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Il Foglio Rassegna Stampa
19.11.2009 Iran: La rivolta non dorme mai
Nonostante le violenze del regime i giovani continuano a protestare

Testata: Il Foglio
Data: 19 novembre 2009
Pagina: 6
Autore: Tatiana Boutourline
Titolo: «La rivolta non dorme mai»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/11/2009, a pag. III, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo " La rivolta non dorme mai ".

C’est une révolte?”, chiese Luigi XVI al duca di Liancourt alla notizia della caduta della Bastiglia. “Non, Sire, c’est une révolution”, fu la risposta. In Iran il regime si misura con la rivolta, ma nei corridoi del potere, a turbare i sonni della nomenklatura si aggira lo spettro della rivoluzione. Non è bastato aggiornare i curricula dell’intelligence con Vaclav Havel e Karl Popper, studiare le rivoluzioni colorate in Ucraina, Georgia e Kirghizstan, assoldare 007 orfani del Muro di Berlino, arrestare filosofi, giornalisti, universitari, femministe e direttori di ong. L’enghelab-e-makhmali, la rivoluzione di velluto, non si è ancora materializzata, ma i “terroristi” non si rassegnano e il grido di protesta dell’élite “intossicata di valori occidentali” ha conquistato la piazza. “Tutti i cospiratori sono stati individuati” ha annunciato lo speaker della tv di stato l’estate scorsa prima di far partire le immagini dei notabili riformisti messi alla gogna con confessioni- farsa e processi kafkiani. L’illusione è tramontata presto. Nonostante i 15 voli speciali per i bassiji e l’incentivo di una faraonica festa per 1.200 membri della fondazione dei martiri di guerra, la prima tappa del tour di inizio mandato di Ahmadinejad è stata un fiasco e la religiosissima città di Mashad gli ha tributato un benvenuto glaciale anche dentro il mausoleo dell’Imam Reza. Gli studenti hanno accolto il suo ministro della Cultura, Safar Harandi, urlando “Raye man kojast?”, dov’è il mio voto?, e “Marg bar diktator”, morte al dittatore. L’ayatollah Ali Khamenei ha ammonito un gruppo di universitari che contestare il responso delle urne è “il più grave dei crimini” e un giovane matematico ha preso la parola sfidandolo. Una settimana dopo, la celebrazione della presa dell’ambasciata americana è stata dissacrata in tutto il paese da cartelli con scritto “morte a nessuno” e “morte alla Russia”. Sadegh Zibakalam, professore di Scienze politiche all’Università di Teheran, ha posto la questione in termini elementari: “Se le autorità, come sostengono, hanno identificato e fermato tutti i cospiratori, come è possibile che l’ondata di proteste popolari continui?”. Al netto della retorica, il regime non si illude che esistano risposte rassicuranti all’interrogativo sollevato da Zibakalam. Con le buone e molto più spesso con le cattive, nessuno sforzo sarà risparmiato per evitare che un giorno qualcuno replichi a Khamenei con le parole del duca di Liancourt. Ma potrebbe essere già troppo tardi. “Quella che sta vivendo l’Iran è una svolta storica – dice al Foglio Mohammed Reza Djalili, professore all’Institut de Hautes Etudes Internationales di Ginevra – Non si tratta di una crisi circostanziale ma strutturale, la legittimità del regime è stata polverizzata, non si può tornare all’equilibrio antecedente al 12 giugno, la rabbia che è esplosa non potrà essere neutralizzata né dalla forza dell’apparato di sicurezza né dalla commedia di tribunali di ispirazione staliniana”. Anche se, come nota Djalili, “il mondo ha finalmente visto un altro Iran”, pur dimostrando solidarietà alla causa dei verdi, le cancellerie internazionali non si sbilanciano. Con il senno di poi tutte le rivoluzioni appaiono inevitabili, ma pronosticarle è un esercizio apparentato alla divinazione. Puntarci sopra un investimento ad alto rischio. Nel caso iraniano il genio è davvero uscito dalla lampada o i disordini di questi mesi serviranno soltanto a formalizzare la transizione tra la teocrazia dei mullah e il sultanato dei pasdaran? Nel dubbio, il popolo della piazza è tenuto a debita distanza e molti attivisti iraniani deplorano il tradimento di Barack Obama. “Sei con noi o con loro?” era uno dei ritornelli più ricorrenti alle contromanifestazioni del 4 di novembre. A Washington non c’è fretta di scegliere. La valutazione preponderante nell’Amministrazione americana è che “non sia opportuno mettere tutte le uova nel paniere dell’opposizione – sottolinea l’analista del Carnagie Endowment for International Peace Karim Sadjapour – Se da un lato l’ipotesi di una perestrojka persiana appare tutt’al più un processo a medio termine, dall’altro la possibilità di un Iran atomico è una preoccupazione immediata”. Di conseguenza, all’atto pratico, pur concedendo che “il mondo è testimone dei richiami alla giustizia e ai diritti umani dei manifestanti iraniani”, Obama anche dopo le contestate elezioni presidenziali continua a cercare di stabilire con la Repubblica islamica (e non con l’Iran tout court) “un rapporto improntato al rispetto reciproco sulla base di interessi comuni”, sottolineando che gli Stati Uniti “non intendono interferire negli affari interni iraniani”. Se la linea maestra è la non ingerenza la speranza di far capitolare Khamenei è flebile, i pronostici sull’utilità delle sanzioni sono misti, l’unica quadratura del cerchio potrebbe essere rappresentata dal collasso del sistema. Nel regime il primo a vaticinare che la terra potrebbe franare sotto i piedi della mullahcrazia è stato Mohsen Rezai. “Il proseguimento della situazione attuale – ha messo in guardia a luglio – potrebbe trascinarci verso l’implosione”. Ex comandante pasdaran, rivale conservatore di Ahmadinejad, Rezai è tutto tranne che un “perturbatore democratico”. Candidato alle elezioni, dopo aver gettato ombre sulla regolarità del voto è tornato all’ovile al primo richiamo di Khamenei. Il suo grido d’allarme riflette gli umori di larghi settori dell’establishment tradizionalista, lontano tanto dall’estremismo dei falchi quanto dalle chimere dei riformisti. Per Rezai, i vari leader Moussavi, Karroubi e Khatami stanno pericolosamente minando la solidarietà nazionale e devono fermarsi o essere fermati prima che sia troppo tardi, ma la virulenza della repressione con la sua fabbrica di simboli è altrettanto deleteria e anche i manganelli vanno frenati. Sembra ispirato dalle inquietudini di questi ambienti l’improvviso ordine di chiusura della prigione degli orrori di Kahrizak da parte di Khamenei. Anche Khatami ha prefigurato un futuro incerto per il regime. La Repubblica islamica “è in crisi” ha ammesso l’ex presidente, all’epoca di Khomeini “certe cose” non sarebbero successe. “Oggi il mondo guarda alla Repubblica islamica come a un regime illogico, duro, immorale e inumano che non rispetta i voti dei suoi cittadini”, ha detto Khatami senza peraltro offrire ricette per uscire dall’impasse. “C’è un gruppo in questo paese che vuole imporre i suoi desideri ed è pronto a sacrificare qualsiasi cosa, compresi i beni dello stato, per realizzare tali propositi”. Ma ben più scandaloso è ai suoi occhi “emarginare i simpatizzanti della rivoluzione sulla base di accuse senza fondamento, un’operazione che costituisce la più grande cospirazione contro la Repubblica Islamica”. Quello di Khatami è un accorato, malinconico e disperato appello a difesa dello status quo ante, l’età dell’oro in cui i dissidenti continuavano a venire massacrati ma dietro la rosea glossa della “democrazia islamica” in perenne divenire, quando Ahmadinejad era soltanto un sindaco molesto e non la pietra tombale sul sogno del riformismo dall’alto. Ostracizzato da ben più tempo di Khatami e dei suoi alleati, anche l’ayatollah Hossein Montazeri ha profetizzato il crollo del sistema per indegnità. Un regime che si scaglia contro la sua gente con i manganelli è non soltanto “spregevole” – ha sentenziato – ma potrebbe incorrere nello stesso destino dello scià. Entrambi hanno invocato il rispetto della Costituzione, entrambi hanno criticato Khamenei e suggerito che Khomeini è stato tradito. Da un lato ventilano l’idea di un referendum sull’assetto dello stato, dall’altro assicurano che, se la Repubblica islamica naviga in acque tumultuose, non è colpa della nave ma di chi la guida. Basteranno i vagiti di alcuni grandi ayatollah saldati alle rimostranze di una classe dirigente che, per non sparire, si aggrappa alla piazza a far esplodere la trentennale architrave khomeinista? Probabilmente no, molto dipenderà dalla collocazione del vasto partito di mezzo, ostile all’avanzata dei pasdaran, ma pragmaticamente interessato alla sopravvivenza dei propri affari, molto altro dal coraggio dei manifestanti e dalle pressioni che sapranno esercitare a dispetto della censura e della repressione. “Il regime è fragile. Come tutti i regimi autocratici è diventato rigido, paranoico, insicuro, impulsivo, goffo e illegittimo. Chi guida il regime lo sa e lo sanno gli iraniani nelle strade”, scrive il columnist del New York Times David Brooks. D’ora in poi la questione centrale nelle relazioni tra l’Iran e l’occidente non dovrebbe essere il programma nucleare. “Il regime è molto più fragile del suo programma nucleare”. Haleh Esfandiari, direttore del Woodrow Wilson Center Middle East Program confessa al Foglio di essere meno ottimista. “L’implosione? E’ da trent’anni che sento dire che al vertice si odiano e si divoreranno tra loro, ma non è mai accaduto. La violenza della repressione è stata sconvolgente e certamente ci sono contraddizioni evidenti e lotte di potere tra tecnocrati, riformisti e pasdaran, io però non penso che gli stati si dissolvano tanto facilmente. Negli ultimi giorni prima della caduta dello scià l’esercito non sparò, ma questo apparato di sicurezza è pronto a farlo. Piuttosto che un crollo, credo siano più probabili delle aperture graduali. Ahmadinejad deve riguadagnarsi il rispetto di una fetta consistente del suo stesso elettorato, soprattutto femminile e non può permettersi questo tasso di conflittualità”. Per Nayereh Tohidi, professore alla California State University Northridge e a Ucla, quella dell’implosione è una possibilità tutt’altro che peregrina. Spiega che il paragone spesso evocato con Tiennamen non regge. “In Cina vinse la repressione perché c’era un gruppo di potere coeso con un’ideologia forte, un regime centralizzato e compatto. In Iran, non più del 15 per cento della popolazione li sostiene e a minacciare la sopravvivenza del regime non ci sono soltanto le istanze della piazza. Al vertice della piramide del potere, le differenze ideologiche sono profonde. I chierici sono divisi da conflitti fratricidi, ci sono guerre all’interno dell’intelligence e nella polizia, l’esercito è in contrasto con i pasdaran e i pasdaran stessi non sono un blocco compatto, il 70 per cento in passato ha votato per Khatami”. Quanto al fatto che i leader del movimento siano figli della rivoluzione e tutt’altro che votati alla sua sconfitta, Tohidi nota che “anche Gorbaciov diceva di non voler abbattere il sistema e poi l’Unione Sovietica crollò”. In un’articolo su Newsweek intitolato “The wall isn’t falling” Fareed Zakaria confuta i paralleli storici con la caduta del comunismo. Nonostante la perdita di legittimità – argomenta Zakaria – il regime sarà in grado di utilizzare i suoi fucili e i suoi capitali per consolidare il potere. Sebbene il vento della democrazia soffi contro il regime e la maggior parte degli iraniani sia stanca della teocrazia, secondo Zakaria la forza della religione è ancora abbastanza potente da preservare un bacino di consenso per Ahmadinejad. E’ una lettura della società iraniana agli antipodi con quella che offre al Foglio Mehdi Khalaji, figlio di ayatollah, già seminarista a Qom e analista del Washington Institute for Near East Policy: “La società iraniana è profondamente desacralizzata, il che non vuol dire che sia irreligiosa, ma che l’islam politico ha immunizzato il corpo sociale dalla religione amministrata dallo stato”. Secondo Khalaji, “ormai in Iran comanda un clan militare, Qom politicamente è morta e l’islamismo politico in Iran non ha futuro”. Nelle piazze non solo si contesta il velayat-e-faghih (il potere supremo di un giureconsulto eletto a vita) ma si urla “assassino” a Khamenei. E’ troppo tardi per le ricette “islam-light” dei grandi ayatollah Sanaei e Montazeri, così come per il gradualismo invocato dagli intellettuali vicini a Khatami: “L’esperimento con la ‘democrazia islamica’ è già stato fatto e gli iraniani sono rimasti con un pugno di mosche”. E’ presto per dire se sarà solo una rivolta, o se dalla rivolta si approderà a una rivoluzione o a un’implosione, ma è difficile credere a Khamenei quando rassicura: “Non vi preoccupate. Dimenticateli. Sono soltanto un’accozzaglia di rivoluzionari fiaccati dal tempo. Noi non siamo mai stati così forti”.

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