Sul FOGLIO di oggi, 21/11/2009/, a pag.3 due interessanti servizi da Israele. Nel primo, le opinioni di Shaul Mofaz, ex Likud, poi Kadima, un politico dalle idee sempre pragmatiche. Nel secondo, l'analisi della politica economica del governatore della Banca d'Israele Stanley Fischer, che è riuscito a tenere fuori il paese dalla crisi economica mondiale.
"Parlerei con il diavolo per la pace di Israele, dice il falco Mofaz"
Shaul Mofaz
Gerusalemme. “Sono pronto a parlare con il diavolo se questo portasse la pace allo stato d’Israele”. Shaul Mofaz, il numero due di Kadima, il partito di Ariel Sharon oggi all’opposizione, ha presentato una proposta per risolvere il conflitto israelo-palestinese: i mass media israeliani hanno definito il piano una “bomba politica”. Shaul Mofaz, ex membro della destra del Likud, ex capo di stato maggiore ed ex ministro della Difesa, propone la creazione di uno stato palestinese ad interim, nel giro di un anno, sul 60 per cento della Cisgiordania. Ed è pronto a parlare con Hamas. Sta aspettando il responso dei suoi legali prima di prendere appuntamento con i leader di Gaza. Vuole sapere se potrebbe essere accusato di un crimine. Dalla Striscia, in un primo momento, sono arrivate reazioni di chiusura – “Non parliamo con il nemico sionista” – poi alcuni hanno mostrato interesse.gruppo terrorista palestinese dovrebbe prima accettare le condizioni del Quartetto (Europa, Stati Uniti, Nazioni Unite e Russia), giornali e tv israeliane hanno trattato la proposta come la rottura di un tabù. La comunità internazionale chiede che il gruppo riconosca Israele, abbandoni il terrorismo, sottoscriva i previ accordi tra Autorità nazionale e Israele. “Se i funzionari di Hamas, i quali sanno che ho ucciso un loro leader, fossero pronti a parlarmi, li incontrerei”, ha detto Mofaz, ricordando l’assassinio mirato dello sceicco Ahmed Yassin, colpito da un razzo lanciato da un elicottero israeliano nel 2006, quando lui era ministro della Difesa. “La maggior parte degli israeliani è aperta al dialogo con Hamas – spiega al Foglio Gideon Doron, presidente dell’Associazione israeliana per le scienze politiche – Mofaz è noto per essere un falco e non è cambiato all’improvviso. Quello che sta facendo è semplicemente esaminare l’umore della popolazione, le sue frequenze. Il pubblico israeliano vuole la fine del conflitto. Molti vogliono parlare a Hamas a certe condizioni”. Gli americani sono stati finora contrari a ogni dialogo con organizzazioni terroristiche come Hamas, ma l’Amministrazione Obama è “delusa” dalla decisione del governo Netanyahu di andare avanti con gli insediamenti ed è disorientata dall’annuncio di Abu Mazen, leader dell’Anp, di non presentarsi alle prossime elezioni palestinesi. Il caos è tale che il rais palestinese ha fatto sapere che sono ormai gli stessi americani ad aver avviato un dialogo con Hamas. Intanto, l’ambasciatore americano in Israele ha voluto incontrare Mofaz per discutere il piano. La “bomba politica” ha al momento più effetti sulla politica interna di Israele. Pochi giorni fa, il leader, Tzipi Livni, ha rifiutato di discutere il piano Mofaz. Non c’era abbastanza tempo e lei avrebbe dovuto parlare a un’importante conferenza. L’ex ministro era seduto accanto a lei. L’ha accusata di creare divisioni nel partito. Lei vuole parlare soltanto con “i moderati”: “Ai miei occhi ogni discussione con Hamas è pericolosa”, ha detto Livni. Gli screzi fra i due rivelano tensioni antiche. Nel centro rappresentato da Kadima, Livni incarna l’anima di sinistra, Mofaz quella di destra. Ma avanzando un piano di pace, anche se non definitivo, il numero due cerca sostegno al di fuori della sua base tradizionale e costringe Livni, dicono fonte interne, a presentare una sua piattaforma. “E’ una questione di leadership interna, una battaglia con Livni – dice Doron – per sfidarla, Mofaz ha bisogno di un’agenda, pesca a sinistra. Agli occhi degli americani sembra più flessibile di Netanyahu, ma Washington non vuole parlare con Hamas”. Per Doron lo sviluppo più interessante è la nascita di un nuovo punto di vista: “La soluzione a tre stati: Hamas, Autorità nazionale, Israele”
" Ecco la formula che tiene Israele fuori dalla crisi economica "
Stanley Fischer
Gerusalemme. “Masà” in ebraico significa viaggio, ma è anche il nome di un’organizzazione che aiuta giovani ebrei di tutto il mondo a passare alcuni mesi in Israele per fare volontariato, studiare o lavorare. Da quando c’è la crisi economica, Masà rappresenta un forte richiamo. Quest’anno molti dei 160 programmi hanno visto il numero di partecipanti raddoppiare. Il piccolo paese mediorientale, privo di petrolio e altre risorse naturali, sembra aver trovato la via della ripresa più rapidamente di tanti altri paesi occidentali. Tra la fine del 2008 e il primo trimestre del 2009, una leggera recessione ha colpito il paese; poi però l’economia si è ripresa e ora la Banca d’Israele prevede una crescita zero per quest’anno e almeno un +2,5 per cento per il 2010. In ottobre la bilancia commerciale è tornata in positivo per la prima volta in 14 anni; l’inflazione e la disoccupazione sono cresciute, al 3,2 e al 7,5 per cento rispettivamente, ma meno delle previsioni. Gli analisti plaudono ai principali attori economici, il premier Benjamin Netanyahu e il governatore della Banca d’Israele Stanley Fischer, per aver superato la cattiva congiuntura con poche e leggere iniziative, anche grazie a un sistema bancario solido e ben regolamentato. Ma il paese deve la sua fortuna a uno sviluppo basato su ricerca e alta tecnologia. In totale, gli investimenti in ricerca e sviluppo arrivano al 5 per cento del pil, il livello più alto del mondo. “Israele ha deciso di usare la ricerca e lo sviluppo per far fronte ai suoi problemi più grandi, come la sicurezza o la scarsità d’acqua – dice Ricardo Hausmann, direttore del Centro per lo Sviluppo Internazionale presso l’Università di Harvard – Così ha trovato idee che sono valide a livello globale e si è specializzata nell’esportazione di soluzioni ai propri problemi”. Sono lontani i tempi in cui il pompelmo Jaffadel giovane stato, nato con un’economia largamente socialista incentrata sull’egualitarismo del kibbutz. Oggi le scoperte e i prodotti israeliani sono ovunque: nella tecnologia militare, ma soprattutto nell’informatica, nelle energie alternative, nella desalinizzazione dell’acqua e nella medicina. Il motore dell’economia è nelle tante piccole imprese, spesso create da giovani sulla base di invenzioni o idee creative, scrivono Dan Senor e Saul Singer in “Start-Up Nation”, un libro da poco pubblicato. Hausmann, autore di uno studio sullo sviluppo israeliano, afferma che Israele ha creato una filiera perfetta per l’innovazione, coltivando tramite la scuola, l’esercito, gli interventi statali e privati i talenti di una popolazione costituita in buona parte da immigrati Secondo gli esperti, la vera chiave si trova negli anni del servizio militare obbligatorio: tre per i ragazzi e due per le ragazze. Quello che per molti è una dura e rischiosa imposizione è anche il momento in cui i giovani imparano a trovare soluzioni con poche risorse. “Molti acquisiscono competenze di ingegneria elettronica e software – dice Asher Tishler, preside della Business School dell’Università di Tel Aviv – Così imparano a pensare, risolvere i problemi, prendere decisioni e non avere paura di contraddire i superiori”. Da poco ha aperto a Gerusalemme un impianto della Intel per la fabbricazione di matrici, passo fondamentale nella produzione dei microchip. Nel 2006, Warren Buffett ha preso il controllo di un’importante azienda metallurgica; Nissan Renault collabora alla creazione della prima rete capillare per ricaricare automobili elettriche. Per contenere il crollo delle esportazioni, calate del 25 per cento nei primi mesi della crisi, il governatore Fischer ha lanciato un programma di acquisti di valuta estera per abbassare il valore dello sheqel, la moneta israeliana, che continuava a rafforzarsi sul dollaro. L’anno scorso Fischer fu tra i primi ad abbassare i tassi d’interesse, mentre ad agosto fu il primo governatore a rialzarli dopo i primi segnali di ripresa. “La sua reputazione e la sua freddezza sono state essenziali per mantenerci in buona forma”, dice Tishler. L’impatto economico del nucleare iraniano Nel 2004 il governo ha approvato una riforma del sistema finanziario separando le banche da fondi di investimento e altre forme di gestione del risparmio. All’epoca Netanyahu era ministro delle Finanze nel governo Sharon. Neoliberista e sostenitore di uno “small government”, l’attuale premier rimane una figura controversa. Per i suoi sostenitori, ha rivoluzionato l’economia israeliana con tagli alle tasse, privatizzazioni e liberalizzazioni. Per i critici, ha tagliato troppo sul welfare, contribuendo ad accrescere lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza. “Netanyahu è un thatcheriano, e il suo sogno è portare questa politica in Israele”, sostiene Ariel Arnon, professore di Economia dell’Università Ben Gurion. Netanyahu continua a tenere le fila della politica economica, controllando l’azione del ministro delle Finanze Yuval Steinitz, un professore di filosofia. Ora il premier ha dovuto moderare le sue posizioni per non perdere l’appoggio dei laburisti, compagni di governo. Secondo Arnon, l’equilibrio mantenuto da Netanyahu emerge anche dai consiglieri economici più influenti: Uri Yogev, convinto neoliberista ex capo del Bilancio del ministero delle Finanze poi entrato nel settore privato, e Ofer Eini, il presidente della Federazione dei sindacati. Gli economisti ora avvertono che le sfide non mancheranno. La preoccupazione maggiore è data dal programma nucleare iraniano. A Teheran basterebbe solo possedere l’arma atomica per far fuggire da Israele i migliori cervelli. “E’ un aspetto di cui non si parla, ma molti ne discutono a casa e con gli amici – dice Arnon – Pensano di avere ancora tempo, ma non c’è grande fiducia nel lungo periodo. Non è piacevole pensare di dover crescere i propri figli all’ombra di un fungo atomico”.
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