Vite fragili Rina Frank
Traduzione di Alessandra Shomroni
Fanucci Euro 17
Hakawati. Il cantore di storie Rabih Alameddine
Traduzione di M. Rotondo con F. Nitti
Bompiani Euro 21,50
La letteratura etnica può rappresentare un ottimo strumento di conoscenza. Proprio come il cibo. La definizione è di per sé relativa, quasi illusoria: per un lettore (o commensale) congolese, iraniano, ecuadoregno, Tomasi di Lampedusa o Lalla Romano non saranno meno etnici della pizza o della lasagna. Al di là dell’approssimazione che l’aggettivo “etnico” porta con sé, non si può negare che leggere o assaggiare siano un ottimo sistema per saperne qualcosa di più. E il successo di certi filoni editoriali si deve, a volte, più che alla qualità letteraria del materiale, alla sua funzione di finestra aperta su mondi lontani: quel che sappiamo, ad esempio, su un certo islam, viene certo più da romanzi che da un approccio diretto o di saggistica dotta. C’è però, in questo tipo di produzione letteraria, il rischio costante di cadere nello stereotipo (perché in fondo è un po’ questo che cerca il lettore “occidentale”), di indulgere nel folklore fine a se stesso, un po’ per superficialità un po’ per compiacimento. In sostanza, sono non di rado gli schemi, a dettare legge. Mentre la vera vocazione della scrittura è quella di uscire, dagli schemi. Romperli, ignorarli, scavalcarli: questo fa un buon libro. Non si tratta di trasgressione, ma di quella necessaria dose di individualismo grazie alla quale un libro diventa un’esperienza, tanto per chi scrive quanto per chi legge. In questo contesto conviene “recuperare” Hakawati. Il cantore di storie, un romanzo – monumentale – decisamente fuori dagli schemi. E’ anche un romanzo molto bello, che fa ridere e commuove, insegna e spiazza. L’ha scritto Rabih Alameddine che, in quanto a uscire dagli schemi, la sa lunga: è nato in Giordania nel 1959, ma di famiglia libanese. Ha vissuto in Kuwait, Libano, Inghilterra e attualmente si divide fra San Francisco e Beirut. E’ pittore oltre che scrittore, ha pubblicato varie cose, fra cui la prefazione al primo saggio in arabo sull’omosessualità. E’ un uomo coltissimo, ma di una sapienza lieve, quasi spensierata. Sull’altro fronte di un’attualità che spesso costringe a strane, innaturali approssimazioni, ma sulla stessa linea d’onda malgrado il contesto molto diverso, si situa il nuovo libro di Rina Frank, Vite fragili. Frank è una scrittrice israeliana anche lei decisamente fuori dagli schemi: la realtà che presenta al suo lettore non è quasi mai quella che egli si aspetta. Questo è, secondo chi scrive, il suo libro più riuscito: una serie di storie che s’incrociano e si sfiorano a vicenda, tutte tratte da una realtà israeliana marginale forse, certo molto vera. C’è Daniel, ex tossicodipendente riabilitato che fa le pulizie in una palestra e svela via via una inattesa complessità psicologica (oltre che una grande bontà). C’è Revital che è un’ingegnosa estetista. Ci sono tanti altri personaggi e storie, descritti con prontezza ed empatia. Entrambi questi romanzi, così diversi fra loro, sono conditi di quell’ironia che se magari non salverà il mondo, certo lo aiuterà sempre a sopravvivere. La capacità di guardare a ciò che ci circonda con quella ricetta segreta fatta di partecipazione e distacco. Di risata – che a volte viene fuori come da sé dalla pagina – e dolore. Con quest’arma letteraria, Alameddine rivisita la storia di una famiglia e insieme ad essa il patrimonio narrativo tradizionale, dalle Mille e una notte in giù. Rina Frank si sofferma invece su quella marginalità sociale che è uno dei tanti tratti d’Israele. Abituati come siamo a sentir parlare di questo Paese solo nel contesto del conflitto, fa quasi strano entrare in questa “normalità” del disagio, dell’emarginazione, ma anche del ricupero. Sono, in sostanza, due libri davvero unici, ciascuno a proprio modo, nella loro capacità di sfuggire agli schemi, nel non tradire mai un’identità letteraria ben precisa.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa