Con questo articolo sull'Arabia Saudita, Zvi Mazel inizia la sua collaborazione con Informazione Corretta, che pubblicherà le sue analisi sul Medio Oriente in lingua italiana.
Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto e Svezia. Collabora al Jerusalem Post. Le sue analisi sul mondo arabo sono ospitate in alcuni fra i Think Tank più importanti in Israele.
(traduzione a cura di Emanuel Segre Amar)
Arabia Saudita, una corsa contro il tempo
Re Abdullah
L'Arabia Saudita in una corsa contro il tempo. L'Arabia Saudita è uno dei regimi più autoritari del mondo. Essa ha una politica di discriminazione nei confronti delle donne, non ha nessuna attenzione per i diritti umani, ed ha una totale mancanza di democrazia. La rigida applicazione della Shari'a, la legge islamica, conduce ad atrocità enormi quali il mettere a morte le donne per lapidazione, il tagliare le mani ai ladri e l'indiscriminato uso della pena di morte.
Il regno è il centro dell'Islam ultra-conservatore Wahabita, ed elargisce grandi quantità di denaro per la creazione di moschee e di centri culturali islamici in giro per il mondo, luoghi nei quali si insegnano le forme più estreme della religione.
Inoltre i Sauditi hanno aiutato i talebani in Afghanistan e Hamas a Gaza, salvo poi bloccare questi aiuti, ma solo quando hanno realizzato che entrambi questi gruppi creavano enormi minacce interne. Tutto ciò non ha aiutato a migliorare l'immagine dell'Arabia Saudita nel mondo, un'immagine che fu danneggiata quando venne rivelato che 16 dei 18 terroristi che lanciarono gli attacchi dell'11/9 su New York erano di nazionalità saudita.
In seguito a questa scoperta, molti ufficiali americani richiesero un raffreddamento drastico delle relazioni con il regno saudita. Oggi il re Abdullah bin Abdul Aziz si impegna disperatamente per migliorare l'immagine del suo paese nel mondo e introdurre quelle riforme considerate più necessarie. Ma lo fa mentre deve far fronte a due minacce molto serie alla stabilità del regno: Al- Qaida e le attività sovversive dell'Iran.
L'Arabia Saudita, ricca di petrolio, è una monarchia assoluta. Secondo la legge fondamentale del 1992, deve essere guidata da un discendente del re Abdel Aziz Al Saud. Inoltre, dal momento che il Corano è l'unica costituzione del regno, deve essere governata secondo le leggi islamiche.
Entrambi questi elementi avrebbero dovuto rendere la monarchia meno vulnerabile alle influenze della modernità di tutti gli altri stati arabi o islamici. Ma dal momento che l'attuale cultura globale si incunea con tanta facilità, alcuni cambiamenti si sono dimostrati inevitabili. Il re Abdullah è stato abbastanza saggio da comprendere che la sua famiglia avrebbe, alla fine, dovuto pagare un prezzo elevato se egli non avesse iniziato alcune di quelle riforme tanto disperatamente richieste dalle generazioni più giovani, e anche dalle donne che sono ancora soggette a discriminazioni e repressioni.
Non appena salì sul trono nel 2005, egli si impegnò a riformare le istituzioni culturali e giuridiche per sciogliere il laccio che strangolava l'establishment religioso wahabita. Uno dei suoi primi atti fu la nomina di responsabili più giovani e liberali al ministero dell'educazione per modernizzare i curricula scolastici.
Non è tuttavia chiaro quali progressi abbia compiuto, ammesso che ce ne siano stati. La principessa Adala, una delle figlie del re, è stata a sua volta molto attiva nel promuovere migliori condizioni per le donne. Sotto la sua guida la ginnastica è stata introdotta in tutte le scuole femminili pubbliche e private. Si sono aperti dei clubs sportivi e dedicati alla salute riservati alle donne, e queste si sono visto riconosciuto il diritto di partecipare alle competizioni nazionali ed internazionali.
La settimana scorsa si è inaugurata l'Università del re Abdullah di scienze e tecnologie, un'istituzione che non è solo materialmente, ma anche culturalmente lo stato dell'arte. Mentre il regno deve ancora permettere ad uomini e donne di studiare insieme, l'Università rompe con le tradizioni e permette il contatto fra uomini e donne. Inoltre, anche se alle donne non è permesso guidare od uscire di casa se non accompagnate da un uomo della famiglia per viaggiare all'interno del regno, all'interno dei campus universitari le donne hanno il permesso di guidare.
L'apertura dell'Università, unita questa all'introduzione degli sports nelle scuole femminili, non porterà cambiamenti radicali in Arabia Saudita, ma è un primo passo verso la giusta direzione. Non deve quindi sorprendere se queste innovazioni hanno sollevato l'ira delle forze conservatrici. Al momento il re, che ha il completo e sentito appoggio degli accademici e dei liberali, non ha ancora firmato.
Ma per far vedere che Abdullah non tollererà dissensi, ha rifiutato le obiezioni di uno dei più importanti leaders religiosi, lo sceicco Saad Bin Nasser al-Shetri, che aveva condannato con forza l'abolizione della separazione dei sessi nella nuova Università.
Oltre a quello dei leaders religiosi, il re deve fronteggiare anche il dissenso della sua stessa corte di fronte a questa modernizzazione nell'educazione. Questi oppositori sono guidati dal ministro degli interni, il principe Naef, che ha dichiarato pubblicamente di essere contro la liberalizzazione della condizione femminile.
Tuttavia il re ha numerosi alleati all'interno della famiglia reale, ed anche loro si fanno sentire. Il principe Walid bin Talal, che è molto conosciuto in occidente per le sue idee liberali, è stato ripreso in un video al fianco di sua moglie mentre essa dichiara di guidare tranquillamente quando si trova all'estero, e di sperare di poterlo fare anche nel proprio paese. Non vi è dubbio che il re abbia concesso il proprio consenso a questa dichiarazione. Quando ha iniziato le sue riforme del sistema giudiziario,
Abdullah ha parimenti preso delle decisioni di rottura. Il licenziamento del capo della Corte Suprema e di numerose alte personalità, membri dell’ufficio del Mufti (Dar el Iftaa), è stato un atto paragonabile ad una dichiarazione di guerra al rigido establishment islamico.
Nonostante tutti questi progressi, il re Abdullah è tuttora sotto il fuoco di coloro che ritengono che egli continui a muoversi troppo lentamente. Pochi mesi orsono, i sauditi favorevoli ad una monarchia costituzionale hanno richiesto al re di concedere a coloro che non fanno parte della famiglia reale di poter partecipare ai concorsi per i posti pubblici di primo piano, compreso l’incarico di primo ministro. Inoltre lo hanno messo sotto pressione affinché prepari l’ossatura di una costituzione.
Da un altro fronte, il regno è stato criticato, secondo metodi che non hanno precedenti, da un’organizzazione locale di diritti umani. Nel suo rapporto annuale, l’associazione saudita dei diritti umani ha criticato duramente e pubblicamente, per la prima volta, istituzioni governative che violano i diritti umani, e, con una particolare attenzione, il ministero degli interni ed il così detto osservatorio della modestia. Il re ha fatto dei passi, recentemente, per far conoscere la sua attenta preoccupazione.
La settimana scorsa ha firmato una legge innovativa che permette alle istituzioni governative ed educative di promuovere la “cultura dei diritti umani”, un insieme di principi compatibili con la legge islamica che danno spiegazioni dettagliate sui diritti umani e le spiegazioni per salvaguardarli. Ora le discussioni continuano sulla efficacia delle riforme.
Più di recente due giornali islamici che si oppongono alle riforme sono stati chiusi, anche se nelle zone tribali, dove le tradizioni sono tuttora molto sentite, la popolazione si mostra prudente prima di concedere maggiori libertà alle donne. Molto più minacciose delle critiche interne alle riforme sono, per il re, le due maggiori sfide che si trova a dover fronteggiare. Al-Qaida ha lanciato un gran numero di attacchi terroristici all’interno del regno negli ultimi cinque anni, con l’obiettivo espressamente dichiarato di abbattere la monarchia, che viene vista come colpevole di “tradimento dell’Islam” per aver concesso agli USA di installare delle basi militari sul suo suolo.
Queste basi sono in seguito state trasferite in Qatar, ma per al-Qaida questo non è sufficiente. Agli stranieri è tuttora concesso di vivere nella penisola arabica, e per al-Qaida questa trasgressione – di permettere agli infedeli di risiedere nella stessa terra dove il profeta Maometto è nato ed è seppellito – richiede l’imposizione di un puro regime islamico al posto della monarchia. E non vi è bisogno di dire che al-Qaida è anche esasperata per i tentativi di riforma del re.
Abdullah ha combattuto strenuamente contro queste minacce, e nell’ultimo anno le sue forze di sicurezza hanno ucciso, o arrestato, molti membri di questa organizzazione. Inoltre, mentre al-Qaida rimane attiva sul territorio, i suoi eventuali passi falsi gli possono costare degli appoggi a lunga scadenza. Più di recente l’organizzazione ha lanciato un’azione, fallita, per assassinare il principe Muhammed Bin Naef, figlio del ministro degli interni, responsabile della lotta contro il terrorismo.
Scioccati per un’azione vista come un atto sacrilego, i leaders tribali conservatori, che erano stati visti come abbastanza favorevoli nei confronti di al-Qaida, hanno confermato la loro obbedienza al regime. L’altra minaccia esterna è quella dell’Iran sciita, che vede nell’Arabia Saudita, il cuore dell’Islam sunnita, il maggiore ostacolo sul suo cammino che tende a promuovere la rivoluzione islamica.
Il pericolo più evidente creato da Teheran sta nel suo programma nucleare. Qualora l’Iran ottenesse la bomba, l’Arabia Saudita sarebbe senza difese senza la protezione americana. Per questo è probabile che il regno segretamente speri che Israele elimini la minaccia distruggendo le installazioni nucleari. Ma che l’Iran costruisca, o non costruisca, la bomba in futuro, non esclude i pericoli che vengono dalla realtà immediata.
E’ particolarmente importante ora che l’Iran cerca di destabilizzare le province orientali della penisola arabica, dove si trova gran parte delle riserve petrolifere, e dove vive il gruppo più numeroso della minoranza sciita. Se l’Iran dovesse scatenare questa minoranza contro il regime, o favorire una resistenza armata, sarebbe davvero un colpo mortale per la regione, dal momento che l’Arabia Saudita, senza le sue riserve petrolifere, non sarebbe più una potenza.
Mentre il re Abdullah ha preso misure efficaci per prevenire una simile situazione sia visitando l’area, sia promettendo grandi quantità di denaro per migliorare le infrastrutture locali e lo standard di vita, vi è tuttora un potenziale di instabilità.
Oltre il confine occidentale, nello Yemen, delle truppe governative sono continuamente in guerra contro i clan ribelli Huthi, sostenuti dall’Iran.
Una violenza che potrebbe ricadere sull’Arabia Saudita, nonostante gli sforzi interni fatti da Abdullah.
L’Arabia Saudita ha provato a prendere l’iniziativa, fronteggiando l’influenza iraniana nella regione, con un’intensa attività diplomatica, ma questa azione ha, al momento, sortito scarsi risultati. Il regno ha tentato di promuovere azioni politiche ed economiche comuni con gli stati del Golfo tramite il Consiglio per la cooperazione del Golfo, ma Qatar, Bahrain e Kuwait devono ancora entrare pienamente nel comitato.
Altre potenze mondiali hanno tentato di assistere l’Arabia Saudita nei suoi tentativi di bloccare l’influenza iraniana, in particolare spingendo il regno ad essere un amico dell’alleato più stretto dell’Iran: la Siria. Le relazioni tra Riyad e Damasco si sono molto raffreddate dopo il 2005, quando venne ucciso il primo ministro libanese, Rafik Hariri, un amico molto vicino alla famiglia reale. Insieme all’Egitto, l’Arabia Saudita era in primo piano nel tentativo di isolare la Siria, un piano favorito anche da altri stati arabi pragmatici come la Giordania ed il Marocco.
Il piano aveva il pieno sostegno degli USA, che imposero sanzioni economiche su Damasco e richiamarono l’Ambasciatore, ed anche dell’Unione Europea, che sospese la firma di un accordo economico con la Siria. Recentemente, tuttavia, il vento diplomatico è cambiato.
Il Presidente francese Nicolas Sarkozy ha cercato di ribaltare l’isolamento invitando il Presidente siriano Bashar Assad a Parigi per prendere parte attiva al suo grande progetto, “l’Unione del Mediterraneo”. Ed in aggiunta a ciò il Presidente USA Barack Obama ha riallacciato il dialogo con la Siria. L’Arabia Saudita, con riluttanza, ha seguito questa strada, ed il re Abdullah stesso è andato ad incontrare Assad a Damasco il mese scorso.
Ma l’unico risultato concreto dell’incontro è stato lo scambio di ambasciatori tra Riyadh e Damasco, un passo che in realtà era già avvenuto prima della stessa visita.
Mentre differenze sul piano religioso tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita possono talvolta assumere toni di ostilità, queste stesse non sono mai così evidenti come quando si manifestano durante i pellegrinaggi. Il leader supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, ed il Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, hanno fatto dei discorsi altamente incendiari, promettendo terribili conseguenze qualora i pellegrini iraniani che vanno alla Mecca per il haj venissero sottoposti a qualche forma di molestia.
L’Arabia Saudita ed altre nazioni arabe l' hanno interpretato come un segnale che i pellegrini avessero l’intenzione di fare delle dimostrazioni alla Mecca, il che creerebbe un grave imbarazzo al re, e provocherebbe agitazioni nel Paese. Ci fu una violenta reazione non solo da parte delle autorità saudite, che sminuirono la pratica del pellegrinaggio fatto a scopi politici, ma anche dai leaders religiosi della famosa Università egiziana Al Azhar.
Questo contrasto non è senza precedenti. Nel 1987 delle dimostrazioni di pellegrini iraniani alla Mecca causarono l’intervento della Guardia Nazionale Saudita che provocò centinaia di morti e feriti.
Forse ricordando quell’episodio Teheran ha fatto marcia indietro circa le intenzioni dei suoi leaders allorquando un portavoce governativo ha dichiarato che non vi era intenzione di fare delle dimostrazioni, e dicendo che i pellegrini si sarebbero comportati secondo le istruzioni ricevute da Khamenei con l’obiettivo di rinforzare la solidarietà tra tutti gli islamici.
Il re sa che il tempo stringe, ha 86 anni e sa pure che alcuni tra i suoi potenziali eredi hanno la sua stessa età. Sultan, principe della Corona, un altro figlio del re Saud, ha 83 anni ed è in condizioni di salute per niente buone. Per questa ragione la famiglia reale ha deciso nel 2006 di creare un “comitato di fedeltà” con l’incarico di gestire il regno – se necessario – finché un successore adatto sia stato scelto.
Un altro figlio e potenziale erede è il principe Naef Bin Abdul Aziz. Nonostante sia il quinto nella scala di successione, è stato eletto secondo sostituto Primo Ministro, diventando con ciò il terzo personaggio più potente nel regno. Egli ha 76 anni ed è stato ministro degli interni per quasi 40 anni. Nonostante la sua età, potrebbe sicuramente salire al trono. Il vecchio re continua a lavorare per lasciare il suo paese nelle migliori condizioni possibili per chiunque gli debba succedere, ma la sua è una lotta contro il tempo.
E' un riformatore per necessità, non per convincimento. Portato al potere da un ambiente ultra-conservatore di un Islam strettamente wahabita, per la sua età e la sua educazione non può essere ricettivo dell’idea di una monarchia costituzionale. Sotto la sua mano ferma e sicura l’Arabia Saudita è rimasta un’isola di stabilità e pragmatismo di fronte al sorgere di un Islam fondamentalista e allo sforzo vigoroso dell’Iran di esportare la rivoluzione islamica.
Ciò detto, tre fattori hanno tenuto l’Arabia Saudita stabile fino ad oggi: l’esportazione di petrolio, l’aiuto degli USA e l’abilità della famiglia reale nel governare. Continuerà così in futuro come è stato negli ultimi 80 anni? Questa è la domanda che dobbiamo porci.