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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.11.2009 Sergio Romano: adesso difende anche la Repubblica di Vichy
Invitiamo i lettori a protestare con il Corriere

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 novembre 2009
Pagina: 43
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Vichy e Salò: confronto fra i due regimi sconfitti»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/11/2009, a pag. 43, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Vichy e Salò: confronto fra i due regimi sconfitti ".

 
Philippe Petaine

Romano, più che fare un confronto fra Repubblica di Vichy e Repubblica di Salò ( ciò che gli viene richiesto dal lettore), scrive una difesa assurda della prima.
La Repubblica di Vichy non fu altro che un'appendice della Germania, asservita agli ordini del Terzo Reich e colpevole dei suoi stessi crimini.
Prendiamo atto dell'apologia che ne ha fatto Sergio Romano.
Invitiamo i lettori di IC a protestare con il direttore Ferruccio De Bortoli per la pubblicazione della gravissima risposta di Sergio Romano.
Ecco lettera e risposta di Romano:

Crede sia possibile un parallelo tra lo spirito di Vichy e quello della Repubblica Sociale? Secondo me è improponibile. La Francia, dopo essere stata sconfitta e umiliata dai panzer tedeschi, non è stata poi umiliata al tavolo della pace. Al di là della firma nella stessa vettura ferroviaria di 20 anni prima, la pace hitleriana è stata non solo cavalleresca, ma persino generosa. E noi? La Rsi veniva dopo il tragico 8 settembre, con la fuga vergognosa del re Vittorio Emanuele III e del generale Pietro Badoglio. Il discorso è certamente lungo ma a grandi linee, lo spirito di Vichy e quello della Rsi sono due aspetti diversissimi e tra loro non confrontabili. È d’accordo con la mia analisi?

Donato Mutarelli
Cusago
(Mi)

Caro Mutarelli,

P
rima di confrontare il re­gime di Vichy, creato dal maresciallo Pétain dopo la sconfitta e la firma dell’armistizio di Compiè­gne, converrebbe rispondere a una domanda: quale regi­me di Vichy? Ve ne furono al­meno due.
Il primo, sino al 1942, poté contare sul consenso di una larga parte della società fran­cese. Molti videro nella scon­fitta la possibile rinascita di una Francia cattolica e rura­le, rispettosa delle sue tradi­zioni politiche e religiose, fi­nalmente libera dai falsi idea­li
e dalle terribili utopie che avevano agitato la sua storia dopo la Grande rivoluzione. Pétain, in quegli anni, fu il pa­dre saggio e affettuoso che avrebbe riscattato il Paese dai tragici errori del parla­mentarismo, del laicismo, della democrazia ciarliera e inconcludente. La Germania, dal canto suo, favorì la popo­­larità del maresciallo trattan­do la Francia alla stregua di un Paese che avrebbe avuto dopo la guerra un ruolo im­portante.
Questa luna di miele fra Pétain e il suo popolo durò si­no
alla fine del 1942, quando le prime sconfitte tedesche cambiarono il quadro strate­gico europeo. Molti collabo­ratori del regime (Mitterrand per esempio) passarono alla Resistenza, il vecchio Pétain divenne sempre meno auto­revole e la direzione dello Sta­to finì quasi interamente nel­le mani di coloro per cui l’amicizia e la collaborazione con la Germania erano anzi­tutto scelte ideologiche.
Anche la Repubblica Socia­le, come lo Stato di Vichy, eb­be un’anima restauratrice. Ma i valori da restaurare, in questo caso, erano quelli re­pubblicani e sociali del pri­mo movimento fascista che il regime di Mussolini, secon­do i suoi critici interni, aveva progressivamente abbando­nato,
se non addirittura tradi­to. Quanto al ruolo dei due Paesi dopo la guerra, se la Germania ne fosse uscita vin­citrice, quello dell’Italia sareb­be stato più modesto di quel­lo che il Reich avrebbe riser­vato alla Francia. L’esercito francese si era rapidamente disfatto, ma la Francia era pur sempre, agli occhi di Ber­lino, una Potenza europea mondiale, necessaria agli equilibri internazionali. L’Ita­lia invece, per i tedeschi, era il Paese che aveva fatto guer­re sbagliate, le aveva perdute e aveva, alla fine, «tradito». Un giudizio duro, pronuncia­to da un cattedra che non ave­va il diritto di emettere sen­tenze, ma non del tutto infon­dato.

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