Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2009, a pag.1-37, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " In quei film manca un pezzo di Israele ".
Negli ultimi anni i film israeliani dedicati alla prima guerra del Libano suscitano grande interesse non solo in Israele ma anche ai festival internazionali e fra gli appassionati di cinema in Europa e in Nord America. «Beaufort» ha ottenuto il premio per la miglior regia al festival di Berlino, «Valzer con Bashir» era candidato all'Oscar nella categoria «Migliore film straniero» e «Lebanon», l'ultimo della serie, ha vinto il Leone d'oro al recente festival del cinema di Venezia.
La guerra del Libano scoppiò per iniziativa israeliana nel giugno del 1982 e Tsahal, l'esercito israeliano, vi si impantanò per 18 anni fino al suo ritiro definitivo e unilaterale nel maggio del 2000. Dopo qualche anno di calma gli scontri ripresero. Nel luglio 2006 i miliziani di Hezbollah varcarono il confine internazionale, rapirono due soldati israeliani e ne uccisero altri otto scatenando simultaneamente un attacco di razzi sulle comunità nel Nord del paese. La conseguenza fu la seconda guerra del Libano, durata poco più di un mese e a seguito della quale l'esercito libanese e contingenti militari delle Nazioni Unite si dispiegarono lungo il confine internazionale.
Qualche tempo dopo l’inizio del primo scontro libanese cineasti israeliani cominciarono a produrre film che avevano come sfondo, o come ribalta, lo scontro bellico, ma incentrati principalmente sui conflitti tra i protagonisti. Tali pellicole, girate secondo il consueto schema dei film di guerra, pur riscuotendo un buon successo di pubblico in Israele non raggiunsero le vette di gloria internazionale di quelle più recenti.
Il primo elemento distintivo dell’attuale e tardivo revival cinematografico sulla guerra del Libano è il ritorno di autori ormai non più giovani (alcuni persino alla prima regia) alle loro esperienze personali. Volendo, una sorta di «ricerca del tempo perduto», ma un «tempo perduto» tremendo e doloroso. Tali autori, dopo aver rimosso a lungo i traumi e le memorie della guerra, hanno infine tentato di elaborarli tramite il medium cinematografico. La cosa è particolarmente evidente in «Valzer con Bashir», un film d’animazione il cui protagonista tenta di ripescare reminiscenze cancellate dalla memoria in seguito al massacro perpetrato nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila da falangisti cristiano maroniti.
L’aver imperniato quei film sui ricordi e sull'esperienza personale è stata una mossa azzeccata sotto un profilo artistico. I registi infatti, tralasciando trame secondarie di amori o tensioni immaginarie in cui spesso si sfaldano le pellicole di guerra, si sono focalizzati su ciò che conta veramente spingendosi anche a sperimentare forme artistiche nuove e audaci. In «Valzer con Bashir» l’inserimento al termine del film di spezzoni documentari che ritraggono persone reali ha creato un effetto particolare e originale. In «Lebanon» l'intera trama si svolge all'interno di un carro armato e ciò che avviene all’esterno è percepito solo attraverso il periscopio del blindato. Questa scelta, non facile da un punto di vista cinematografico, porta gli spettatori a provare un senso di claustrofobia e di soffocamento simile a quello vissuto dai soldati all'interno del tank. Il film «Beaufort», interamente ambientato in un'antica fortezza, trasforma con impressionante abilità il fortilizio in un intero universo. Ma al di là dei risultati artistici e formali di queste opere nutro ancora qualche perplessità nei loro confronti. In tutte e tre infatti il «nemico» - sia esso palestinese, libanese, civile e combattente -, a eccezione di qualche piccola e insignificante scena rimane una presenza invisibile, come per esempio in «Beaufort» dove i lanci dei mortai provengono da un punto imprecisato e non individuabile. Ma ciò che mi sembra ancora più grave è la mancanza di un contesto più ampio che spieghi la guerra o che affronti, nel bene e nel male, la questione della sua imprescindibilità o legittimità. Io, cittadino israeliano che si è opposto al conflitto fin dal primo giorno, che l’ha condannato e ne ha persino previsto il fallimento, lamento l'assenza di interrogativi e di riferimenti a dubbi o a proteste contro l'inutile invasione del Libano. I soldati si preoccupano solo della propria sopravvivenza o dei loro rapporti personali. Nessuno cerca, mediante dialoghi o conversazioni, di capire il significato della guerra, il senso, la necessità.
In fondo, a distanza di anni, il bilancio negativo del conflitto, il suo fallimento su un piano morale, militare e politico, è ormai evidente anche agli autori dei film. Dopo tutto anche loro ricordano come l'ex primo ministro Menahem Begin, promotore e leader di quella guerra, abbia riconosciuto il terribile errore commesso e all'incirca un anno dopo lo scoppio delle ostilità abbia dato le dimissioni, si sia rinchiuso in casa come per autopunirsi e non ne sia più uscito fino al giorno della sua morte. Eppure, rimanendo fedeli alla propria esperienza personale, hanno dimostrato fino a che punto all'epoca i soldati stessi fossero parte di un clima di consenso nazionale, paralizzati, senza motivazioni ideologiche o morali che li inducessero a porsi domande su ciò che facevano. Ma le cose stavano davvero così? È questa la verità? Ritengo di no. Il fatto però che a distanza di tempo gli interrogativi e i dubbi di allora siano scomparsi e sia rimasta solo l’esperienza diretta dei combattimenti invita a mio giudizio a produrre una terza serie di film che prendano in esame quella guerra, così come fanno la letteratura, il teatro e il cinema israeliano con la questione palestinese. Quindi, per chi come me mantiene una posizione ferma e definita sulla guerra del Libano queste opere cinematografiche, per quanto valide su un piano artistico, sono da ritenersi comunque incomplete.
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