Stupefacente il contenuto dell'articolo di Valerio Pellizzari sulla STAMPA di oggi, 21/11/2009, a pag.12/13 dal titolo " Gul: con l'Armenia una svolta storica ", nel quale si dà per scontato che la Turchia sia governata da un islam "moderato". Come se il governo Erdogan non avesse pregiudicato i rapporti con gli Usa, per non dire dei legami divenuti stretti con tutti gli stati canaglia della regione. E pensare che in una didascalia viene definito " primo presidente non laico a questa carica ", per cui non capiamo le due pagine piene di elogi . Insomma, tutti i problemi che hanno allontanato la Turchia dalla possibilità di entrare in Europa completamente ignorati.
Ecco il pezzo:
Finchè sarà governata da un regime islamico
L’ultima frontiera proibita della Guerra fredda resiste qui, in Anatolia, tra Turchia e Armenia, ai piedi del monte Ararat, dove un tempo passava la via della seta. Ma la frontiera chiusa è solo l’ultimo capitolo della questione armena, molto più antica della cortina di ferro. Tutto scoppiò un secolo fa, negli ultimi anni dell’Impero ottomano, sullo sfondo della Prima guerra mondiale. Gli armeni sostengono che nel 1915 il loro popolo fu vittima di un genocidio brutale condotto dalle truppe del sultano, con un milione e mezzo di vittime. I turchi hanno sempre respinto quella espressione, parlano di «guerra tra comunità», di «trasferimenti in epoca bellica», alcuni intellettuali hanno lanciato recentemente un appello sulla «grande catastrofe». In questa vicenda la propaganda delle due parti è sempre in agguato, ogni singola parola pesa realmente come una enorme pietra.
Abdullah Gül, presidente della Repubblica turca, membro del partito islamico moderato, è nato a Kayseri - l’antica Cesarea - dove un tempo viveva una importante comunità armena. Ha deciso di affrontare i nodi politici più contorti del suo Paese, congelati da troppo tempo. Procede per la sua strada con passo lento ma regolare. È stato lui ad annunciare un anno fa: «Arriveranno belle cose sulla questione curda. Non perdiamo una occasione storica». Poi è stato a Baghdad in visita ufficiale, interrompendo un vuoto diplomatico di oltre trent’anni, e di proposito ha voluto dormire in città, mentre i capi di Stato arrivano e partono frettolosamente nella stessa giornata per ragioni di sicurezza. Infine lo scorso ottobre ha ricevuto in visita il presidente armeno Sarksyan, del quale era già stato ospite un anno prima, sempre con il pretesto di una partita di calcio tra le due nazionali. Dietro il folclore sportivo c’era una decisione coraggiosa, presa congiuntamente da Gül e dal suo ospite: su entrambi incombono gli integralisti di Atatürk e gli irriducibili della diaspora. Così, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica armena nel 1918, un presidente di Erevan ha compiuto una visita nella terra dei sultani.
Allora, quando i suoi compatrioti e gli armeni potranno attraversare il confine?
«Questa barriera verrà cancellata presto, dopo l'accordo che abbiamo firmato in ottobre a Berna. Certo ci vogliono i tempi tecnici perché quel testo sia discusso nei Parlamenti dei due Paesi. Ma poi arriverà lo scambio di ambasciatori e la riapertura della frontiera terrestre. Lo spazio aereo è già aperto da tempo».
Lei ha detto che non ci sono più tabù nella politica turca.
«Non ci sono più argomenti vietati, come la questione curda o la questione armena. Se aumenta il livello di democrazia in un Paese di conseguenza scompaiono i tabù. E se noi vogliamo portare avanti la nostra diplomazia di "zero problemi con i Paesi vicini" allora bisogna poter parlare di tutto. Abbiamo proposto una commissione mista di storici dalle due parti, integrata da studiosi di Paesi terzi, che studi gli archivi e che poi dia il suo giudizio. Abbiamo aperto anche gli archivi militari. E abbiamo detto che accetteremo il giudizio degli studiosi. Ma eliminare i tabù riguarda le idee, modificare il linguaggio è un processo più lento».
C’è un fatto preciso che ha avviato la svolta politica con Erevan?
«Quando il presidente Sarksyan è stato eletto due anni fa gli ho mandato un messaggio di congratulazioni sincero, non un testo formale, e lui ha risposto in maniera altrettanto sincera. Penso che quello sia il momento in cui è stato rotto il ghiaccio. Poi ci sono stati gli inviti reciproci, le partite delle due squadre di calcio, le dichiarazioni di apertura fatte in luoghi e momenti particolarmente simbolici. Ma più in generale tutto il mondo cambia, e anche la Turchia cambia».
Dentro il suo Paese chi ostacola e chi favorisce questa apertura storica?
«Ci sono quelli che si oppongono, con posizioni intransigenti. Questo è naturale, perché si tratta di un problema che si trascina da quasi un secolo. Ma ci sono anche quelli che vogliono risolverlo. Per me il fatto importante è che questi siano più numerosi dei primi».
Personalmente quando ha pensato che ormai il tempo era maturo per una apertura?
«Quando è scoppiata la guerra del Caucaso, nell’agosto del 2008. Quando i problemi non vengono risolti, quando restano congelati, a quel punto non si possono risolvere mettendoli nuovamente dentro il frigorifero. È molto facile fare così, non si corrono rischi. Invece in quella regione c’è bisogno di stabilità, di cooperazione. E l’Armenia ha un posto in quella regione. Quello che avverrà in quel Paese produrrà benefici in molte direzioni, e arriverà lontano».
Lei è stato aiutato nelle sue aperture con Erevan dal fatto di essere nato a Kayseri, di essere un turco dell’Anatolia?
«È la prima volta che mi viene fatta questa domanda. Francamente direi di no».
Voglio dire: ha un significato preciso che sua moglie, la padrona di casa, abbia cucinato per il Presidente armeno a Bursa.
«Diciamo che la tradizione in Anatolia ha le sue regole verso gli ospiti, e che gli armeni conoscono bene queste consuetudini. Però per essere esatti il cibo è stato preparato qui ad Ankara, poi l’abbiamo portato a Bursa, e mia moglie ha voluto controllare tutta l’organizzazione della cena. Dire che ha cucinato lei è un po’ troppo».
L’Azerbaigian sembra preoccupato per questo riavvicinamento con l’Armenia.
«È un fatto che i nostri due Paesi appartengono entrambi al mondo islamico, e noi siamo stati dalla parte di Baku con chiarezza quando i soldati cristiani di Erevan hanno preso il Nagorno-Karabakh. Naturalmente oggi gli azeri guardano molto attentamente a quello che succede tra noi e l’Armenia. Ma quando si parla del Nagorno-Karabakh non bisogna pensare solo agli armeni di quel territorio, ma anche alle sette province attorno che sono state occupate da Erevan per farne una zona cuscinetto. Questo è un problema diverso, perché da quelle province sono partiti profughi azeri. Credo che i due Paesi risolveranno il problema della zona cuscinetto. Poi gli effetti dell’accordo di Berna porteranno vantaggi anche a Baku».
Gli occidentali vi hanno aiutato a sbloccare i rapporti con Erevan?
«La mediazione vera è stata fatta dalla Svizzera, gli occidentali ci hanno incoraggiato».
Incoraggiare a volte significa poco. Si dice che l’unico ruolo significativo sia stato giocato dalla Russia.
«La Russia ha avuto e ha un ruolo importante per la trattativa tra Armenia e Azerbaigian».
Il riavvicinamento tra voi e gli armeni nel Caucaso meridionale compensa le tensioni del Nord, in Georgia, Ossezia, Abkhazia?
«Questa è una regione che ha una lunga storia di instabilità. Ma se le cose si normalizzano allora il Caucaso diventa veramente una porta aperta vantaggiosa per tutti, considerando le risorse energetiche che lì esistono. Questa è la ragione per cui la Turchia ha messo tutto il suo impegno nella zona. Negli anni passati i problemi di questa regione erano affidati a diplomatici di secondo livello, questo significava di fatto tenere aperti i dossier senza risolvere i problemi che contenevano. Adesso invece i problemi sono sul tavolo dei Presidenti nei rispettivi Paesi, è tutta un’altra situazione».
Ma nel Caucaso, e in Turchia in particolare, c’è un grande incrociarsi di gasdotti e di oleodotti. Alcuni di questi progetti sembrano quasi contraddirsi politicamente, come Nabucco sostenuto da americani ed europei, e Southstream, sostenuto soprattutto dai russi.
«No, non si contraddicono. Dico che si integrano, che si completano. Non bisogna avere paura se vengono scavate nuove pipeline. Il gas e il petrolio che transitano sul nostro territorio non sono un’arma. È una tradizione consolidata della Turchia avere un comportamento affidabile, prevedibile. Si può dire che noi ci troviamo in una posizione privilegiata per effetto della geografia, ma questo è un fatto naturale, non è legato alla nostra volontà».
Se la rete di tubi per gas e petrolio continua a crescere voi controllerete una grande quantità di rubinetti. Controllate anche le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate. Avrete una posizione strategica più importante di quella militare, anche se avete il secondo esercito della Nato.
«In questo senso lei ha ragione. Ma le ripeto: per noi il gas in transito non è un’arma. Quando l’Europa ha avuto problemi di rifornimento, perché il gas russo passava dall’Ucraina, la Grecia non ha risentito di alcuna limitazione, le nostre forniture sono arrivate regolarmente. E poi se vogliamo una politica di "zero problemi" con i vicini non si possono usare i rubinetti in modo ricattatorio. Ci sono i contratti, e un Paese serio li rispetta».
Per tornare all’Armenia, questa è una storia ereditata dall’Impero ottomano, e oggi un partito islamico moderato prova a chiudere con quella eredità. Anche per questo dicono che siete i neo-ottomani?
«Questo è un termine che hanno inventato gli occidentali, e che poi è entrato anche nel nostro vocabolario. Se significa avere buone relazioni con i Paesi vicini, conoscere la loro storia e la loro mentalità, cercare di risolvere i problemi senza imporre il proprio punto di vista e senza deformare l’identità degli altri - come avviene invece in Afghanistan oggi - allora condivido questo termine. Se significa al contrario allontanarsi da una linea filo-occidentale, dimenticare il nostro impegno atlantico, mostrare frustrazione verso Bruxelles, rispolverare la retorica imperiale, allora non lo condivido».
In conclusione si può dire che oggi la Turchia ha definitivamente voltato pagina sulla questione armena?
«Sì, questa è la nostra scelta. Noi facciamo del nostro meglio. Ma anche gli altri devono avere la stessa volontà».
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