La storia del rapporto tra gli ebrei e l'economia secondo Milton Friedman, sul FOGLIO di oggi, 20/11/2009, a pag. I, dal titolo " gli ebrei contro il capitale". di Marco Valerio Lo Prete, che ha svolto un'encomiabile lavoro di sintesi su una conferenza tenuta dal Premio Nobel per l'economia.
Milton Friedman
A Lanny Ebenstein, che nel 2007 avrebbe mandato in stampa una delle sue prime biografie postume, Milton Friedman lo chiarì sin dalla prima conversazione che ebbero: “Quello che dico a una persona, lo dico a tutti”. E in effetti la vita dell’economista americano fu perlopiù un libro aperto, anche nei suoi aspetti privati, avventurosi ma non troppo per un paese dove quella del self-made man non è mai stata una specie rara. Gli stessi argomenti utilizzati per consigliare il presidente Ronald Reagan, Friedman li espose pubblicamente nelle sue tre visite nella Cina comunista; le stesse lezioni trasmesse ai tanti allievi incontrati nella carriera universitaria furono al centro dei dibattiti con Mises, Popper e Hayek nella Mont Pèlerin Society che gli stessi fondarono nel 1947. Si ripeteva spesso e volentieri Friedman, all’inizio incompreso, poi sempre più spesso celebrato, tanto che nella sua autobiografia del 1988 scrisse: io e mia moglie, Rose, oggi siamo “nella corrente principale di pensiero e non, come cinquant’anni fa, una minoranza derisa da tutti”. Una figura dunque, quella del luminare liberista scomparso nel 2006, da ricostruire innanzitutto attraverso i suoi interventi pubblici. E a maggior ragione acquista valore, perfino storiografico, la registrazione inedita che da qualche giorno l’Università di Chicago ha recuperato e messo a disposizione del pubblico. Friedman parla per un’ora e venti minuti, durante un’assemblea gremita di studenti del suo ateneo, quello di Chicago, nel quale insegna dal 1946. D’altronde l’argomento trattato non è di quelli che si sarebbero affrontati durante una classica lezione d’economia: “Il capitalismo e gli ebrei”, così lo introduce la giovane voce che precede Friedman. E’ la stessa voce, subito prima, a ricordare come la data dell’incontro sia stata cambiata all’ultimo momento per via di un imprevisto: l’annuncio che Friedman, il 13 dicembre, dovrà essere in Svezia per ricevere il Premio Nobel per l’Economia. Fu insignito infatti, in quel dicembre 1976, “per i suoi risultati nel campo dell’analisi del consumo, della storia e della teoria monetaria, per la sua dimostrazione della complessità della politica di stabilizzazione”. Agli studenti riuniti attorno a lui, Friedman intende illustrare come si possano conciliare tra loro “due affermazioni, ciascuna delle quali, provo ad argomentare, sostenuta dall’evidenza. La prima proposizione è che ci sono poche persone al mondo che siano tanto debitrici alla libera impresa e al capitalismo concorrenziale quanto lo sono gli ebrei. La seconda proposizione è questa: ci sono pochi popoli al mondo che hanno fatto tanto quanto gli ebrei per minare le fondamenta intellettuali del capitalismo”. Quanto alla prima affermazione, l’economista di Chicago insiste su un punto: “L’essenza del capitalismo competitivo risiede nel fatto che questo si fonda sul mercato, e il mercato è neutrale, indifferente ai colori, indifferente alla religione e alla razza. Quando entri in un negozio per acquistare un filone di pane, non immagini nemmeno da dove venga la farina usata per impastarlo, se sia originaria di una fattoria di un bianco o di un nero, di un cinese o di un giapponese, di un ebreo o di un battista (sia esso ‘rinato’ o meno). Quindi il mercato è indifferente ai colori. Un monopolio invece, sia esso privato o governativo, non è indifferente ai colori, perché i monopolisti sono in una posizione tale da poter decidere da chi comprare o a chi vendere. Sono in grado dunque di esercitare un controllo basato su criteri diversi da quello della prestazione di mercato”. Gli esempi non mancano e Friedman inizia da alcune riflessioni svolte in occasione di un convegno al quale era stato invitato qualche anno prima a Montreal, e che aveva visto la partecipazione di dirigenti delle banche di tutto il mondo. “Ho fatto un rapido sondaggio, e di tutti i banchieri presenti in quella sede, circa l’uno per cento di essi erano ebrei. Questo è l’effetto del monopolio, e infatti in ogni paese l’attività bancaria è un monopolio”. Tra gli accademici e i ricercatori invitati nella stessa occasione per presentare ricerche sul mercato creditizio, circa il 25 per cento era costituito da ebrei. “In questo settore c’è invece competizione, perché [gli organizzatori] avevano scelto quelle che ritenevano le personalità più valide per tenere delle presentazioni. Ciò dimostra in modo molto chiaro la distinzione tra la competizione – nella quale la scelta dipende dalla performance – e il monopolio – dove invece è possibile usare criteri diversi dalla performance nel processo di selezione”. Falsa, dunque, la vulgata popolare per cui gli ebrei avrebbero un ruolo spropositato nell’élite dei banchieri: “Perché il settore in questione è un monopolio – spiega Friedman – per aprire una banca devi ottenere una concessione dallo stato e i colleghi banchieri devono in qualche modo garantire per te”. L’economista poi racconta un episodio che lui stesso, assieme alla collega Anna Schwartz, ha scoperto nel corso delle proprie ricerche sulla storia monetaria degli Stati Uniti, ovvero il fallimento di Bank of United States nel 1930, uno dei due soli istituti – in tutto lo stato di New York – che al tempo avesse proprietari di religione ebraica. La banca dovette chiudere i battenti l’11 dicembre 1930: “Fu il fallimento più grave sino a quel momento, e funzionò come un detonatore fondamentale per l’esplosione della cosiddetta Grande depressione”. Non fu la causa di tutto, tiene a precisare l’economista, ma è certo che da quel giorno prese il via la corsa agli sportelli che mise in ginocchio quasi tutti gli istituti di credito del paese. “Perché Bank of United States fallì? Non c’è dubbio, i documenti sono molto chiari: perché John P. Morgan era antisemita”. All’inizio del Novecento le presunte attività monopolistiche del finanziere erano finite sotto osservazione: prima di una commissione del Congresso guidata da un avvocato ebreo, poi di alcuni pamphlet polemici scritti da Louis Brandeis (che in seguito divenne il primo ebreo ad essere eletto giudice della Corte suprema). Così quando al figlio di John P. Morgan toccò accordarsi con la Fed di New York per salvare – diremmo oggi – la Bank of United States, come era già avvenuto in precedenza per altri istituti, John P. Morgan Jr. si rifiutò, spiegando a Charles Sumner Hamlin, membro della Fed: “La farò pagare a quegli ebrei per quello che fecero a mio padre”. Che la sclerotizzazione del libero mercato non favorisse gli ebrei, lo dimostra la storia di secoli di Diaspora, durante la quale essi “furono in grado di esistere soprattutto grazie a piccoli scampoli di mercato che continuarono a rimanere in piedi”. “Fecero molto bene soprattutto nel campo del commercio e della finanza internazionali, perché questi erano settori che i governi potevano controllare con maggiore difficoltà”. E’ sufficiente voltarsi indietro e notare come quelle “aree in cui gli ebrei hanno potuto prosperare relativamente”, coincidono con “quei paesi che hanno il livello maggiore di capitalismo competitivo”: l’Olanda del XVI e XVII secolo, il Regno Unito tra XVIII e inizio XX secolo, gli Stati Uniti. Poi un inciso: “Ora sto parlando degli ebrei, ma tutto quello che ho detto resta valido per qualsiasi minoranza impopolare. Vale per i neri tanto quanto per gli ebrei. Come questi ultimi hanno molto da guadagnare da una società fondata sulla competizione e la libera impresa, così è anche per i neri”.Eppure, nonostante “gli ebrei solo raramente [abbiano] beneficiato dell’intervento statale, mentre hanno prosperato, potendosi giovare della libertà – anche dal pregiudizio –, soltanto quando c’è stata una grande dose di libera impresa”, resta il fatto che gli stessi “si sono opposti regolarmente al capitalismo, facendo molto – almeno a livello ideologico – per minarne le fondamenta. Da Karl Marx a Leon Trotzky, dice Friedman, fino alla nostra versione contemporanea – Herbert Marcuse – gran parte della letteratura anticapitalista è riconducibile ad autori ebraici”. Le radici di questo filone particolare di anticapitalismo sono state già indagate, ammette il professore di Chicago, ma molte delle teorie esistenti non lo convincono. Lawrence Fuchs riconduce l’anticapitalismo di tanti autori ad alcuni valori specifici della religione e della cultura ebraica. Eppure “la religione e la cultura ebraica hanno 2.000 anni – nota Friedman – come è possibile che per 1.800 anni questi valori non abbiano generato una mentalità anticapitalista e negli ultimi 200 sì?”. Non solo; ci sono autori, come Werner Sombart, che sostengono esattamente l’opposto. Secondo Sombart, è proprio per ragioni culturali che gli ebrei avrebbero “sostenuto e difeso attraverso i secoli la causa della libertà individuale nell’attività economica contro la visione dominante dei tempi”. Un secondo punto di vista sostiene che tendenzialmente “gli intellettuali sono anticapitalisti, e gli ebrei sono più che proporzionalmente presenti tra gli intellettuali”. Spiegazione soddisfacente? Friedman si dice convinto anche lui di una certa propensione ebraica all’intellettualismo, che spiega così: primo, gli ebrei sarebbero stati di fatto costretti a concentrare la loro attività in settori senza eccessive barriere all’ingresso e nei quali fosse effettivamente premiato il merito. Secondo, “se sei parte di una minoranza perseguitata, o sei costretto a fuggire da doveti trovi, desideri accumulare il tuo capitale in forme che puoi portare con te. E il miglior modo, ovviamente, è per via intellettuale”. Parola di figlio di ebrei emigrati alla fine dell’Ottocento dalla Carpazia, provincia dell’Impero austroungarico, per trasferirsi a Brooklyn. Ma anche in questo caso la spiegazione è incompleta: perché “gli intellettuali ebraici sono più anticapitalisti degli intellettuali in generale, e anche tra gli ebrei non intellettuali si registra la stessa tendenza rispetto ai non ebrei”. Lo dimostrerebbe il fatto che in generale i cittadini americani di fede ebraica, almeno dagli anni 30, abbiano avuto un ruolo significativo nei movimenti comunisti, socialisti, e in generale di sinistra, attivi negli Stati Uniti. Perciò Friedman guarda piuttosto a due ipotesi ulteriori. Per una di esse si dice debitore “a una tesi di dottorato dell’Università di New York, non ancora pubblicata, di Werner Cohn”. “A partire dalla Rivoluzione francese, il panorama politico europeo si organizzò in un’ala destra – strettamente connessa con la chiesa e con i movimenti religiosi cristiani – e in un’ala sinistra, con i partiti socialisti e comunisti che erano anti-clericali. La sinistra dunque offriva l’unico spazio politico in cui un ebreo potesse fare politica senza essere fuori posto per la sua fede”. Il ragionamento è valido per l’Europa, nonostante Friedman non dimentichi di citare il fenomeno dell’antisemitismo di sinistra, ma è difficilmente applicabile al caso degli Stati Uniti, paese nel quale la separazione tra stato e chiesa è sempre stata netta e condivisa da tutte le parti politiche. Senza contare che le élite puritane erano perfino pro-semitiche. Anche prendendo in considerazione l’influenza degli intellettuali europei trasferitisi oltreoceano, l’enigma del caso statunitense richiede un’ipotesi ancora più raffinata. “La mia personale spiegazione – riprende allora Friedman – è che l’antisemitismo abbia prodotto uno stereotipo dell’ebreo fondato sull’idea che egli sia interessato solo ai soldi, egoista e avido. Ora… non c’è nessun problema ad essere interessato ai soldi!”. Risate e applausi. “Ma è molto difficile isolarsi dai valori intellettuali e culturali nei quali viviamo. Gli ebrei accettarono i valori della società nella quale vivevano e quei valori denigravano tali caratteristiche. Per questo essi si sono detti: ‘Se fossimo così, gli antisemiti avrebbero ragione. Quindi dimostreremo che noi non siamo così’”. “Dimostreremo che al contrario noi siamo altruisti, crediamo nella possibilità di fare il bene tramite l’intervento del governo, che crediamo in una filosofia molto differente”. Friedman spiega di aver formulato questa ipotesi dopo un suo primo soggiorno in Israele: “Ho compreso allora che il modo migliore per farsi un’idea di quello che era vero in Israele, era chiedersi cosa fosse valido per gli ebrei della diaspora ed invertirlo”. Se gli ebrei della diaspora vivono soprattutto in città, quelli israeliani tengono in alta considerazione l’agricoltura. Tanto i primi sono anti-militaristi, quanto i secondi pongono un’enfasi enorme sull’esercito. Mentre la diaspora parla lo yiddish, in Israele l’ebraico è la lingua predominante. “E poi, volete la prova decisiva? Gli ebrei della diaspora erano considerati grandi cuochi. Adesso in Israele è l’opposto”. Lunghi applausi e risate. “Concludo quindi che le motivazioni principali per la mentalità anticapitalista degli ebrei siano da una parte le circostanze particolari del XIX secolo in Europa, che legarono i partiti pro-mercato con le religioni stabilite e che spinsero gli ebrei alla sinistra dello spettro politico; e dall’altra parte i tentativi inconsci degli ebrei di dimostrare a se stessi e al mondo la fallacia dello stereotipo antisemita”. Quantomeno peculiare il fatto che tale ideologia sviluppata nei decenni si opponga fermamente “all’interesse personale degli ebrei”, non solo all’interno degli Stati Uniti, come prova a dimostrare Friedman con la sua domanda al pubblico: “Quale sarebbe oggi la situazione di Israele se ogni altro paese fosse socialista? Da dove prenderebbe finanziamenti? Nella sua storia questi sono arrivati da paesi capitalisti, come gli Stati Uniti, il Sud Africa, il Regno Unito. Non dai governi di questi paesi, ma dai residenti ebrei di questi stati. E gli ebrei russi hanno mandato forse un ammontare comparabile di aiuti? O sono forse stati in grado di influenzare il loro governo perché inviasse aiuti?”. Risposta: “Se tutti i paesi del mondo si fossero conformati al tema dominante l’ideologia intellettuale ebraica, Israele non sarebbe mai stato in grado di esistere”. Non è detto che però la situazione resti immutata: “Gli ebrei potevano permettersi di essere favorevoli a muovere verso il socialismo nei settori delle public utilities, delle ferrovie, del telegrafo, delle banche, all’interno dei quali non giocavano un ruolo importante. Arricchendosi però contemporaneamente grazie al mercato competitivo che esiste nel commercio, nell’industria dell’intrattenimento, nell’educazione. Ma con l’espansione del ruolo dello stato anche in questi settori, sta divenendo sempre più difficile per gli ebrei muoversi nel libero mercato. Non so se questo conflitto porterà nel tempo a un cambiamento delle attitudini, ma credo che aiuterà quantomeno a scalfirle. Sarebbe molto desiderabile che gli intellettuali ebrei divenissero molto più consapevoli e critici di queste attitudini che hanno sviluppato, anche per capire pienamente che il mercato è il sistema, l’unico sistema, che permetterà a tutti di cooperare l’uno con l’altro, che consentirà a ogni persona di andare per la sua strada mentre ciascun altro va per la propria”
. Su “2+2”, il blog di economia e finanza del Foglio.it, l’audio dell’intervento di Friedman: www.ilfoglio.it/duepiudue/251
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