: dobbiamo prevedere quello che succederà per intervenire in tempo. Solo così potremo contribuire all’ordine globale. Le teoria ha permesso di aprire trattative su tutti i fronti. Nel 2009, Erdogan si è mosso per trovare un’intesa su Cipro, ha raggiunto un accordo con l’Armenia e ha mediato le trattative indirette fra la Siria e Israele. Queste manovre diplomatiche hanno ottenuto grande successo in Europa. Un collega di Davutoglu alla Beykent, Rashat Arim, la chiama “strategia zero conflitti”. Durante la Guerra fredda, Ankara era la periferia del mondo e doveva usare la forza per difendere i suoi confini, dice al Foglio Arim. “Oggi siamo tornati al centro, siamo consapevoli del nostro ruolo e abbiamo la possibilità di usare il soft power per avere influenza sui nostri vicini. Negli anni Ottanta e Novanta, abbiamo rischiato di scendere in guerra con l’Armenia, con la Siria, con l’Iraq e con l’Iran; ora vogliamo cooperare con tutti”. Ma la dottrina Davutoglu ha avuto ripercussioni anche sui rapporti con l’Iran e con i terroristi di Hamas, tornati amichevoli dopo anni di gelo. Erdogan ha incontrato il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, e ha espresso il sostegno del governo turco alle richieste di questo vicino pericoloso. Le cancellerie dell’occidente seguono lo spostamento con attenzione. I rapporti con Gerusalemme hanno raggiunto il punto più basso il mese scorso, quando i turchi hanno escluso l’esercito israeliano da una esercitazione aerea che si tiene ogni anno e coinvolge anche l’Italia e gli Stati Uniti. Per tutta risposta, il governo di Gerusalemme ha chiesto un nuovo mediatore per i colloqui con la Siria, che potrebbe essere il presidente francese, Nicolas Sarkozy. Secondo Arim, “Israele è sempre nostro alleato, ma questo non significa che non possiamo criticare le sue azioni quando riteniamo che siano sbagliate. Siamo l’unico paese d’Europa in grado di trattare con tutti, compreso Hamas. L’occidente non può fare a meno di noi”. L’incontro mancato con Israele Prima di partire alla volta dell’Europa, Davutoglu ha ricevuto ad Ankara il ministro dell’Industria israeliano, Binyamin Ben-Eliezer. Per lo stratega turco, gli equivoci sono alle spalle: “C’è sempre stato un canale di comunicazione aperto fra i nostri paesi e quindi non è necessario parlare di nuovo inizio nei rapporti fra Gerusalemme e Ankara”. In Israele la diffidenza è ancora alta: i quotidiani più importanti dello stato ebraico mettono in risalto il mancato incontro fra Erdogan e Ben-Eliezer, una decisione accolta con disappunto dall’entourage del ministro.

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